| |
 |
|
|
|
|
|
 |
 |
|
VI
incontro |
|
8
maggio
2012 |
|
L’analisi dell’incontro prende spunto da una sollecitazione
culturale da parte del presidente del Circolo Culturale
“L’Agorà” Gianni Aiello che ha dato modo al relatore
dell’incontro, Riccardo Partinico, di effettuare alcune
analisi sul luogo della fucilazione di Gioacchino Murat
avvenuta, come la storiografia ufficiale
afferma e cioè all’interno del castello di Pizzo
Calabro il 13 ottobre 1815.
I dati
emersi, realizzati su indicazioni da parte di Gianni Aiello
e sviluppati successivamente da Riccardo Partitico sono
stati resi noti proprio nel corso della manifestazione,
grazie anche all’ausilio di diverse immagini.
Tutti
gli incontri organizzati dal sodalizio reggino poggiano le
loro basi sull’analisi di variegati documenti archivistici
che hanno dato modo di rivalutare il periodo storico in
questione.
Questa
volta invece verranno esaminati altri documenti e nello
specifico si tratterà di indagini balistiche.
I
risultati emersi nel corso dell’incontro hanno dato degli
sviluppi interessanti a ciò che accadde in quel pomeriggio,
quando dopo un sommario processo venne eseguita la condanna
a morte del Re di Napoli, Gioacchino Murat.
Durante
l’incontro sono esaminate anche le tipologie delle armi del
periodo che furono strumento dell’esecuzione del cognato di
Napoleone Bonaparte e ci sarà anche il supporto logistico di
alcuni esperti del settore che daranno il loro autorevole
giudizio sugli esiti delle ricerche analizzate da Riccardo
Partinico.
Altri
sono gli interrogativi legati alle ultime ore del Re che
riguardano soprattutto la sorte delle sue spoglie che non
furono mai rinvenute, ma queste domande saranno oggetto di
ulteriori ricerche da parte del sodalizio reggino.
 |
|
«La storia
– dice Gianni Aiello – è una
materia elastica, sempre in movimento, nel senso che non può
rimanere ancorata a ciò che ci è stato tramandato. |
|
|
Essa è costituita da documenti e dal
ritrovamento di altri che ne provocano una sorta di
"revisione" non in funzione del cambiamento ma della
veridicità degli avvenimenti.
Non ci si può fermare alla semplice
narrazione dei fatti, nella fattispecie a quelli relativi
alla fucilazione, dopo un processo sommario, del Re di
Napoli Gioacchino Murat
- afferma il presidente del
Circolo Culturale L’Agorà - ma
alla ricerca di nuovi documenti che mettano poi in chiara
discussione ciò che una "certa storiografia" vuol fare
credere.
Oggi si analizzano altri documenti, le
indagini balistiche che confermano che il luogo della
fucilazione di Gioacchino Murat non è quello ritenuto tale.
|
 |
|
La parola è passata poi a Riccardo Partinico che ha
esordito dicendo: «Sono stato Ufficiale
dell’Esercito Italiano, Istruttore e Direttore di
Tiro con armi da fuoco, Socio Fondatore del Poligono
di Tiro “Città dello Stretto”, da oltre trent’anni
frequento i poligoni di Tiro e sparo con fucili e
pistole. Ho accettato volentieri l’invito del
Presidente dell’Agorà, Gianni Aiello, a recarmi a
Pizzo Calabro per “visionare” il luogo della
“fucilazione” di Gioacchino Murat ed esprimere un
parere tecnico. Posso certamente affermare che
quanto riportato sui documenti affissi nel castello
di Pizzo Calabro non può essere vero per i motivi
che di seguito andrò ad esporre nel
corso del mio intervento.» |
|
|
|
Il Castello Aragonese di Pizzo
Calabro è famoso perché la Storia racconta che
proprio lì, il 13 ottobre 1815,
venne fucilato Gioacchino Murat, dopo un
processo sommario.
Oggi, il luogo della fucilazione è
rappresentato da tre “soldati” schierati accanto
alla cella dove fu detenuto Gioacchino Murat, da
“Gioacchino Murat”, posto di fronte ad essi ad una
distanza di 5 metri e da una pergamena, sulla quale
sono descritti gli ultimi momenti di vita del ex Re
di Napoli. |
 |
|
Il relatore pone
all'attenzione del pubblico quanto viene riportato in un
foglio affisso proprio all'interno del castello napitino
dove vi è scritto:
“da circa due ore il processo a
Gioacchino Murat si era concluso con la sentenza a
morte, tramite fucilazione. Notificata al detenuto,
il cognato di Napoleone l’accolse con coraggio.
Volle farsi bello e chiese come ultimo desiderio di
comandare lui stesso il plotone. Ecco, come
testimoni del fatto, riportano quel tragico momento:
“...Arrivato al luogo della fucilazione, ch’era a
pochi passi dalla cella, Murat chiese agli ufficiali
borbonici dove si doveva mettere. Gli fu indicato
quasi di addossarsi ad un muro. Era, in quell’attimo
estremo, ben vestito come se dovesse partecipare ad
una parata, i capelli neri e ben pettinati, la sua
figura possente (era alto 1,86) dominava tutto il
piccolo vaglio del castello di Pizzo.
 |
|
La tranquillità dei modi e
del parlare atterrirono i suoi carnefici
tanto che anche gli altri carcerati del
castello (anche i comuni delinquenti)
rimasero tutti impressionati di quel
coraggio. Murat rifiutò sedia e benda e si
pose altero innanzi al plotone dicendo:
“Amici miei sapete che sono io a comandare
il fuoco; il cortile è assai stretto poiché
voi possiate mirare giusto. Solo cercate di
mirare al petto e salvare il viso.
Alla parola “FUOCO” solo tre
pallottole partirono ma non lo colpirono.
|
|
“Grazie amici, disse, ma dovrò morire
per mano vostra quindi ricominciamo e niente grazia,
ve ne prego. Ridiede il comando: “Puntate FUOCO”,
questa volta Murat cadde fulminato. Una pallottola
gli sfigurò il bel volto mentre due lo colpirono al
cuore. Nella notte, quasi furtivamente, fu sepolto
nella terza fossa comune della chiesa di San Giorgio
di Pizzo." |
|
Riccardo Partinico passa
ad analizzare i fatti riportati dalla
storia secondo i quali
Gioacchino Murat si trova con le spalle
appoggiate ad una parete di pietra ed il plotone
d’esecuzione, composto di tre soldati armati di fucili ad
avancarica, è posto a metri cinque di
distanza, accanto all’ingresso della cella del condannato a
morte. Il plotone, comandato dallo stesso condannato, spara
la prima volta mancando, volontariamente, il bersaglio e,
poi, su ordine dello stesso Murat, spara altri tre colpi
colpendolo in testa e al cuore.
Mentre le conclusioni
tecniche e logiche portano alle conclusioni che le
armi utilizzate dai soldati all’inizio del 1800 sono fucili
ad avancarica a canna liscia che utilizzano polvere nera per
lanciare un unico proiettile ad una velocità di 350 metri al
secondo. Questo significa che sparando un colpo di fucile
alla distanza di 5 metri su di una parete di roccia il
proiettile rimbalza su chi ha sparato.
All’interno del castello di Pizzo, nell’area indicata come
luogo di esecuzione, la situazione è ancora più pericolosa.
Infatti, oltre alla parete di roccia, posta a 5 metri,
esiste un’altra parete di roccia sulla sinistra del
“plotone” ed un muretto di pietre di fronte.
In definitiva, soltanto un pazzo si azzarderebbe a sparare
un colpo di fucile in quel luogo.
Le regole generali di un esercito militare sono comuni in
tutto il mondo: ordine, disciplina, professionalità,
legalità.
Anche i Borboni di Federico IV erano un esercito
organizzato.
Un plotone d’esecuzione militare deve “garantire” al
condannato la probabilità di una morte rapida, per questo
deve essere numeroso.
 |
|
Generalmente un Plotone è costituito di 12 fucilieri
ed un graduato.
Un ufficiale deve assistere alle operazioni di tiro.
Accanto alla cella dove è stato rinchiuso Murat, non
possono allinearsi più di tre uomini. |
I luoghi prescelti per le esercitazioni con armi da fuoco
devono possedere i requisiti minimi di sicurezza.
Per questo i poligoni mobili sono approntati nelle cave di
sabbia.
Nessun militare può ricevere ordini da soggetti diversi dal
proprio superiore.
Gioacchino Murat, quindi, non poteva dirigere il plotone
d’esecuzione.
Si può concludere affermando senza dubbio che quanto
riportato dalla Storia è smentito categoricamente dalla
logica.
Adesso
altri sono gli interrogativi legati alle ultime ore del Re
che riguardano soprattutto la sorte delle sue spoglie che
non furono mai rinvenute.
Ma queste domande saranno oggetto di
ulteriori ricerche da parte del sodalizio reggino
|
|
|
|
|
|