Un obiettivo che allora ci ponemmo
fu innanzitutto quello di contribuire a fare luce
sull’argomento, cercando di approfondire quegli aspetti
sociali, economici, psicologici, che portarono un popolo
intero a sostenere la protesta.
Abbandonare quindi i luoghi comuni,
quali “rivolta fascista”, “rivolta per un pennacchio”,
concetti come “campanilismo”.
Tirare fuori le reali cause che
determinarono scelte politiche che videro gli interessi
legittimi di Reggio soccombere rispetto a quelli di
altre città calabresi più piccole ma meglio
rappresentate.
Altro obiettivo è stato ed è per noi
quello di rendere più a portata di tutti la conoscenza
di quei fatti.
Anche oggi, se chiediamo ad un
giovane cosa sappia della rivolta di Reggio, il più
delle volte ci sentiamo rispondere in maniera generica
“la rivolta per il capoluogo”, o addirittura neanche
quello.
Ecco quindi che nasce l’esigenza di
far conoscere alle nuove generazioni un evento
determinante della storia della loro città e dell’Italia
che non troveranno se non in maniera telegrafica sui
libri di storia.
Ciò ci ha convinto a realizzare
pubblicazioni direi anche alternative sui moti del ’70,
quale ad esempio il romanzo di Giuseppe Criaco, ANCHE IO
HO VISTO I BLINDATI (2010), ambientato in quei giorni,
in cui alcuni personaggi di fantasia si trovano a vivere
intensamente tutti gli eventi, da un assolato pomeriggio
del 5 luglio, quando un Fiat giardinetta annunciava, in
giro per le strade, il rapporto alla città del sindaco
Battaglia che si sarebbe tenuto di lì a poche ore, fino
all’epilogo finale dell’arrivo dei blindati.
Un modo diverso di leggere la
rivolta e, dato il rigoroso rispetto dei fatti storici
da parte dell’autore, una maniera alternativa di
approfondirne la conoscenza.
Cito, tra i nostra autori che hanno
trattato aspetti rilevanti della Rivolta di Reggio,
Francesco Scarpino, classe 1971, che ha realizzato due
pubblicazioni LA RIVOLTA DI REGGIO CALABRIA TRA CRONACA
E MASS-MEDIA (1998), e UN POPOLO IN RIVOLTA I MOTI DI
REGGIO CALABRIA DEL 1970 E LA POLITICA (2000).
La prima ha dimostrato come la
stragrande maggioranza dei giornali nazionali trattava
in maniera faziosa ciò che accadeva a Reggio e come la
città ed i suoi abitanti apparivano non vittime bensì
carnefici di una violenza apparentemente senza senso.
La rilettura dei giornali stranieri
dimostrava come invece la stampa “libera” riportasse una
diversa lettura dei fatti, più attinente alla realtà,
approfondendo e comprendo le motivazioni del popolo
reggino, completamente abbandonato a sé stesso e senza
prospettiva di crescita. D’altro canto mio padre, allora
a Milano, mi ha raccontato della falsità della stampa
“di regime” la cui corrispondenza confrontava per
telefono con le informazioni che quotidianamente gli
comunicava suo padre, cioè mio nonno.
Un popolo in rivolta, sempre di
Scarpino, analizza gli aspetti “politici” legati alla
rivolta, ciò che fu detto e fatto nei luoghi della
politica, dal consiglio comunale di Reggio fino al
Parlamento, dimostrando come alla fine, la politica, coi
suoi giochi sporchi, fu tra i principali responsabili
della violenza che scoppiò.
Sempre Scarpino, assieme a Giusva
Branca, è l’autore del saggio REGGIO CALABRIA E LA SUA
REGGINA (2002), un’opera che ripercorre la storia della
città in parallelo a quella della squadra di calcio.
Anche qui la Rivolta del 1970 segna una tappa
fondamentale, ed anche l’attività sportiva ne fu
parecchio condizionata (si ricordino gli scontri
sportivi tra la Reggina ed il Catanzaro).
Un aspetto di certo più umoristico,
anche della rivolta, viene espresso nel romanzo di
Danilo Aceto, LA STIDDHA DEL CATUSO (2007), dove sui
fatti di Reggio si può anche ironizzare.
I GIORNI DEL RAGNO, di Giusva Branca
(2010), di recente pubblicazione, è un esaustivo saggio
che ricollega tutto ciò che accadde in Italia nei primi
anni ’70. Tra i luoghi strategici degli avvenimenti che
stavano terrorizzando il Paese, oltre Roma, Palermo e
Milano, l’autore comprende anche Reggio Calabria, teatro
di quella Rivolta e città dove la malavita organizzata
si presentava in prepotente ascesa.
Concludo questo excursus sulle
pubblicazioni Laruffa Editore, citando Mimmo Nunnari, di
cui già pubblicammo STORIA DELLA RIVOLTA nell’anno 2000.
Di recente abbiamo stampato La lunga notte della
Rivolta, un saggio che ha voluto, dopo ormai
quarant’anni, esaminare serenamente le cause e gli
effetti di una rivolta, frutto non di un attaccamento al
pennacchio ma di ben più complesse cause, dove un popolo
ad un certo punto si è sentito completamente fuori da
uno Stato totalmente assente ed insensibile alle proprie
esigenze e ai propri problemi.
nella società le persone, non
necessariamente intellettuali di professione, che
avessero delle storie da raccontare; un esercizio che
doveva essere non solo mnemonico ma anche
interpretativo, una testimonianza non fredda e
cronachistica ma che doveva essere accompagnata da
considerazioni pertinenti, che aiutassero il lettore a
meglio comprendere il contesto che l’aveva generata.
Questa raccolta della memoria poteva anche essere svolta
da giovani studiosi, che avrebbero potuto integrare le
testimonianze con ricerche storiche d’archivio.
Da questo metodo è nato il primo
grande successo editoriale, quel “Cinque anarchici del
Sud” che avrebbe lanciato la mia casa editrice nel
panorama nazionale ed il suo autore, Fabio Cuzzola,
nell’agone accademico.
Fabio Cuzzola, nel 2001 quando uscì
il libro, era un giovane docente di italiano e storia,
con qualche esperienza di scrittura maturata su giornali
locali, tra cui il mio “laltrareggio”.
L’idea del libro nacque nell’estate
del 2000 proprio in redazione; la storia dei cinque
anarchici (Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo,
Luigi Lo Celso e Annalise Borth) era una storia che ha
segnato la mia generazione e che tutti i reduci di
quella stagione ci portavamo dentro come un lutto non
elaborato.
Fabio è nato nel 1969, all’epoca dei
fatti aveva appena un anno, non conosceva per nulla
quella storia, rimase folgorato dalla mia narrazione e
passò i sei mesi successivi a scavare negli archivi, a
rintracciare testimoni e parenti, a tessere le fila di
una vicenda che si rilevava ogni giorno sempre più
paradigmatica del contesto storico in cui si era svolta.
Come mirabilmente ha scritto Tonino
Perna nella prefazione del libro: “Una storia, tante
storie che non si possono perdere senza perdere una
parte di noi stessi e della memoria storica della città
di Reggio che in quell’anno fatale viveva uno dei
momenti più contraddittori e drammatici della sua
storia.
Si sono scritti tanti volumi sulla
città dei Boia chi molla, ci si è divisi tra denigratori
e nostalgici di quella rivolta, senza capire fino in
fondo quella che è stata l’ultima grande lotta popolare
del nostro Mezzogiorno, la prima lotta etnica di un
ciclo di lotte e guerre che hanno insanguinato gli
ultimi trent’anni del XX secolo.
I giovani anarchici reggini stavano
dentro quella contraddizione, tra le ragioni popolari
della rivolta e la sua strumentalizzazione, tra
rivoluzione e reazione, tra bisogno popolare di
protagonismo e trame nere che ne hanno determinato la
cifra.
Stavano tra la gente cercando di
capire, di interpretare, di portare il loro contributo.
Avevano perfettamente capito che eravamo di fronte a
quello che in geometria analitica si chiama punto di
flesso, una fase di passaggio delicata, confusa e
contraddittoria.”
Mi preme sottolineare come tra le
righe della prefazione di quel libro, si sia giunti a
completare una fase di sdoganamento della Rivolta da
parte di un prestigioso intellettuale di sinistra, quale
il prof. Tonino Perna; tale fase era stata avviata tre
anni prima da un altro grande intellettuale di sinistra,
il prof. Pasquale Amato, nel libro “Reggio capoluogo
morale”, (uscito nel luglio 1998) che inaugurava la
fortunata collana “I tempi della storia” della mia casa
editrice.
Amato, a ventotto anni dalla
Rivolta, ha riletto quegli eventi collegandoli alle onde
di lunga durata della Storia. Ha ricostruito i fatti per
grandi linee e dalla parte del popolo, facendo ricorso
alle più brillanti cronache degli inviati speciali nella
Guerra di Reggio.
E ha compiuto una lucida e acuta
analisi su cause ed effetti penetrando nel cuore della
verità con un linguaggio talora crudo, ma sempre scarno
e immediato. Ne è scaturito un lavoro ricco di spunti
interpretativi originali, inedito e controcorrente
rispetto ai luoghi comuni su Reggio in generale e sulla
Rivolta in particolare.
Amato ha ribaltato quei luoghi
comuni, rigettandoli oppure reinterpretandoli in chiave
positiva. Ha elaborato nuovi parametri di lettura della
storia della città più antica della Calabria e della sua
provincia, allargando l’orizzonte di osservazione ai
suoi quasi tremila anni di storia. Ha evidenziato
peculiarità e continuità che ne hanno segnato il cammino
di “città libera e ribelle”, difficile da governare e
ancora più difficile da sottomettere.
Una città che ha imparato a
convivere con la sindrome da terremoto ed è stata capace
di dare il meglio di sé quando tutto e tutti la davano
per finita.
Una città che assieme alla sua
provincia è stata straordinariamente prolifica di poeti
e scrittori, pittori e scultori, musicisti e stilisti,
filosofi e giuristi, storici e critici letterari.
Figure che fioriscono in ambienti
caratterizzati da una vivace dialettica di idee, fonte
di creatività artistica e di diffuso senso critico. In
sostanza, per Amato l’onda di lunga durata di Reggio
consiste nell’aver conservato nel suo Dna le peculiarità
della polis più ateniese della Magna Grecia.
Non per caso Reghion fu la più
coerente alleata di Atene fra i Greci d’Occidente.
Scrive Amato testualmente: “Spesso i
leaders e i partiti politici non vogliono fare i conti
con le onde lunghe della storia e con le influenze che
esercitano sui popoli.
Oppure ritengono presuntuosamente di
poterle annullare o esorcizzare col semplice esercizio
cinico del potere. Invece, quando meno se le aspettano,
quelle onde tornano e sconvolgono manovre occulte e
patti osceni.
E’ stato il caso di Reggio, della
sua rivolta inaspettata, della sua rivincita di questo
fine secolo…
E’ la rivincita della storia… che…
ha la forza della memoria collettiva propria e degli
altri. Quella memoria che crea e alimenta la civiltà”.
Nel luglio del 2000, in occasione
del 30°anniversario della Rivolta, sono riuscito, grazie
alla disponibilità degli eredi del compianto Luigi
Malafarina ed all’amicizia degli altri due autori
(nonché colleghi giornalisti) Franco Bruno e Santo
Strati, a ripubblicare quella che è unanimemente
riconosciuta come l’opera fondamentale sulla Rivolta,
quella dalla quale nessun ricercatore e studioso ha mai
potuto (e mai potrà) prescindere, il monumentale “Buio a
Reggio”.
La grandezza dell’opera risiede
proprio nella matrice culturale e nella formazione
professionale dei suoi autori, tre grandi giornalisti
appunto, che hanno avuto l’acume di ricostruire e
fissare gli eventi, selezionando e raccogliendo i
reportages dei più importanti giornalisti italiani e
stranieri inviati a Reggio da tutte le testate. “Buio a
Reggio” era stato pubblicato in prima edizione nel 1971
dalla casa editrice “Parallelo 38”, fondata da un
illustre intellettuale e politico recentemente
scomparso, l’on. Giuseppe Reale; mi piace ricordare la
grande signorilità con la quale mi concesse la
liberatoria per la riedizione dell’opera, nonostante io
fossi stato molto critico, dalle pagine de “laltrareggio”,
verso il breve periodo, otto mesi nel 1993, in cui fu
sindaco di Reggio. Aldilà degli aspetti politici,
bisogna riconoscere che Giuseppe Reale fu un vero e
proprio mecenate della cultura cittadina, ospitando tra
le sue collane editoriali molti studiosi reggini che
prima d’allora non avevano avuto la possibilità di
pubblicare i propri lavori.
Sempre nel luglio 2000, convinsi
l’editore de “Il Domani della Calabria”, il catanzarese
Guido Talarico, a celebrare il trentennale della Rivolta
con una serie di venti inserti quotidiani, che uscirono
dal 13 luglio al 9 agosto nelle pagine centrali del
giornale.
L’operazione andò in porto grazie
anche al direttore dell’epoca, il reggino Domenico
Morace, che dopo lunghi anni di prestigiosi incarichi
professionali (tra i quali la direzione de “Il Corriere
dello Sport” e del “Guerin Sportivo”), si convinse a
tornare in Calabria.
L’esperienza fu breve ma esaltante,
e coincise con un periodo di grandi successi per il
quotidiano catanzarese; purtroppo però, l’editore
Talarico, pur capace e volenteroso, non aveva la
solidità economica per garantire a Morace una squadra
redazionale all’altezza della suo valore e lo costrinse
alle dimissioni proprio in quei giorni. Morace mi affidò
la responsabilità dell’inserto ed io chiesi ed ottenni
che mi venisse affiancata la bravissima Daniela
Pellicanò, anch’essa cresciuta professionalmente tra le
pagine de “laltrareggio”.
Daniela ed io confezionammo gli
inserti attingendo a materiali presenti nell’emeroteca
della mia famiglia, riproducendo volantini e manifesti
custoditi in originale. La ricostruzione cronologica
degli eventi era affiancata dai commenti degli inviati
dell’epoca e da numerose testimonianze; pezzo forte fu
un’intervista di Adele Cambria a Giacomo Mancini, che
avevo scovato tra le pagine di una rivista
semiclandestina della sinistra extraparlamentare
(“Alternativa” del 14 febbraio 1971, anno 1° numero 1),
in quell’occasione Mancini aveva cercato di giustificare
il suo operato, descrivendo mirabilie del 5° Centro
siderurgico che si sarebbe rivelato, invece, una
colossale bufala; ne venne fuori l’impietosa immagine
del classico politico provinciale interessato
esclusivamente agli interessi del suo collegio
elettorale, che sciorinava senza pudore incomprensibili
motivazioni nel più bieco stile politichese.
Adele fu bravissima a stanare, da
sinistra, un politico di primo piano del centro-sinistra
nazionale, che era diventato il giusto bersaglio dei
rivoltosi.
Nell’editoriale apparso nel
ventesimo e ultimo numero dell’inserto, Daniela
Pellicanò, tirando le fila del lavoro, stigmatizzava il
fatto che i commenti apparsi sui giornali in quei
giorni, in occasione appunto del trentesimo
anniversario, non riuscivano ancora ad inquadrare la
rivolta nella giusta luce, al contrario, invece, alcuni
interventi di autorevoli giornalisti dell’epoca si erano
dimostrati acuti e lungimiranti; citava questa mirabile
considerazione di Franco Rosati, apparsa nel 1971 sulla
rivista “Il Cavour” (badate bene, una rivista regionale
piemontese): “E non è soltanto una rivolta
campanilistica… E’ la rivolta contro un sistema che vede
i partiti arbitri di tutto ma perennemente impegnati a
non risolvere i problemi del popolo italiano, ma a
condizionarsi a vicenda, perduti e divisi in mille
rivoli di correnti, tutte occupate in giochi di potere e
tra congressi, riunioni, convegni, più o meno segreti,
tra questa e quella elezione, tra questa e quella
scadenza, tra una riforma usata ed un’altra inventata,
infischiarsene altamente del bene dei cittadini e delle
loro necessità.
E’ la rivolta contro le ingiustizie,
le prepotenze, le partigianerie dei nuovi feudatari… E’
una rivolta morale”.
E’ incredibile l’attualità di queste
parole ed è drammatico il costatare come nulla sia
cambiato da allora; suona beffarda, alle nostre orecchie
contemporanee, questa definizione di “rivolta morale”,
delineate le proporzioni, oggi appare più necessaria una
vera e propria rivoluzione.
Nell’agosto 2005 pubblicai il lavoro
di Antonino Stillittano “Reggio capoluogo: fu vero
scippo?”.
Nino, grande dirigente del PCI, oggi
ultranovantenne, mantiene ancora la rigida posizione del
Partito dell’epoca, considera la rivolta “causa
dell’involuzione politica della nostra provincia” e non
transige sul suo carattere fascista; ma ha l’onestà
intellettuale di ammettere che l’atteggiamento tenuto
dal PCI reggino durante i fatti di Reggio, fu
determinato dalla subalternità del gruppo dirigente
reggino verso i compagni delle altre due province, ed
arriva ad attribuirne la causa a: “L’imperante
centralismo democratico che condizionava ogni decisione
degli organismi periferici a scapito di gravi sanzioni
disciplinari nei riguardi di coloro i quali osavano
mettere in discussione quanto gli organismi centrali
avevano deciso.”
Ed ancora: “Non era un mistero per
nessuno la subalternità del gruppo dirigente reggino
verso i compagni delle altre due province, sia per il
loro passato politico sia anche per la preparazione
culturale e politica, ivi compresa la posizione
economica di alcuni di loro (sic)… questi compagni
esercitavano una tale influenza su noi reggini… da
porci, durante le discussioni politiche e le decisioni
da prendere, quasi in uno stato d’inferiorità
psicologica…”.
Più politica ed elaborata risulta
invece l’analisi di un altro grande dirigente del PCI,
Tommaso Rossi, che, nel dicembre del 2005, ha pubblicato
con la mia casa editrice la sua appassionata
autobiografia “Il lungo cammino”.
Il capitolo dedicato alla rivolta è
sofferto ma lucido, Rossi non ha difficoltà ad ammettere
che mentre “fuori si cominciava a sparare, in
Federazione si discuteva di cose interne. Ci sfuggiva
per intero la percezione di quel che stava per accadere
in città, un segno del nostro distacco.” La sua teoria è
netta: “Se, dunque, è vero che nel PCI si manifestarono
ritardi di elaborazione è tuttavia evidente che una
lettura attenta degli avvenimenti e della loro
successione non consente di poter affermare che in
quella situazione la sinistra ed il PCI potessero
assumere una posizione diversa da quella che, dopo un
dibattito travagliato nella Federazione reggina, si
scelse di seguire. La rivolta, aldilà dei suoi contenuti
specifici, si inseriva in una sequenza di avvenimenti
che andavano dai tentativi eversivi e golpisti
dell’estrema destra, dall’attacco all’Istituzione
regionale da parte del MSI, sino alle prove di
mobilitazione violenta effettuate qualche mese prima
proprio a Reggio da Valerio Borghese.
Una rivendicazione che apparteneva
al senso comune dei reggini, veniva utilizzata per
inserirla in un disegno più generale di attacco allo
Stato democratico.
Si era, ormai, determinata una
situazione in cui le forze della destra eversiva avevano
acquisito tutti gli strumenti per accrescere il consenso
attorno alle loro parole d’ordine di esaltazione della
ideologia del capoluogo.
Mi limito, dunque, di fronte alla
tendenza che si manifesta anche a sinistra, di una
rilettura critica delle posizioni del PCI e del PSI, a
rilevare che sarebbe stato impossibile assumere un
atteggiamento diverso…
Rimango fortemente convinto
- continuando nella sua relazione -
che gli errori del PCI non furono certo quelli di
aver preso le distanze da una rivolta che aveva le
caratteristiche di un movimento eversivo e
municipalistico, ma furono altri.
Le elezioni regionali, che
arrivarono con ventidue anni di ritardo rispetto alla
promulgazione della Costituzione, non erano state
accompagnate da una adeguata preparazione politica. Non
ci fu in sostanza, nell’impostazione della campagna
elettorale, la necessaria sottolineatura del valore
dirompente che l’Istituto Regionale avrebbe dovuto
assumere per spezzare lo schema dello Stato
centralizzato, soprattutto nella realtà del Mezzogiorno;
dell’importanza che l’autogoverno avrebbe avuto nel
processo di crescita economica e sociale in una realtà
come quella calabrese. Mancò in sostanza la spinta
necessaria alla formazione di una cultura
regionalistica. In conseguenza di ciò si accentuò il
fenomeno municipalista e il prevalere dei cento
campanili.”
Ed infine l’amarissima chiosa:
“Quegli errori non solo crearono un terreno favorevole
all’esplosione dei fatti di Reggio, ma crearono anche il
presupposto per la costruzione di una Regione fondata
sui vecchi vizi dello Stato accentratore, il prevalere
di una concezione burocratica e clientelare che ha
rappresentato e rappresenta tuttora il principale
ostacolo alla crescita economica e sociale della
Calabria.”
Tommaso Rossi è un fine politico e
la sua analisi è perfettamente in linea con l’alta
concezione che il PCI aveva della politica e della
società, ma quel che appare difficile negare è che
quella politica ottenne l’effetto di allontanare la base
popolare dal partito (vedi le centinaia di tessere
strappate in piazza) e di consegnare la città alla
destra e al degrado per oltre un ventennio.
Il PCI, secondo il mio parere,
avrebbe dovuto trovare il modo di blandire la folla
(direi leninisticamente), assecondando la schietta anima
popolare della rivolta per poi indirizzarla
sapientemente verso obiettivi più realistici e concreti
del “pennacchio” del capoluogo. Bollare sin dall’inizio
la rivolta come fascista, fu un errore fatale che finì
per realizzare nell’immaginario collettivo un riscatto
della figura dei fascisti, che assunsero automaticamente
il ruolo di paladini del popolo reggino. L’azzeramento
dell’azione civile e sociale dei partiti di sinistra,
determinò inoltre il più grande e devastante effetto
negativo della rivolta: il ventennio 1970/90 che vide la
città precipitare nel degrado, nel caos e nell’anarchia,
dai quali sarebbe poi uscita con la primavera di Italo
Falcomatà.
Purtroppo però gli effetti negativi
avevano inquinato la base strutturale della società, per
cui fu sufficiente la drammatica e nefasta uscita di
scena del sindaco (nel dicembre 2001) a far
riprecipitare la città nell’incubo del degrado e della
corruzione.
Sulla rivolta si è anche soffermato
il decano dei giornalisti reggini, Antonio La Tella, nel
suo libro autobiografico “Taccuino segreto” pubblicato
nel dicembre 2006. La Tella, che era molto vicino a
Ciccio Franco, mantiene una posizione “ortodossa” sulla
rivolta, che lui ha vissuto in primo piano come
giornalista de “Il Tempo” e consigliere di gran parte
dei politici (anche nazionali) presenti sulla scena, il
suo libro è infarcito di aneddoti gustosi e particolari
inediti ed è un esempio di fine scrittura.
Per concludere questo excursus sulle
pubblicazioni della mia casa editrice sulla Rivolta di
Reggio, arriviamo all’ultimo nato: “Fuori dalle
barricate, foto racconto della rivolta di Reggio”,
uscito nel luglio 2010, in cui un ormai navigatissimo
Fabio Cuzzola è affiancato da una giovane e brillante
esordiente, Valentina Confido.
Il libro, uscito in piena fase di
celebrazione del 40° anniversario, ha l’intento
squisitamente didattico di spiegare ai giovani la storia
di quegli anni e lo scopo, chiaramente espresso dal
titolo, di eliminare definitivamente quelle “barricate”
che furono abbattute dai carri armati dello Stato solo
materialmente, ma “rimasero erette idealmente contro
tutto e tutti dopo il biennio 70-80 e che relegarono
Reggio nel dimenticatoio” come scrive Cuzzola nella sua
postfazione.
La mia età, ahimè, mi consente di
fornire anche delle testimonianze dirette su quegli
anni, sono testimonianze che riguardano la vita
quotidiana sotto la rivolta e le difficoltà che si
incontravano quotidianamente per espletare le varie
attività.
Uno dei ricordi più vividi è quello
dei vari giornalisti e inviati che frequentavano
assiduamente l’agenzia di distribuzione stampa “Granillo
& Arcidiaco”, gestita da mio padre in società con Oreste
Granillo. Io vi passavo gran parte delle mie giornate
anche perché la scuola che frequentavo (il liceo
scientifico “A.Volta” che, appena sorto da una costola
del “Vinci”, era insediato nel vecchio edificio del
collegio “San Prospero”) era stata requisita e adibita a
caserma per i celerini.
Era, per me, l’anno della maturità
da ottobre 1970 a luglio 1971; inutile dire che il
decorso degli studi fu abbastanza tormentato e
particolare.
Ci riunivamo a gruppi ed andavamo a
casa dei professori più disponibili per organizzare
delle vere e proprie lezioni clandestine. I pochi mesi
in cui l’edificio fu sgombero, per recarsi a scuola
bisognava sfidare l’ostilità degli “scioperanti”; andare
in giro con i libri sottobraccio equivaleva ad essere
classificato “crumiro comunista” e si rischiava
seriamente il pestaggio.
La sede dell’agenzia era al
pianterreno della mia casa, in via Gaeta angolo via Nino
Bixio; era una zona calda, a due passi dal ponte
Calopinace, dove era stata alzata una delle barricate
più strategiche, e delle sedi dell’Inail e delle
Poste-ferrovie che venivano assaltate e incendiate un
giorno sì e l’altro pure.
Il lavoro cominciava alle quattro
del mattino quando arrivavano i quotidiani per la
distribuzione; i giornalisti arrivavano alle prime luci
dell’alba per ritirare i plichi con le copie omaggio a
loro destinate.
I più assidui erano Luciano Lombardi
della Rai e Bruno Tucci del Messaggero, mentre Giorgio
Pisanò, direttore del Candido, aveva praticamente fatto
dell’agenzia la sede della sua redazione.
Pisanò era un personaggio irruento,
reso ancora più tracotante dall’inaspettato grande
successo di vendita del suo giornale, che era diventato
l’organo ufficiale della rivolta.
Me lo ricordo assistere impaziente
allo scarico dei pacchi di giornali dalle motoapi, ne
afferrava uno e lo apriva e poi cominciava a sfogliare
una copia percorrendo a grandi falcate tutto il locale.
Computer e fax erano aldilà da
venire e quindi il risultato del tuo lavoro lo potevi
vedere soltanto quando ti arrivava il giornale in mano.
Le urla e le imprecazioni si sprecavano alla scoperta di
inevitabili imperfezioni e refusi! Mio padre lo
tollerava sornione, non avrebbe mai permesso a nessuno
(nemmeno al suo socio) di urlare in casa sua, ma Pisanò
in quei giorni era pur sempre il nostro miglior
fornitore…
E pensare che i primi giorni della
rivolta la nostra situazione era stata a dir poco
drammatica, moltissime volte avevamo subito irruzioni
minacciose ed eravamo stati costretti a consegnare i
pacchi dei giornali (l’Unità e l’Avanti in primis) che
poi venivano bruciati in piazza Italia; una delle prime
sere mia madre era rimasta atterrita con il telefono in
mano, minacciavano di bruciare la nostra casa e
l’agenzia se avessimo distribuito l’indomani la Gazzetta
del Sud.
All’inizio della rivolta, infatti,
la Gazzetta si era dimostrata molto critica nei
confronti dei rivoltosi; fu sufficiente quella sera una
telefonata a Messina di mio padre, che buttò giù dal
letto l’editore (il mitico Uberto Bonino), a trasformare
sulle colonne del giornale i “teppisti” in “eroico
popolo reggino”.
Quando mio padre me lo consentiva,
saltavo sul furgone rosso e accompagnavo gli operai al
“Cippo” alle quattro del mattino; ci posizionavamo sul
molo con i fari accesi rivolti verso il mare, per
indicare l’approdo al barcone che trasportava da Messina
le copie della Gazzetta.
Lo Stretto, infatti, era bloccato e
quello era l’unico modo per fare arrivare la Gazzetta.
Gli altri giornali, quotidiani e
periodici, arrivavano con i treni fino a Villa San
Giovanni ed andavamo a ritirarli con i nostri mezzi, che
superavano le barricate grazie al classico “obolo” della
benzina per rifornire le “Molotov”. Bisogna anche dire
che i rivoltosi si erano fatti furbi e avevano capito
che era meglio non mettersi contro la stampa; allora,
televisione significava solo i due canali della Rai, che
naturalmente non era affatto tenera, quindi una certa
indulgenza e comprensione da parte della carta stampata
erano fattori preziosi e indispensabili.
Una mattina rischiai seriamente di
essere arrestato, avevamo appena finito la distribuzione
dei quotidiani ed avevo come al solito le mani annerite
dall’inchiostro. In agenzia non c’era acqua nei bagni
per un guasto ed i fazzolettini umidi non erano stati
ancora inventati, fui costretto ad uscire con le mani
sporche.
Alla fine del Corso Garibaldi, a
cento metri dall’agenzia, c’era (e c’è ancora oggi) il
Rio Bar, finito il lavoro mi recavo tutte le mattine a
fare colazione, ma quel giorno avevo le mani sporche…
Girato l’angolo mi imbattei in una pattuglia di
celerini, si stavano recando verso la “Repubblica di
Sbarre” pronti ad affrontare e superare la barricata del
Calopinace che era piuttosto vulnerabile; contrariamente
a quella del ponte di San Pietro non era, infatti, in
muratura, ma elevata con materiale “mobile”.
Sciaguratamente a uno dei celerini saltò agli occhi il
colore “nerofumo” delle mie mani, si convinse che avevo
combinato qualcosa (dalle mani sporche credevano di
intuire che avevi lanciato pietre o partecipato ad
azioni di guerriglia) e fece per afferrarmi, io
istintivamente cominciai a correre ed urlare e per
fortuna attirai l’attenzione di mio padre che si stava
recando a sua volta al bar con alcuni dipendenti; per
fortuna anche loro avevano le mani sporche e l’equivoco
fu chiarito.
Mi trovavo, per forza di cose,
invischiato nella rivolta ma ideologicamente ne ero
lontano anni luce. Il 26 settembre del 1970 erano morti
i cinque anarchici e quella vicenda mi aveva segnato
profondamente.
Non sono stato anarchico nemmeno da
adolescente, l’età in cui, forse, sarebbe giusto
esserlo; eppure quei ragazzi, soprattutto Angelo Casile,
esercitavano su di me una forte attrazione. Angelo aveva
un’espressione mite, dolce e sognante; a due passi da
casa mia, alla fine della Via Nino Bixio, quasi a
ridosso dell’argine del Calopinace, c’era il suo studio
d’artista in un cantinato buio e umido. Quando lo vedevo
emergere dalla grata che chiudeva l’ingresso, ammiravo
con invidia i suoi lunghi capelli neri e gli rivolgevo
un cenno di saluto che mi ricambia cordialmente, poi,
mentre lui percorreva la strada a grandi falcate,
nonostante la poliomelite l’avesse reso claudicante,
speravo ardentemente che mio padre non l’avesse visto; i
suoi commenti feroci su quello “sbandato capellone
anarchico” mi ferivano profondamente ed acuivano il
forte conflitto in corso tra di noi. Di Gianni Aricò,
invece, non avevo una gran concetto; lo trovavo
arrogante e sprezzante, anche perché, quando ci
incontravamo, non mancava di sottolineare la mia
condizione di “piccolo-borghese figlio di papà”.
Offesa più grave per me, che già da
allora mi sentivo comunista fino al midollo, non poteva
esserci.
Quando arrivò la notizia
dell’incidente mortale rimasi profondamente colpito
anche dall’indifferenza della città; tutti noi di
sinistra non nutrivamo alcun dubbio sulla natura
dell’evento, ma non avevamo alcun mezzo, oltre a qualche
volantino ciclostilato diffuso clandestinamente, per
manifestare le nostre convinzioni.
“Se la sono cercata”era il motivo
ricorrente dei commenti in città, una città affogata nei
pregiudizi e sopraffatta dalla violenza, incapace di
riconoscere le qualità dei suoi figli migliori. Io, che
ancora non avevo elaborato il lutto per la morte di Che
Guevara (9 ottobre 1967, appena iniziato il 2° liceo),
mi ritrovavo ancora una volta al cospetto della morte
ingiusta.
Per fortuna, in mezzo a quello
sfacelo, arrivavano le fantastiche notizie dal Cile,
dove Salvador Allende aveva appena avviato il governo di
“Unidad popular” concretizzando una grande speranza
della sinistra mondiale. La sera, chiuso nella mia
stanza con mio fratello Luciano, con una mano un
fazzoletto bagnato sugli occhi per attenuare gli effetti
dei lacrimogeni e con l’altra una radiolina
all’orecchio, ascoltavo le notizie che arrivavano dal
Cile e fantasticavo sul “sol dell’avvenir”, come se
Santiago fosse dietro l’angolo. Ancora altre
disillusioni e tragedie sarebbero dovute arrivare e le
mie disfatte ideologiche non avrebbero avuto mai fine.
La mia esperienza e la conoscenza
dei fatti di Reggio Calabria del
70’, molto sono stati influenzati dal mio film Liberarsi
figli di una rivoluzione minore, che di quella rivolta
parla ed a quella rivolta s’ispira.
Numerosi sono stati
i libri letti sull’argomento e centinaia le interviste
ai protagonisti, durante i provini per il film. Via, via
che il tempo passava e che la mia documentazione
aumentava, aumentava anche la sete di giustizia e di
verità intorno a quelle vicende.
Fu una rivolta
popolare, in cui il popolo fu ingannato da una politica
malsana ed incompetente, prigioniera di se stessa e
dello status quo, imposto, dai vertici governativi e di
partito, dell’epoca.
Un’ingiustizia colossale che ha
caratterizzato la vita sociale, politica, di Reggio fino
ai nostri giorni.
Personalmente credo, che la rivolta di
Reggio faccia parte di quei tanti fatti italiani, di cui
non si conosce ancora a fondo la verità.
C’è da
chiedersi perché questo accada.
A chi conviene mantenere il segreto
sulle stragi insolute, che hanno caratterizzato la
nostra repubblica in tutto il dopoguerra? Sono risposte
alle quali ancora nessuno è riuscito a dare una risposta
che faccia luce e smentisca tutti coloro che sostengono
che dietro ai fatti più delittuosi italiani, ci sia lo
stesso Stato, seppur deviato. Occorrerebbe, sostenere
con forza che non è così e trovare validi motivi per
provarlo, ma fino ad ora si è sempre fatto il contrario.
E così è stato anche con la rivolta di Reggio Calabria.
Un fatto di cui stampa e mass
media, hanno sempre preferito tenersi alla larga.
Probabilmente perché la rivolta è sempre stata
considerata una rivoluzione di serie b, minore, come
dice il titolo del mio film.
Un fatto che non meritava essere
pubblicizzato e raccontato, soprattutto ai giovani.
Una
rivolta per lo più considerata “fascista”, senza
esserlo, ma appoggiata dalla destra e capeggiata da quel
Ciccio Franco, paladino del popolo, che la stessa
destra, per altro, aveva criticato, più volte.
La rivolta ha pagato per essere
stata considerata di “destra”. Ha pagato con il
“controllo”, governativo, a cui è stata sottoposta la
città di Reggio per molti anni, con il silenzio e la
censura che non ha consentito di fare vera luce su quei
fatti.
C’è da chiedersi cosa sarebbe successo se la
sinistra avesse appoggiato la rivolta e non si fosse
rifiutata, come invece è successo, a livello nazionale,
di sostenere le sacrosante ragioni dei rivoltosi, che
altro non chiedevano se non un posto di lavoro ed un po’
più di considerazione.
Certo, molto di quello che non s’è
fatto in questi anni per rivalutare la rivolta di
Reggio, non è solo colpa della sinistra, ma anche della
destra, ormai lontana dalle esigenze della gente e del
popolo.
Una destra che ha paura di se stessa e che per
poter rivalutare e rileggere in chiave moderna e storica
quei fatti, ha bisogno dell’approvazione ideologica e
garantista della stessa sinistra.
Era logico che in
questo clima di chiusura anche un film che parlasse di
quegli episodi soffrisse di questo atteggiamento.
Il
film s’è visto attanagliarsi tra due fuochi. Uno, quello
censore e mistificatore, della sinistra, abituata da
sempre a trattare la storia ed i fatti più importanti
del nostro paese dal suo punto di vista e a scriverla,
la storia, secondo quello che ad essa conveniva;
dall’altro, quello bacchettone ed insensibile, della
destra, incapace di avere un rapporto diretto con la
storia e la cultura, fondamentalmente rappresentata da
un gruppo d’ignoranti che hanno altri interessi, meno
nobili, ma più appaganti.
Del resto, i reggini usavano
dire “noi ci siamo ribellati alla schiavismo politico,
non alla stato”.
E’ quello che ha fatto il film. S’è
ribellato alla politica malsana di questo paese,
all’esercizio del potere in forma deviata ed ingiusto,
senza guardare in faccia nessuno, senza schierarsi, o
meglio schierandosi dalla parte del popolo.
In ultimo c’è
da chiedersi “Fu vera gloria?”. Penso di si, alla lunga
il popolo vince sempre con le rivoluzioni o senza.