A distanza di  un anno dal precedente tentativo atto alla discussione su di un periodo alquanto delicato della storia italiana e poi annullato per volontà non dovute agli organizzatori, finalmente si tratta l'argomento in questione dal punto di vista storico-culturale come, tra l'altro, è stata sempre intenzione del sodalizio reggino.
Il luogo istituzionale è quello dalla Biblioteca Comunale "Pietro  De Nava" che ha già ospitato una serie di incontri, organizzati dal Circolo Culturale L'Agorà in collaborazione con il Comune di Reggio Calabria e della sopra citata biblioteca, denominati "Pomeriggi Culturali": quindi Cultura in funzione della Cultura.
I lavori sono stati coordinati da Matteo Gatto Goldestein che nel corso del suo intervento ha ricordato alla platea che in Italia dopo il 1968, a seguito di vari fattori concomitanti e storicamente specifici che vanno dalla industrializzazione su vasta scala all’urbanesimo accelerato, emerge una domanda di partecipazione significativa e di richiesta di riconoscimento da parte di nuovi gruppi sociali che, nell’assetto istituzionale prevalente, non ha trovato né poteva trovare inserimenti adeguati e tempestivi.
«Il ’68 è, quindi, un’esperienza di crisi, dice Matteo Gatto - caratterizzante una duplice violenza. In primo luogo la crisi lacera, divide, mina alle basi reali sociali stabiliti da antica tradizione e, nel contempo ci obbliga a guardare dentro, così obbligandoci a chiamare in causa le verità ricevute, credute, ritualizzate ma non viste.
La vera validità del ’68, nel suo complesso, consiste nella lotta contro l’autoritarismo, contro quello accademico come punto iniziale di scontro e, poi, contro le varie forme di autoritarismo.
Gli uomini del potere improvvisamente hanno cominciato a traballare: per tanto tempo il potere era stato da loro considerato quasi come un oggetto di proprietà provata.
All’improvviso, con la nascita dei primi gruppi extraparlamentari, questo potere già docile, sincero, apparentemente definitivo,si scuote, diviene una prerogativa labile, un attributo da meritarsi, da conquistare ogni volta e giorno dopo giorno, si avvia ad essere da prerogativa personale, una funzione razionale collettiva e tale status – a detta del relatore- fa entrare in allarme gli uomini del potere». 
Il ’68 più che una rivoluzione senza volto ha una serie di volti: il Vietnam, la discriminazione razziale negli Stati Uniti, il paternalismo di De Gaulle e la sua grandeur; contro una società centripeta, priva di reale opposizione, mistificata e manipolata dai giornali alla “Springer”, nella Repubblica Federale tedesca; contro una democrazia in pericolo di trasformarsi in gerontocrazia, dal ricambio politico quasi inesistente e dominata da fratture di classe sempre più gravi dietro un  pluralismo apparente, fondato sull’emarginazione più che sulla partecipazione, in Italia.
Il ’68 è stato indubbiamente una protesta forte, decisamente anti-autoritaria, ma la protesta non ha saputo trasformarsi in progetto, in quanto incapace di trasformarsi in proposta, si è rovesciata in impotenza divenendo frustrazione di masse, costruendo le premesse della disperazione sociale, dell’aggressività e della  violenza diffusa.
Il relatore fa anche un riferimento anche all'ambiguità di quella tragedia italiana che si pose al bivio tra il sacrificio ed il perdono: Aldo Moro, quando pensava di avere salva la vita, scriveva dalla “prigione del popolo” che le Brigate Rosse ed i suoi sequestratori erano generosi, che li perdonava e che, una volta libero, si sarebbe dimesso dalla Democrazia Cristiana di cui era presidente.
In un solo concetto, apparentemente paradossale, si potrà dire che Moro è morto di moroteismo nel senso che il suo assassinio ha perfezionato la tecnica del rinvio, ha bloccato il dibattito ideologico asportando a tutto un popolo ciò che potrebbe, secondo Ferrarotti, essere definita “ghiandola politica”.
Le Brigate Rosse restano un mistero insoluto dei motivi d’inquietudine dell’Italia violenta non solo di quegli anni del terrorismo e che sarà probabilmente inedita per sempre.
È quella parte in cui le Brigate Rosse s’intrecciano con quella che è stata definita la “strategia della tensione”.
Il quesito posto all’attenzione dell’uditorio si può sintetizzare a detta dell’intervenuto che : «… essere umani vuol dire essenzialmente, parlare, comunicare, discutere anche partendo da punti di vista diversi. La violenza è portatrice di un principio disumano e terribile: nega la parola, interrompendo qualsiasi discorso. La violenza è anche un fatto di cultura e, come problema di cultura e non solo economico e politico, va esaminata ed affrontata… » 
La parola è poi passata a Gianni Aiello, il quale nel corso del suo intervento ha sottolineato ai presenti che la piattaforma strutturale su cui poggia la struttura dei nostri incontri culturali si basa sui documenti conservati in quei luoghi della memoria dove essi sono custoditi: gli archivi.
Essendo la materia oggetto della discussione storia recente,non risulta possibile poter accedere con facilità a tale tipologia di atti, anche in virtù da quanto stabilito dalla legislazione e dalle disposizioni in materia archivistica relative alla consultazione degli atti.
Nonostante il percorso effettuato dal legislatore nell’arco degli anni, caratterizzato da una serie di indirizzi atti allo svecchiamento della materia e l’interesse da parte della Commissione dei Ministri del Consiglio d’Europa che nella seduta del 13 luglio 2000 ebbe a stabilire che gli archivi fungono da unità fondamentale in ambito culturale e per tali considerazioni con tale documento si invitava i governi degli Stati membri a prendere tutte le  misure necessarie allo scopo.
Rimangono sempre dei seri limiti alla consultabilità dei documenti e degli atti di carattere riservato che recano disagi non solo agli  archivisti, ma anche a studiosi, ricercatori, studenti, a tutti coloro che vogliono recuperare la memoria storica, custodita proprio nel suo alveo naturale e cioè l’archivio.
«Quindi per ovviare – prosegue Gianni Aiello - a tale disposizioni, imposte per una necessità di  riservatezza dei documenti, risulta necessario accedere ad un’altra tipologia di documenti quali giornali, riviste e filmati del periodo e quant’altro possa essere utile a tale ricerca».
L’esposizione fatta da Gianni Aiello nel corso del suo intervento si è basata sul commento di una cronologia dei fatti relativi al periodo 1967-1982, ciclo storico degli anni di piombo dal quale il relatore ha commentato date degli avvenimenti, sigle di gruppi extraparlamentari come “Lotta Continua”, “Nuclei Armati Rivoluzionari”, “Unità Combattenti Comuniste”, “Collettivi Politici Veneti”, “Servire il Popolo”, “Partito Comunista d’Italia Marxista Leninista”, gruppi e militanti nella sfera anarchica reggina, personaggi come i componenti delle sigle associative citate ma anche numerosi episodi che interessarono il territorio, come i numerosi attentati dinamitardi che interessarono le sedi istituzionali, partitiche e sindacali del territorio a cavallo tra il 1969 ed il 1972, gli scontri verificatesi presso l’istituto di Architettura di Reggio Calabria, l’occupazione degli istituti scolastici nel biennio 1969-1970, le dimostrazioni relative a varie rivendicazioni sociali, gli scontri che causarono anche alcune morti, come quella del sindacalista della CISNAL, Giuseppe Santostefano, i vari caduti durante il periodo della rivolta, ma anche i tutori dell’ordine come il brigadiere Filippo Foti, deceduto a Trento il 30 settembre del 1967 nel tentativo di portare a distanza di sicurezza una valigia contenente dell’esplosivo, a causa di una esplosione, Antonio Bellotti, Vincenzo Curigliano, morti durante la rivolta di Reggio ma anche semplici cittadini come Bruno Labate, Carmine Jaconis, Angelo Campanella, i cinque anarchici Franco Scordo,Giovanni Aricò, Angelo Casile, Luigi Lo Celso, Annalise Borth .
Attraverso il commento di tale cronologia si è potuto constare uno scenario caratterizzato da una forte vivacità sul territorio dove operavano diverse “sezioni” di formazioni extraparlamentari come  le “Unità Comuniste Combattenti” che indirizzavano i loro obiettivi a “strumenti del comando capitalistico” e nella fattispecie gli allora calcolatori elettronici che venivano definiti come “la più alta concentrazione della intelligenza del comando economico e politico del capitale sul lavoro”: una loro azione venne rivendicata il 15 aprile del 1977, quando con una loro irruzione nello stabilimento della “Liquilchimica” di Saline Joniche provocarono al sistema informatico della locale industria un danno economico per oltre un miliardo di lire del tempo.
A riguardo “Lotta Continua”, Gianni Aiello ha evidenziato che tale movimento, con i dati alla  mano, fu l’unica formazione della sinistra parlamentare ed extraparlamentare presente durante la rivolta popolare e che per la quale gli allora quadri dirigenti ebbero ad affermare  che “Reggio è stata una grande vittoria della spontaneità e la definitiva sconfitta dello spontaneismo”.
La rivolta di Reggio Calabria ha una lettura non facile, in quanto è una serie di situazioni alquanto controverse che la caratterizzano: dalla presenza nella stessa di diversi gruppi extraparlamentari di diversa estrazione,così come alla presenza di loro rappresentanti come Adriano Sofri di "Lotta Continua" o Adriano Tilgher di "Avanguardia Nazionale" dalla presenza degli anarchici, a diverse interpretazioni di pensiero sugli avvenimenti che la caratterizzarono come il discorso fatto da Giorgio Almirante del M.S.I.,fatto alla Camera dei Deputati il 12 agosto del 1970 dove invocava misure repressive nei confronti dei rivoltosi di Reggio Calabria, ma  anche un interessamento da parte di "Potere Operaio" «[...] Erano i primi giorni della rivolta di Reggio Calabria, e se c'era tanta  disperazione da spingere la gente in piazza per un motivo così futile come il capoluogo di regione, bisognava che i rivoluzionari fossero pronti a raccoglierla, prima possibile». (1) 
A tal proposito, Gianni Aiello, precisa, senza  nessun polemica di tipo politico, che quel “capoluogo di regione” ebbe a sottrarre alla città di Reggio Calabria, diversi uffici con  relativi posti di lavoro a partire dal 1970.
Dopo lo scioglimento di “Potere Operaio” a seguito del convegno di Rosolina (Rovigo, 31 maggio – 3 giugno 1973) viene fondato un nuovo nucleo da parte dei militanti veneti, ad eccezione delle sezioni di Venezia e Verona, i “Collettivi Politici del Veneto per il Potere Operaio”, dove operava Pietro Maria Walter Greco.
Nato a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria) il 4 marzo del 1947  si trasferisce nel Veneto, dove nel 1979 si laurea presso l'Università di Padova presso la facoltà di Statistica, insegnando in seguito matematica in una scuola media patavina.
Durante l'inchiesta avvenuta nella primavera del 1980 nei confronti dei "Collettivi Politici Veneti", verrà in seguito prosciolto e due anni dopo ancora inquisito.
Dopo l'esilio di Parigi, trova la morte in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine a Trieste il 9 marzo 1985. (2)
Altro riferimento viene fatto a Rocco Polimeni nato a Reggio Calabria il 5 novembre del 1956 si trasferisce a Milano nel 1979 dove lavora come tecnico informatico presso l'ufficio  informatico delle Imposte Dirette.
Venne  inquisito il 21 aprile 1982 per aver ospitato nella propria abitazione alcuni latitanti dei  "Comunisti Organizzati per la Liberazione Proletaria".
Morirà suicida nel capoluogo meneghino il 10 giugno dello stesso anno.  (3)
Il successivo intervento ha avuto come tema quello relativo a "La destra eretica negli anni sessanta e settanta" ed è stato curato da Daniele Zangari.
«Fu un momento - esordisce il Zangari-sicuramente difficile e carico di conflitti sociali e politici, caratterizzato da una vivacità in tutti i campi della vita sociale e culturale, un periodo che ricordiamo costellato da atti terroristici, dal sindacalismo esasperato, dagli scontri di piazza, dalle pistolettate. Sicuramente  sono stati anni difficili, di conflitti sociali e politici e, per chi li ha vissuti, indimenticabili: gli anni settanta sono stati un momento storico in cui la cultura italiana ha avuto un ruolo primario a livello internazionale».
Negli anni settanta venivano scanditi dai gruppi neofascisti gli slogans cari ai militanti della Repubblica Sociale di Salò, quali “Le donne non ci vogliono più bene” , “i neri”, “i topi di fogna”, mentre l'opposta fazione gridava “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”.
Quest’ultimo termine diede l'idea a Marco Tarchi, il futuro teorico della “nuova destra”, di fondare una rivista underground, “La voce della fogna”.
Ma l’odio della sinistra, insieme alla violenza della destra, provocarono numerosi morti in entrambi gli schieramenti.
Sono state ricordate  le numerose vittime sia di destra che di sinistra cadute  negli anni della contrapposizione, anche se - secondo il Zangari  - non è stato sempre così.
Nella fase iniziale del fenomeno della “contestazione” non vi era una forte  contrapposizione fra “neri” e “rossi”, infatti le prime occupazione degli atenei universitari venivano effettuate da entrambi i gruppi, spesso in condominio, come all’Università di Napoli, frequentata da numerosi calabresi.
Si passa poi alla disamina ed il relativo commento di pubblicazioni del tempo, quali riviste ed altri periodici. 
Nel marzo del 1962  nella cella n. 161 della prigione di Forest in Belgio, il rivoluzionario belga Jean Thiriart, inizia a scrivere il suo libro "Un impero di 400 milioni di uomini:l’Europa”, che diventerà il testo fondamentale del movimento nazional-europeo che nascerà nello stesso mese  a Venezia, dove alcuni giovani daranno vita al movimento extraparlamentare, "Giovane Europa", che avrà un organo ufficiale, stampato in lingua francese: "La Nazione Europea".
In Italia, il gruppo sarà guidato da Pierfranco Bruschi.
L’organo di stampa sarà “Europa Combattente” sul quale si dibatteranno le tesi nazional-europee di Thiriart.
Il 30 giugno del 1963 questo gruppo insieme alla F.N.C.R.S.I. organizza a Milano un convegno per cercare di unificare tutti i gruppi dell’ultradestra, dove saranno presenti, oltre a Pierfranco Bruschi, anche i dirigenti di “Ordine Nuovo”, le “Formazioni Nazionali Giovanili”che saranno dirette da un comitato, tale “Alleanza Nazional-Rivoluzionaria” che, avrà vita breve per profonde differenze ideologiche.
Rimasero in piedi, da un parte “Ordine Nuovo” che si costituirà in centro studi politici e avrà una rivista di orientamento ideologico con periodicità irregolare che uscirà sino al 1969, affiancata da un organo più politico “Noi Europa” e dall’altra “Giovane Europa” che avrà uno sviluppo capillare in tutta Italia. I punti forza di “Giovane Europa” saranno in Lombardia  ed in Emilia-Romagna e nel Sud anche a Reggio Calabria.
Vi era scarsa penetrazione nel Centro e a Roma, dove predominavano i gruppi di “Ordine Nuovo” e soprattutto la nascente “Avanguardia Nazionale” fondata da Stefano Delle Chiaie.
Le idee di Thriart fanno presa anche nella destra parlamentare e conservatrice. L’idea dell’Europa unita “da Brest a Bucarest” e distante dalla democrazia americana quanto dal  collettivismo sovietico rappresenta un nuovo modo di fare politica.
L’anno 1965 rappresenta il momento di massima diffusione del movimento. Inizia quindi una lenta decadenza che si concluderà nel 1968 con la contemporanea diffusione del movimento studentesco e del fenomeno della contestazione.
Si tenta dapprima il dialogo col movimento studentesco, tanto che nascono dei gruppuscoli che la stampa dell’epoca definì nazi-maoisti.
Una volta che il movimento studentesco viene strumentalizzato dal Partito Comunista, proteso verso il cosiddetto “compromesso storico”, e reso funzionale al sistema, nasce il “Movimento Studentesco Europeo”.
Nel marzo del ’69 viene diffuso in tutte le Università italiane il “Manifesto degli Studenti Europei”.
Questo movimento è attivissimo all’Università di Messina, il cui presidente è Giovanni Davoli, affiancato anche da studenti reggini.
Vengono tenute concitate assemblee ed in una di queste viene deciso l’occupazione del Rettorato.
La decisione viene contestata dai gruppi dell’ultrasinistra che tentano una prova di forza e non riuscendovi sono costretti a rifugiarsi nell’aula della Facoltà di Chimica, sotto la protezione della polizia.
I gruppi dell’ultradestra circondano l’edificio e tentano l’assalto provocando numerosi feriti fra gli occupanti.
Interviene Umberto Pirilli, presidente del F.U.A.N., organizzazione universitaria missina, che fa da mediatore e riesce a raggiungere un accordo fra le parti: dall’aula di chimica possono uscire solo le donne e i feriti, gli altri dovranno sfilare, con le mani dietro la nuca, attraverso i cordoni dei giovani dell’estrema destra.
Sulla scia del “Movimento Studentesco Europeo”nasce “Università Europea” che avrà larga diffusione a Napoli e in tutto il Meridione. Ma questo gruppuscolo, come tanti altri del resto, avrà vita breve.
Da una costola di “Università Europea” nascerà “Avanguardia di Popolo”. Ma “Università Europea”avrà un ruolo fondamentale quando nell’aprile del 1969 scoppierà la rivolta di Battipaglia,dove vi furono anche delle vittime e duecento feriti.
A Battipaglia in quei giorni, stranamente - afferma il Zangari - , non c’è posto per la sinistra, al contrario è presente “Università Europea”, i cui militanti insieme a quelli di “Ordine Nuovo” e di “Avanguardia Nazionale” giungono in forza e alla luce del sole di Napoli.
Dunque l’estrema destra meridionale si è sposata coscientemente o meno su posizioni nazional-popolari di tipo peronista.
Il primo gruppo che si richiama espressamente alle tesi nazional-popolari è“Avanguardia di Popolo” , i cui militanti nei loro cortei scandiscono lo slogan: “né destra né sinistra”.
Essi vogliono la costruzione dello Stato di Popolo contro l’imperialismo russo-americano e contro la NATO per l’indipendenza nazionale.
Per la loro ideologia i militanti di “Avanguardia di Popolo” verranno chiamati i  “fascisti rossi”.
I militanti di “Avanguardia di Popolo” si organizzano in “Comitati d’azione” per penetrare nei vari settori della società.
“Avanguardia di Popolo” solidarizza con i rivoltosi di Reggio Calabria, perché vede “finalmente il Sud sulle barricate”.
Il 2 febbraio 1971 distribuiscono un ciclostilato in cui affermano “i carri armati per le strade di Reggio non bastano più; c’è  bisogno dello squadrismo per riportare l’ordine … Enrico Berlinguer ha minacciato l’intervento  delle squadracce di partito al di sopra dello stesso Governo …  
Il PCI, dunque, vuole restaurare l’ordine borghese, l’ordine di Colombo e di Agnelli, di Nixon e di Restivo, l’ordine dell’oppressione e dello sfruttamento … La lotta di popolo passa, per ciò, soprattutto attraverso la sconfitta delle forze che oggi tentano di rivitalizzare un sistema in crisi; sono le forze della reazione antipopolare che devono essere smascherate e  stritolate”.
Il  Zangari conclude il suo intervento dicendo che l'insegnamento che si può trarre dalle vicende di quegli anni, è che la violenza non serve e non può portare da nessuna parte, né tanto meno il sogno utopico dell’immaginazione al potere.
Il terzo intervento è toccato a Giovanni Scaramuzzino che ha esposto interessanti argomentazioni della sua  tesi di laurea discussa presso l'Ateneo messinese.
Il periodo dei primi anni ’60 risulta sul piano internazionale un momento nel quale si consumarono le grandi speranze di distensione e di pace e che videro la contemporanea presenza nello scenario mondiale di grandi uomini come  Kennedy, Kruscev, e Papa Giovanni XXIII.
Purtroppo quelle speranze vennero lentamente a cadere di fronte al delitto di Dallas, al nuovo corso della politica dell’URSS, alla guerra in Vietnam e alla “primavera di Praga” soffocata dai carri armati sovietici.
La storia dell’Italia e della Dc, il partito di maggioranza relativa, deve confrontarsi con questa complessa ed articolata realtà nazionale ed internazionale.
L’operazione politica del centro sinistra aveva segnato, all’inizio degli anni ’60, una delle più significative ed importanti svolta storiche dell’Italia del secondo dopo guerra.
Dopo anni di lenta, difficile e spesso tormentata maturazione, approdò alla guida del Paese, a fianco della DC, il partito socialista, una grande forza popolare con antiche e profonde radici nella storia politica e sociale italiana e nella storia del movimento operaio.
Il centro sinistra ebbe il merito di allargare la base sociale dello Stato, di aprire il paese ad un costume di libertà e ad un respiro democratico più intenso e convinto.
Tuttavia, non si può negare che nel giro di qualche anno vennero tradite molte delle speranze e delle attese che avevano accompagnato l’avvio della nuova formula di governo e tali disagi sfociarono nella protesta giovanile e nelle grandi agitazioni e rivendicazioni operaie del 1968 e 1969.
Questi fermenti che attraversarono la società la società civile, si accompagnarono, sul piano politico, alla lenta e inarrestabile crisi del centro sinistra, che alla fine del 1968, dopo un “governo balneare” di Leone, stava per essere ripresa con non poche difficoltà da Mariano Rumor.
Ma questi anni segnarono anche l’avvio di un processo degenerativo degli equilibri sociali e istituzionali, infatti il clima di tensione per le proteste degli studenti e dei lavoratori si fece infuocato.
Verso la fine del 68 la protesta sfociò nelle fabbriche i “Comitati unitari di base”proclamarono scioperi ad oltranza paralizzando gran parte della produzione italiana.
Il rinnovo dei contratti dell’autunno del 69  fu il più grande conflitto sociale che l’ Italia vide, gli scioperi sfuggirono di mano agli stessi sindacati che si videro scavalcare da formazioni autonome e auto gestite .
Il sistema sindacale fu travolto dal movimento spontaneo dei lavoratori, ma anche il sistema politico ne fu sconvolto, in questo periodo entra in scena il terrorismo.
Il 12 dicembre 1969 esplose alla “ Banca dell’Agricoltura” di piazza Fontana a Milano una bomba, che uccise 16 persone e ne ferì una dozzina, era iniziata quella che fu definita la strategia della tensione.
Sul piano politico questo atto terroristico fu interpretato da molti come una risposta al momento storico conosciuto come “Autunno Caldo” e alla fase di confusione che attraversava la Dc in quel momento e soprattutto come risposta di certi ambienti eversivi, con la partecipazione anche di settori deviati dei servizi segreti alle aperture a sinistra.
Con la “strategia della tensione”, si voleva ristabilire l’asse politico a destra e con l’attentato di piazza Fontana si cercò di dimostrare l’inadeguatezza del sistema politico.
Il 28 maggio 1974 una bomba era esplosa a Brescia, a piazza della Loggia, durante una manifestazione antifascista, provocando otto morti e decine di feriti .
A Padova le Br rivendicarono l’assalto alla sede del MSI, che provocò la morte di due missini.
La notte tra il 3 e 4 agosto nei pressi della stazione di Bologna un'altra bomba esplose sul treno “Italicus” provocando dodici morti e molti feriti.
A queste difficoltà si aggiunsero anche quelle di un quadro politico incerto, e in queste condizioni  il governo Rumor rassegnò le dimissioni il 3 ottobre del 74.
In tutto questo Aldo Moro oltre ad essere stato il principale artefice di questo lungo e tormentato cammino, che portò all’incontro storico tra DC e PSI, era riuscito ad interpretare lucidamente, sin dalla fine degli anni ’60 la nuova realtà sociale e i fermenti che stavano attraversando il Paese, che stavano mettendo in discussione antiche verità e antichi valori.
C’era in Moro un eccezionale capacità nel sentire le vibrazioni nuove nella società civile.
L'incarico fu affidato a Moro, che formò un Governo con il PRI e con l’appoggio esterno del PSI e del PSDI.
Aldo Moro anche al governo non trascurò di portare avanti quella politica di attenzione nei confronti del Pci.
Il 1 aprile del 1976 il governo cadde.
Si arrivò quindi alle elezioni anticipate,con dubbi, incertezze ma soprattutto paure per un possibile sorpasso del Pci sulla Dc, e che avrebbe fatto scattare tutta una serie di “procedure” difensive per la vittoria comunista (Gladio)
In questo clima di strisciante guerra civile si arrivò al voto del  29 giugno che confermò la Dc come primo partito e che anzi rispetto alle regionali di appena un anno prima riuscì a recuperare, infatti si attestò al 38,7 % mentre il Pci si fermò al 34,1 %.
Queste elezioni avevano posto il problema già sollevato da Moro di associare il Pci alla maggioranza, infatti si creò uno stallo, poiché la “bipolarizzazione” del voto, tra Dc e Pci, non consentiva nessuna possibile alternativa né in termini numerici né in termini politici.
Infatti in termini numerici non era possibile la formazione di una maggioranza a sinistra che escludesse la Dc , in termini politici perché i partiti laici e in modo particolare il Psi non potevano acconsentire a un impegno diretto del Pci, troppo egemonizzante a sinistra.
Ecco quindi il profilarsi la «solidarietà nazionale»  che nasceva da questa impossibilità a governare il paese fermo in stallo politico.
Aldo Moro si rese conto che c’erano stati due vincitori e due vincitori non potevano governare.
Questa impossibilità a governare portò a coinvolgere a vario titolo gli altri partiti, compreso il Pci.
La «solidarietà nazionale»,così fu chiamata, diventava lo sviluppo della «terza fase» che Moro aveva previsto.
Dopo l’allargamento della base sociale del paese con l’entrata nella maggioranza del Psi, ora anche la base del Pci, attraverso la non sfiducia, entrava a farne parte.
Questo rappresentò la fase di avvio del «compromesso storico».
Mentre la politica di «solidarietà nazionale» si evidenziava con problemi , caratterizzati anche da rinnovate tensioni sociali e con un ondata di violenza che stava abbattendosi sul paese.
Queste tensioni sfociarono particolarmente nell’episodio avvenuto all’università di Roma il 17 febbraio del 1977, dove il segretario della CGIL, Luciano Lama, fu vittima di fortissima contestazione, tanto che l'esponente in questione per potersi allontanare venne scortato dal servizio d’ordine del suo sindacato.
Le trattative tra i partiti andarono avanti faticosamente, ma il 10 luglio si raggiunse un accordo di programma per sostenere il governo Andreotti, sulla base di un programma che comprendeva molti temi cari alla sinistra, tra cui l’equo canone per gli affitti, la legge sulla riconversione industriale e una seria politica occupazionale giovanile.
La novità dell’« accordo a sei» , tra Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri e Pli, fu che per la prima volta i comunisti e i democristiano trattarono direttamente e si impegnarono a sostenere entrambi il governo, i comunisti attraverso la «non sfiducia».
La posizione del Pci nella nuova maggioranza non era della più semplici, infatti al segretario Berlinguer e a tutta la dirigenza del partito non fu facile spiegare alla propria base e quella  sindacale, che il Pci appoggiava un governo che si apprestava ad un significativo risanamento dell’economia e quindi questo avrebbe portato a richiedere dei sacrifici ai lavoratori.
Pochi in Italia seppero, allora, cogliere con altrettanta lucidità i fermenti e le inquietudini di quegli anni, una realtà nuova, di fronte alla quale egli aveva indicato alla Democrazia Cristiana “ una politica per i tempi nuovi”. 
Indicò alla DC la strada di una rinnovata presenza e di un modo nuovo di confrontarsi con la realtà di un mondo che stava cambiando e al quale occorreva dare un segnale di presenza e di attenzione.
Per raggiungere questo obiettivo chiese al suo partito un bagno di umiltà e una seria autocritica “ la necessità di essere forza di opposizione a noi stessi” .
Fu ancora Moro, alla metà degli anni ’70, quando più acuta si manifestò la crisi sociale del Paese, e la crisi della stessa DC, a riprendere per mano il partito e guidarlo verso quel nuovo progetto politico, che chiamò “terza fase” e verso la quale cercò di condurlo, con l’attenzione al delicato rapporto tra istituzione, società e partiti politici.
Moro, per gestire l’emergenza, si rivolse alle forze politiche che avevano costruito il nuovo Stato repubblicano ai tradizionali alleati di Governo ma anche al Partito Comunista.
Era presente in Moro un ansia di dare una casa comune a tutti i cittadini, anche a quelli che si rivolgevano al partito comunista, Moro si rese lucidamente conto che con la protesta studentesca ormai in pieno fermento  e con sentori di strategie eversive che coinvolgevano anche apparati dello stato, il vecchio schema politico non bastava più e che per evitare un involuzione autoritaria di certi ambienti anche vicini alla DC, il dialogo con il PCI era diventato fondamentale.
Moro intendeva risolvere all’interno delle Istituzioni democratiche la questione comunista.
Nel suo ultimo intervento politico; il 28 febbraio 1978, parlando ai parlamentari Dc, in gran parte riottosi ad accettare una collaborazione politica con PCI, che sembrava contraddire la storia del partito, assunse il significato di un testamento politico:“ricordiamoci della nostra caratterizzazione cristiana, della nostra anima popolare.
Ricordiamo quindi quello che siamo.
Siamo importanti, ma siamo importanti per questo amalgama che caratterizza da trent’anni la Democrazia Cristiana.
Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme.
E senza queste cose non saremmo il più grande partito popolare italiano.
Conserviamo la nostra fisionomia e conserviamo la nostra unità”.
L’epilogo della parabola di Aldo Moro, è tristemente noto.
Il 16 marzo 1978 dopo aver assistito al massacro della sua scorta, venne rapito e sottoposto ad una lunga e penosa prigionia, conclusasi con un delitto orrendo e vergognoso, che ferì profondamente l'animo del popolo, che al di là delle divisioni politiche seppe riconoscere la necessità di un impegno comune nella lotta al terrorismo.
Il 16 marzo il nuovo governo monocolore, presieduto da Andreotti,  si presentò alla Camera il per il voto di fiducia.
Quello stesso giorno Aldo Moro mentre si stava recando in Parlamento, fu rapito e la sua scorta massacrata dalle Brigate rosse.
Iniziò così una drammatica trattativa tra lo Stato e le Br, che durò per 55 giorni.
La svolta che il 16 marzo fu “apparentemente” determinata dalle Br si collega alla interpretazione, ampiamente documentata, che questa organizzazione, autonoma come origine e come comportamento, fu utilizzata a fini di stabilizzazione del “governo invisibile”, che trovò espressione in poteri occulti (come la P2) e in settori, poi detti deviati, dei servizi segreti.
Ma al di là di queste considerazioni generali, il momento specifico scelto per il sequestro di Aldo Moro, suggerisce una interpretazione, circa il rapporto tra il Pci e il multiforme movimento sviluppatosi alla sua sinistra e del quale le Br rappresentavano la scelta più conseguente per la lotta armata.
Le Br si proponevano col sequestro Moro, di acquistare legittimazione politica, contendendo al Pci il consenso di massa, secondo l’indicazione fornita da tutte le loro risoluzioni strategiche.
Sotto questo profilo la data del 16 marzo non appare la più indicata per le Br.
Esse ritenevano di poter indurre al fiancheggiamento della lotta armata una parte degli stessi militanti del Pci.
Ma questo disegno, di fatto rivelatosi impossibile in una società industriale matura, suggeriva comunque che il momento migliore per raggiungere lo scopo non era quello scelto.
Se il partito armato intendeva dimostrare – come sosteneva - che la strategia del compromesso storico era fallimentare, il momento più opportuno per una grande operazione non sarebbe stato il momento iniziale dell’esperimento di partecipazione alla maggioranza, nel quale l’insieme del “popolo comunista” manifestava qualche fiducia, nonostante le perplessità.
Il momento migliore sarebbe stato l’autunno successivo, alle soglie di un difficile inverno, quando si sarebbe constatato che l’ingresso del Pci nella maggioranza non comportava mutamenti (ne avrebbe poi preso atto lo stesso Berlinguer) e forte sarebbe stata di conseguenza la delusione nell’insieme dei militanti e soprattutto tra quelli collocati più a sinistra.
La scelta del 16 marzo fu dunque più funzionale all’impostazione della Dc (enfatizzazione dell’emergenza terroristica, combattere la quale divenne l’unico obbiettivo del governo a sostegno comunista)  che a quella delle stesse BR.
Non si può pensare, infatti, che sia stato un piccolo partito armato fuori legge che abbia posto fine, già mentre iniziava, a un progetto politico che sembrava coronare trent’anni di strategia del Pci e cinque anni di successi della segreteria Berlinguer.
La morte di Aldo Moro aprì una profonda lacerazione nella società italiana e molte cose iniziarono a cambiare nello scenario politico.
Negli Anni Ottanta, per la prima volta nella storia repubblicana, il governo fu affidato ad un leader non democristiano: Craxi, segretario del Psi, divenne Presidente del Consiglio.
Le Br continuarono ad uccidere.
L’emergenza terrorismo durò fino alla metà degli Anni Ottanta, ma con l’assassinio di Aldo Moro le Brigate rosse posero le basi per la loro  definitiva sconfitta.
I tre decenni che seguirono si caratterizzarono per il susseguirsi di cinque processi, centinaia di libri e migliaia di interrogatori.
Tuttavia il “caso Moro” rimane ancora uno dei misteri più fitti della storia repubblicana italiana.
Le conoscenze acquisite finora indicano che Moro è morto perché le Brigate rosse decisero di ucciderlo e perché non intervenne nessun elemento che riuscì a fermarle.
Aldo Moro, l’uomo del dialogo e della trattativa, in quei 54 giorni fu impegnato nella più difficile mediazione, attraverso le tante lettere che inviò dalla “prigione del popolo”, tra le Br che lo tenevano in ostaggio e lo Stato che avrebbe dovuto difenderlo.
Moro si rese conto che l’unica “merce di scambio” che possedeva, erano i segreti dello Stato di cui  egli era a conoscenza.
Ma quando quei segreti iniziarono a trapelare, il suo sequestro divenne un caso internazionale, con agenti segreti di tutto il mondo, che si mossero senza scrupoli per proteggere quei segreti.
Moro stava rivelando segreti militari sensibili per costringere lo Stato a trattare la sua liberazione, ma quei segreti non furono capiti dalle Br.
Nel “caso Moro” entrarono in gioco poteri assai più forti della politica e dei governi.
Iniziò una complessa trattativa segreta per proteggere i segreti che Moro stava rivelando.
Aldo Moro divenne un argomento pericolosissimo da trattare.
Dopo la sua morte altri omicidi legati al caso, insanguinarono l’Italia, uno tra  tutti quello del giornalista Mino Pecorelli direttore di O.P. (Osservatore Politico) che dalle colonne del suo giornale fece tremare più d’uno con le rivelazioni del memoriale che Moro scrisse durante la prigionia.
Dopo la fine di Moro tutto il sistema lentamente cominciò ad incrinarsi lacerato da accuse pesantissime di inefficienza, di sospetti, ricatti e veleni.
La Dc dopo pochi anni crollò sotto il peso di un ondata giustizialista, durante la quale l’assenza di una figura autorevole come Moro si rivelò devastante.
Il Pci, dopo il crollo del muro di Berlino, cercò di rigenerarsi, ma poco e male rimase di quel grande partito, che a torto o a ragione contribuì all’Italia che oggi conosciamo.
Moro rimase un “punto irriducibile di contestazione”  per la Dc e per la società.
Il  “suo” partito non si discostò, neanche dopo la sua morte, da quel recinto politico che egli aveva costruito.
Aldo Moro è stato una delle figure chiave della Repubblica, ideatore di svolte e passaggi essenziali nella storia italiana, uomo capace di grandi elaborazioni intellettuali e di una progettualità politica di ampio respiro.
Come tutti i grandi della Repubblica, appartiene soprattutto all’Italia, alla storia comune del nostro paese.
Di Moro ci rimane il suo messaggio politico, la ricerca costante dell’equilibrio e della sintesi per la mediazione pacifica dei conflitti, che spesso la politica o meglio il potere può generare. Moro è stato l’uomo del dialogo.
E’ riuscito a far compiere passi impensabili al suo partito e al paese, dialogando.
Ha portato la Dc all’alleanza col Psi e all’avvicinamento col Pci, attraverso l’ascolto e la comprensione delle posizioni.
Era presente in Moro una volontà ferrea al fine di far superare l’emergenza e sanare la ferita che il fascismo e la guerra avevano creato nel paese.
Da Ministro degli Esteri fu il primo ad intuire la necessità alla distensione tra l’URSS e gli USA e fu anche tra i primi a comprendere l’importanza della cooperazione tra i popoli.
Aldo Moro ci ha lasciato in eredità una visione quasi pastorale della politica, non solo impegnata nella conservazione del potere, ma una politica impegnata nella ricerca del bene comune.
Le conclusioni sono state dell'onorevole Giovanni Nucera che nella parte iniziale del suo intervento ha espresso più volte elogi alla pregevole iniziativa ben organizzata e strutturata da parte del sodalizio culturale reggino.
«Non ho mai conosciuto Suor Teresilla - esordisce il rappresentante istituzionale della Regione Calabria - se non in occasione della sua tragica morte avvenuta il 23 ottobre, del 2005, quando venne investita da una macchina mentre si recava in pellegrinaggio dal centro di Roma al Santuario del Divino Amore. Furono due le cose che mi colpirono: la coincidenza con la canonizzazione del Santo Gaetano Catanoso ed il fatto che la stampa nazionale sottolineava a riguardo Suor Teresilla: "la Suora del caso Moro"».
Chi era, quindi, questa piccola suorina dalle caratteristiche ordinarie, sconosciuta ai più, anche fra la sua gente, ma accostata ad una vicenda della vita politica e sociale italiana ed europea in tal misura da essere riconosciuta subito come la “piccola suora dei misteri” (definizione che molto la fece soffrire perché di “misteri” non ne aveva) della vicenda giudiziaria delle brigate rosse e del delitto Moro?
Chiara Barillà era nata a Bagaladi in provincia di Reggio Calabria il 1 agosto 1943 da una famiglia povera e anche numerosa e giovanissima, all’età di sedici anni, entrò a far parte della Congregazione delle Serve di Maria Riparatrici, ordine fondato a Vidor in provincia di Treviso il 12 luglio 1900 da Madre Elisa Andreoli .
Chiara Barillà non era una donna di grande cultura ma aveva saputo trasformare le basi formative e le conoscenze scolastiche degli istituti magistrali prima e di infermiera professionale dopo in sapienti strumenti di rapporti umani non comuni con tutte le persone  con cui veniva in contatto.
Gratie gratis datae”, la teologia cattolica così definisce qualsiasi donazione divina sovrannaturale per indicare delle grazie straordinarie che vengono conferite per utilità degli altri ad edificazione della Chiesa che è il Corpo Mistico di Cristo destinato a giungere alla perfezione, ossia alla pienezza di grazia, per opera di un ministero reso efficace da certi doni straordinari: i carismi.
Il principio di comunione vuole che la vita di ogni uomo sia nella vita, dalla vita e per la vita di tutti gli altri.
Ma non può esserci comunione se non c’è unità.
L’unità nella Chiesa non è un fatto a se stante.
Certo, la Chiesa è una nel suo mistero perché essa è Corpo di Cristo ed il Corpo di Cristo è uno.
Ma se l’unità misterica è sempre perfettissima,l’unità storica, quella visibile, che tutti i cristiani sono chiamati a realizzare nella quotidianità di ogni giorno, è affidata agli uomini, ciascuno dei quali parte essenziale di questa unità che si compie perfettamente se ognuno vive in pienezza il suo dono di grazia, secondo la sua vocazione, secondo il suo ministero, secondo la sua responsabilità, secondo i suoi carismi, appunto, ovvero secondo  quei particolari doni dello Spirito Santo che sono al tempo stesso “una manifestazione particolare dello Spirito donata a ciascuno per l'utilità comune”.
La parola carisma deriva, infatti, dal greco charis, che designa al tempo stesso la generosità del donatore, il dono stesso e la bellezza che ne risulta per il beneficiario.
Mi interrogo, allora, intravedendo nella sua vita, i germi di questo mistero: quali erano i carismi di Suor Teresilla?
Sicuramente fu degna figlia e serva di Maria.Maria Santissima lei la conobbe già nella cultura e nella tradizione calabrese.
La devozione mariana e l’amore a Maria, per lei originaria di Bagaladi, significa Polsi, significa la montagna, la tradizione popolare, lo stare fra la gente, fra i più umili i più sofferenti e fra quanti ultimi avevano bisogno di un conforto e di una carezza calda nel freddo di una società che non sempre dispensa amore.
Considera la riconciliazione fra gli uomini come presupposto indispensabile per il perdono e  l’aprire il cuore a Dio per la salvezza del mondo.
Questi, insieme a tanti altri erano gli aneliti di un vento impetuoso ma dolce che animavano la sua missione vocazionale spingendola ad essere infaticabilmente presente, per circa 18 ore al giorno e accanto al bisogno “degli ultimi” “Ultimi” non sempre sono i tanti poveri e derelitti incontrati sulla strada nelle fredde e solitarie vie delle notti di Roma, spesso sono anche uomini importanti che smarrito il senso dell’equilibrio e della razionalità e travolti dalle passioni e dagli orgasmi di una società che spesso spinge al male sono stati relegati in condizioni di abbandono e di solitudine: sono i carcerati, gli afflitti e i senza Dio, coloro che hanno smarrito la serenità dell’animo e la fiducia in se stessi e nel prossimo.
E qui Suor Teresilla manifesta, senza esserne mai consapevolmente complice, tutto il suo Carisma, tutta la forza interiore, la caparbietà spirituale e la grandezza morale della sua natura umana e di fede.
Passava dagli ospedali alle carceri, e viceversa, lenendo ora le ferite del corpo quale infermiera, ora le ferite dell’anima.
Per lei non c’era differenza: dov’era la sofferenza, cercava il rimedio, il sollievo.
Le famiglie dei carcerati che visitava, conoscevano Suor Teresilla come la Suora amica perché visitate, aiutate e sostenute nelle difficoltà che queste famiglie affrontano nel vivere quotidiano e nella società che spesso li emargina.
Conobbe ed aiutò tantissimi anonimi e sconosciuti giovani nella fase del recupero ad una più piena integrazione di vita e di relazioni sociali post carceraria cercando ovunque posti di lavoro e gente generosa che potessero e fossero disponibili ad aiutarli.
Così, ad uno ad uno, conobbe tanti brigatisti  rossi, conquistando e ricevendo gratuitamente la loro fiducia.
Fiducia che Ella seppe ricambiare con tanto amore.
Le brigate rosse, nonostante l’inutile delitto Moro, persero la loro battaglia che la storia certificò come falsa sia sul piano ideale che su quello culturale.
La piccola Suora, invece, vinse insieme a loro la difficile battaglia della riconciliazione e del perdono.
E per molti di essi finanche della conversione.
Ad uno ad uno, molti dei più temuti brigatisti rossi e neri del tempo, hanno conosciuto, nell’aridità delle loro culture e nel deserto del loro animo, l’opportunità di una opzione di vita più fresca e più rigogliosa.
Alcuni abbracciando la fede Cristiana.
Altri, pur non abbracciandola, per il solo fatto di essersi rimessi in discussione, predisposero il loro animo ad una condizione di pentimento e di ravvedimento sociale ed umano.
Chi poteva mai immaginare, che nella difficile opera portata avanti dal Governo italiano per sconfiggere il terrorismo rosso negli anni ’80, questa piccola Suorina di Bagaladi svolse un compito tanto delicato ed importante che consentì di favorire il dialogo fra brigatisti e Governo
A lei la consegna del memoriale del delitto di Aldo Moro, a lei i continui contatti tendenti a  fermare la lotta armata ed a sostenere la riconciliazione fra brigatisti e tra questi e gli uomini del Governo italiano.
Presidenti della Repubblica Italiana, uomini di governo con funzioni di grande responsabilità nella guida del paese, uomini delle forze dell’ordine e magistrati si sono rivolti a lei ed alle sue preghiere per sostenere l’opera di pacificazione e riconciliazione.
Uomini come Giovanni Galloni, Benigno Zaccagnini, Guido Bodrato, Giulio Andreotti,Oscar Luigi Scalfaro, Flaminio Piccoli e Francesco Cossiga hanno dovuto riconoscere, nell’azione di mediazione condotta da questa donna, un altissimo e purissimo valore sociale mai contaminato da strumentalizzazioni di carattere politico: lei si occupava delle persone e della loro anima.
Voleva capire le loro ragioni cosa li spingesse a tanto odio e violenza .

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14 giugno 2007
la Repubblica, sabato 19 Marzo 1978
la Repubblica, mercoledì 16 Marzo 1978

(1) Camera dei Deputati, intervento nella seduta del 12 agosto 1970;
(2) AA.VV. “Sguardi ritrovati”, Sensibili alle foglie, 1995, pp.367-372;
(3) AA.VV., opera citata, pp.320-321.

la Repubblica, mercoledì 10 Maggio 1978
cronologia relativa al periodo 1967-1982