
Si è svolta nella sala conferenza  dell'Archivio di Stato di Reggio Calabria la settima edizione della  giornata di studi "Pirateria turchesca sulle coste della Calabria Ultra". 
    La manifestazione è stata  organizzata dal Circolo Culturale “L'Agorà” in collaborazione con l'Archivio di  Stato di Reggio Calabria.
    Piace evidenziare che l'incontro  è stato inserito nel palinsesto della XIV edizione della Settimana della Cultura organizzata anche quest'anno dal Ministero  per i Beni e le Attività Culturali. 
    Tale serie di iniziative (14-22  aprile) si volgono in contemporanea su tutto il territorio della penisola  italiana con diverse iniziative, aventi vario target  che vanno dalla convegnistica, alle visite  guidate, mostre, concerti.
    Per nove giorni si svolgono in  diverse location, quali musei, aree archeologiche, biblioteca statali ed  archivi.
    Ha aperto i lavori la direttrice  dell'istituto culturale Mirella Marra che ha evidenziato l'importanza  dell'incontro per la storia del territorio e nel contempo ha voluto ringraziare  il docente universitario per la sua presenza   alla tavola dei relatori. 
    Tra l'altro ha voluto tributare  un ringraziamento a nome dei reggini per un'altra sua pubblicazione relativa  alla città di Reggio Calabria e nello specifico insieme alla professoressa  Currò. (1)
    Tale pubblicazione rappresenta un  punto di riferimento sia per gli studenti che per i ricercatori che frequentano  l'Archivio di Stato.
    Ritornando al tema della giornata  la direttrice dell'Archivio di Stato ha ricordato ai presenti che vi sono una  serie di documenti che riportano notizie relative alla peste e dei principi di  peste che si sono succeduti e che in varie   epoche hanno colpito la città di Reggio Calabria.
    A riguardo tale argomento è stato  messo a disposizione dei presenti un protocollo notarile che testimonia tale  presenza ed attraverso tale documentazione si hanno notizie della peste sul  territorio. Il documento datato Reggio, 2 settembre 1656 riporta che“Domenico Genoese e notar Livio Laganà,  deputati della salute di Reggio, dichiarano che durante il mese di agosto, concordemente  con i Sindaci, avevano stabilito che di notte si potesse pescare dalla Guardia  di cavallari di Ravagnisi a quella della Guardia di Pentimeli seu delle Pietre  Negri. Essendo sopraggiunto, però, il pericolo di contagio della peste, tanto  sono state trovate diverse sorte di robbe mobili che ha buttato il mare  nella Marina delli Junchi ... Non senza  gravissimo pericolo e suspetto di infettarsi la nostra Città, i Deputati alla  salute invitano i Sindaci a vietare alli patroni di tutte le sciabache come di  qualsivoglia altra sorte di piscate in tempo di notte in nessuna parte delle  Marine di questa nostra predetta città sotto formidabile pena, come è solito  farsi nei tempi di suspetto di contaggio”. (2) 
    Dalla lettura di tale documento  si evince a chiare lettere il forte timore per tale morbo,il divieto della  pesca notturna nel tratto di mare riportato nel documento notarile in  argomento. 
    Dall'uso delle parole e del  linguaggio riportate su tale atto risulta chiaro quanto fosse il terrore nei  confronti della peste, tra l'altro come riportato dai Deputati alla Salute in  tale protocollo notarile.
    Il Presidente del Circolo  Culturale “L'Agorà”Gianni Aiello nel corso del suo intervento ha voluto  ringraziare l'illustre ospite per aver citato nella sua pubblicazione "I porti della peste" le ricerche  cronologiche che tra l'altro si trovano nell'apposita pagina web del Circolo  Culturale L'Agorà, denominata CRONOLOGIA, dove vengono riportati diversi  avvenimenti suddivisi per anno, mese e giorno. 
    Tra l'altro - prosegue Gianni Aiello - nella home page  del nostro sito internet vi è una link cherimanda  alla pagina CITAZIONI dove sono riportati diversi saggi di vario target che  citano la nostra Associazione.
    Ritornando al tema dell'incontro il Presidente del sodalizio  organizzatore ha tracciato brevemente all'uditorio il percorso ed i contenuti  delle precedenti edizioni . 
    La parola è passata alla  ricercatrice universitaria Elena Gugliuzzo che il volume di Giuseppe Restifo  "I porti della peste. Epidemie  mediterranee tra Sette e Ottocento" (Mesogea, Messina 2005, pp. 212)  si presenta come una sorta di crociera sui generis nel Mediterraneo centrale  d’età moderna. L’autore percorrendo le varie rotte ci conduce di porto in  porto: da Marsiglia a Messina e Reggio, da Split a Malta, da Corfù a Tunisi, a  Mallorca. Ma fare ‘storia della peste’ significa fare storia della società. 
    La peste viene analizzata  dall’autore come “cassa di risonanza delle  tensioni sociali, anzi come  laboratorio  in cui possiamo assistere, in uno spazio di tempo limitato, al sorgere di  azioni individuali, di piccoli gruppi, collettive, che indeboliscono o scuotono  i cardini dell’ordine sociale, ovvero che tentano di mantenerlo o di  restaurarlo” (A. Pastore, 1991)
    L’intercettazione dei traffici marittimi presuppone la  rottura delle barriere, di qualsiasi natura esse siano. Nell’ambito dei  cosiddetti traffici ‘patologici’,  malattie confinate per un certo tempo in determinate regioni possono  ‘esorbitare’; in particolare ci si espone al rischio del contagio pestifero.  Quanto accade nel Mediterraneo centrale fra il 1720 ed il 1820 ne è la prova:  l’apertura dei porti di Marsiglia, Messina, Split, Malta e Tunisi alle merci e  uomini provenienti dal Levante porta allo scoppio di devastanti episodi di  peste. 
    Come ha sottolineato Daniel  Panzac, soprattutto chi frequenta il Levante e Barbarìa naviga “sotto la 
  minaccia quasi permanente della peste che potrebbe manifestarsi  improvvisamente a bordo”.
    Certamente fenomeni quali la  guerra di corsa (senza trascurare il contrabbando e la cosiddetta  dissimulazione’) non possono far altro che intensificare i rischi di contagio  grazie alla continua frequentazione di porti ‘poco sicuri’; più che di pericolo  di ‘contaminazione’ religiosa, che tanto apparentemente sembra preoccupare le  varie potenze, si dovrebbe parlare piuttosto di pericolo di ‘contaminazione’  epidemica. 
    E la contrapposizione tra i due  fronti, cristiano e islamico, va rammentato, non fu sempre netta, ma  inquinata da interferenze che con la  religione avevano poco da spartire e investivano semmai reciproci rapporti di  potere. 
    La ricerca di alleanze  trasversali dall’una e dall’altra parte è un dato di fatto ampiamente  documentato. 
    Proprio perché quella  contrapposizione non fu essenzialmente religiosa, ma politica e militare. 
    I nemici degli uni di volta in volta potevano essere gli  amici degli altri, in un quadro di   alleanze in cui si presentano diversi elementi di fluidità. 
    Insediati nei porti del nord-Africa, nominalmente soggetti  al sultano ottomano ma via via sempre più autonomi (sino a sfiorare alla fine  del Settecento quasi l’indipendenza di fatto) i barbareschi conducono per i tre  secoli dell’età moderna una efficace guerra di corsa, con attacchi sistematici  alle navi cristiane e con rapidi e micidiali sbarchi sulle coste; ad Algeri,  Tunisi e Tripoli affluiscono così merci e uomini in grande quantità: sul  recupero delle mercanzie predate e sul riscatto degli schiavi prospera un  attivo commercio che coinvolge, ovviamente, molti uomini d’affari cristiani. 
    Bottino della pirateria e della corsa sono le merci ma anche,  in molti casi soprattutto, gli uomini; la cattura di schiavi, destinati al  riscatto, alla voga forzata nelle galere o al  lavoro servile, alimenta uno dei più lucrosi giri d’affari nel Mediterraneo  dell’età moderna. 
    In verità però all’attività corsara  dei musulmani si oppose quella delle squadre delle marine cristiane ed anche di  singoli privati corsari. 
    Quali corsari cristiani bisogna  anzitutto  riconoscere i due ordini  cavallereschi e marinari dei Cavalieri di Malta e dei Cavalieri di Santo Stefano.  La corsa, sia cristiana sia barbaresca, fu una grande occasione di  rimescolamento d’uomini, così come fu un potente motore di  interessi economici (S. Bono, 2006).
    Nel 1768 la peste regna a Tripoli. Tripoli pratica, come  Tunisi ed Algeri, la guerra di corsa: le Reggenze barbaresche vengono  particolarmente temute non solo per i contrasti armati, ma anche per i  possibili contagi. 
    La presenza numerosa e concentrata di schiavi nelle capitali  barbaresche costituisce “una sorta di brodo di coltura della più ampia gamma di  agenti patogeni”. 
    Il pericolo derivante dall’esposizione al contagio a causa della  circolazione poco controllata di uomini e merci porta: “Dès la fin du XIVe siècle, différents ports européens de la  Méditerranée, Venise, Marseille, Raguse, ont cherché à organiser une défense  contre la peste, mais ce n’est qu’au   XVIIe siècle que sont apparues des administrations sanitaires  permanentes dotées de lieux d’observation isolés, les lazarets, et d’une  réglementation spécifique”. 
    Struttura  portante della lotta alle epidemie è il lazzaretto: “Les premières mesures de protection, les lazarets, les billets et  patentes de santé sont apparus dans les villes méditerrannéennes d'abord, dans  les cités de l'intérieur de l'Europe ensuite”.
    Per nulla inconsueti sono gli  ospiti illustri di tali strutture che si vedono più o meno costretti a  permanere per un certo numero di giorni in condizioni non sempre agevoli, i  quali danno però vita anche a ricordi quasi ‘divertenti’ dei loro soggiorni. 
    Del lazzaretto di Genova è ospite  Jean-Jacques Rousseau nel 1743,   a causa della peste di Messina, e come racconta ne Les  confessions: “prima di tutto mi divertii  a dar la caccia alle pulci che  m’ero  buscate nella feluca”.
    Secondo il dottore francese,  Antoine Clot Bey, naturalizzatosi egiziano con Muhammad Ali, non tutti i  contagi dei più importanti porti euromediterranei si possono far risalire “à des violations de quarantaines, des  fraudes, de contrabande”. 
    Ma in molti casi, tra cui quello  messinese, il comportamento fraudolento di alcuni naviganti s’accoppia con atti  di contrabbando a terra e con una certa dissimulazione di chi era incaricato di  salvaguardare la salute pubblica.
    Nei travagli della peste, quando  però i medici avevano esaurito i loro (in verità pochi e  soprattutto primitivi) espedienti, quando  amuleti ed erbe prodigiose non sortivano alcun effetto, era il caso di  rivolgersi ai santi protettori. 
    Cappelle, chiese, statue, “ex  voto”  venivano comunemente realizzati  per la cessazione di un’epidemia di peste; soprattutto vi era un proliferare di  pitture votive raffiguranti San Sebastiano, tradizionalmente invocato, insieme  a San Rocco, in quanto santi contra  pestem per eccellenza. 
    Il viaggiatore francese  Pierre-Augustin Guys, divenuto console a Zante, riferisce le credenze popolari  esistenti nel 1783 a  proposito della peste: essa viene rappresentata come un terribile flagello che  imperversa in Grecia, una vecchia donna vestita di nero che soffia durante la  notte, sulle case che essa percorre, il veleno mortale che essa esala. 
    Anche a Corfù gli abitanti non  trovano di meglio che affidarsi al protettore celeste della città: San  Spiridion. “Nella tradizione locale ci  sono quattro processioni annuali in onore del santo: due di queste sono  direttamente connesse proprio alla liberazione dell’isola dal flagello di peste”. 
    Processioni, più o meno solenni,  vengono organizzate (e pericolosamente gestite in quanto ideale focolaio di  ulteriore contagio), scrive  Restifo: 
    “Il corteo religioso, in  particolare, percorre l’itinerario delle vecchie mura della città, per  sottolineare come il santo quasi le avesse usate per respingere il morbo nemico  (mentre a nulla erano servite le fortezze veneziane di fronte agli attacchi dei  microbi)”. 
    Superstizione e razionalità,  contrabbando e  illegalità sembrano  camminare di pari passo e talora confondersi. 
    A proposito di superstizione:  Malta non ne è esente. 
    O meglio, il pregiudizio inglese  nei confronti della cattolicissima isola ne provoca l’ultimo episodio di peste. 
    Malta, in ambito mediterraneo,  appare infatti essere un interessante campo d’osservazione a riguardo delle  politiche sanitarie. 
    L’arcipelago maltese si ritrova al centro del contesto della  cosiddetta “unificazione microbica  del  Mediterraneo”. 
    “Si la mer était source de richesse,  qu’elle liait  Malte au continent,  porteuse de lettres et de nouvelles, Malte étant le rendez-vous général de tous  les vaisseaux du Ponant et du Levant » selon un voyageur anonyme du XVIIe  siècle, elle était aussi porteuse de contagion, au moins pouvait-elle  l’être. Malte servait, au XVIIIe siècle,  «de  dépôt de marchandises entre l’Orient  et l’Occident» pour toute la Méditerranée, et ce, sans compter ses propres  importations qui étaient  nombreuses et  ses quelques exportations” (C. De Pasquale, 2009).
    La storia politica dell'isola la  definisce, al termine della transizione dai Cavalieri agli Inglesi, come una  “colonia” britannica, soggetta quindi agli esperimenti che la ‘potenza  d’Albione’ conduce nel Mediterraneo, non solo sotto il profilo istituzionale. 
    C'è infatti una prova di doppia  colonizzazione: quella del corpo collettivo maltese, ma anche  quella dei corpi individuali. 
    Il tentativo inglese  in ogni caso deve fare i conti con la  resistenza maltese all’afflato colonizzatore: anche in questo caso vanno  intrecciati i due piani - politico e   sanitario - per avere una sufficiente ricognizione  dello sviluppo delle cose. 
    Certo è che dopo secoli di una  rigida politica sanitaria gerosolimitana, nel 1813 Malta si trova a dover  nuovamente fronteggiare l’incubo peste a   causa della dissennata politica britannica. 
    L'indirizzo è chiaro: smontare  tutto ciò che ha parvenza d'autonomia locale, istituzioni sanitarie comprese.
    Anche a Malta, un considerevole  numero di ex-voto era stato dettato dall’incubo dalla peste del 1813-14. 
    Essi descrivevano vari aspetti  medico-sociali  della malattia. 
    Oltre a riflettere le allora  correnti credenze religiose della comunità,costituiscono una testimonianza  pittorica, e quindi visiva, delle misure adottate per salvaguardarsi dal  contagio e sono di conseguenza documenti storici di grande significato. 
    Uno di questi ex-voto è un  dipinto votivo su legno, attualmente collocato nella sacrestia della Chiesa di  S. Barbara di Valletta. 
    Questa chiesa era la sede della  Corporazione dei Bombardieri al tempo dell’Ordine. 
    Durante l’epidemia le chiese e i  negozi di Valletta erano chiusi per ordine delle autorità sanitarie.
    Le strade erano deserte e gli abitanti erano  confinati nelle loro case. 
    Un diarista del  tempo scrisse che “un cordoglio ed una  malinconia generali avvolgevano l’intera città” di Valletta. 
    Il pittore dell’ex-voto riuscì a  rappresentare questo senso di malinconia e di oppressione attraverso il marcato  contrasto tra le vivaci attività mostrate in primo piano e la rappresentazione  della desolazione dell’ospedale degli appestati vigilato dalle sentinelle, i  carretti della morte che avanzano a mezza distanza e i bastioni deserti della  città fortificata e le sue case con le porte e le finestre chiuse sullo  sfondo.
    Di certo le politiche sanitarie dei paesi euromediterranei  vengono ostacolate da retaggi culturali che incentivano comportamenti e  attitudini ‘discutibili’. 
    Come ricorda Paolo Preto la sensibilità etica e sanitaria  degli uffici di sanità stranieri che dovrebbero collaborare nella reciproca  informazione, trova un limite invalicabile nella  cosiddetta “ragion di stato” che consiglia di  minimizzare o addirittura di negare sospetti o   realtà di epidemia, forieri di bandi, blocchi commerciali e quindi di  rilevanti danni economici e politici; la stessa Venezia, quando si profila nel  suo territorio un’epidemia, nicchia o procrastina sino all’ultimo la notizia  ufficiale agli altri governi perché teme i blocchi commerciali o le aggressioni  turche (P. Preto, 2010). 
    Per tali ragioni i provveditori alla sanità decidono in  alcune occasioni l’invio di “esploratori  di peste” incaricati di raccogliere notizie sicure in loco. 
    Per quanto terribile fosse il terrore della peste non va  sminuito il terrore delle misure da   prendere o a cui essere sottoposti. 
    Malgrado i  controlli  più o meno leciti, o più o meno ‘ufficiali’, come viene evidenziato da Restifo,  “tuttavia egualmente da Split e dagli  altri porti, ma anche dagli approdi minori, può venire un pericolo per l’intero  Adriatico [e non solo]: il contagio da contrabbando”. 
    La vendita fatta di sotterfugio di merci che avrebbero  dovuto essere esposte a quarantena provoca notevoli rischi. 
    Nel lazzaretto spalatino, ad esempio, giungono merci con  carovane provenienti dal territorio turco, dove non viene effettuato alcun  controllo sanitario. 
    Nel 1820,   a causa di uno sbarco di contrabbando alla baia di Artà  si introdusse un’epidemia di peste bubbonica. 
    A Mallorca in generale, e nella  Comarca de Llevant in particolare, si erano attraversati due anni di crisi ed  il contrabbando fu una delle attività economiche alternative che aveva  consentito alle classi povere di sopravvivere.
    L’attenta analisi dei casi di  peste scoppiati tra Sette e Ottocento nel Mediterraneo centrale fa rilevare come  “due movimenti contrastanti si pongono al termine del periodo preso in  considerazione: unificazione microbica del Mediterraneo e opposizione politica  tra le sue  rive settentrionali e quelle  meridionali. 
    La vecchia frontiera della peste  viene sostituita dalla nuova frontiera di quel confronto fra Nord e Sud del  mondo che costituisce una delle nostre contraddizioni epocali”.
    Le conclusioni sono state ad  opera dell'autore del volume che prendendo spunto  da un noto motto di qualche anno fa e, nel  contempo, dal titolo di uno dei capitoli della sua pubblicazione in argomento,  ha trattato il tema "Reggio e  Messina unite nella lotta".
    Un motivo per quel titolo c’è -  afferma il docente universitario Giuseppe Restifo - e non è solo il riecheggiare  uno dei tanti slogan da corteo. 
    Le due città dello Stretto nel  1743 si trovarono ad affrontare la stessa sfida ambientale, lo stesso nemico:  la peste.
    Si era alla fine della seconda  grande pandemia, quella cominciata proprio dallo Stretto nel 1347, destinata a  diventare l’anno successivo la “Peste   nera” con la sua scia di milioni di morti in Europa. 
    Nel 1743 si era alla fine del  ciclo epidemico, ma la gente di Calabria e di Sicilia non lo sapeva; lo  sappiamo noi oggi, perché ce lo dicono gli storici. 
    E poi solo ventitre anni prima  del ‘43, nel 1720, c’era stata la grande epidemia di Marsiglia, con i suoi  cinquantamila trapassi. 
    Come si faceva a stare  tranquilli? Purtroppo però le due città di mare dello Stretto dovevano  affrontare la “solita” contraddizione: aprirsi ai traffici marittimi per  vivere, chiudersi ad essi per non morire. 
    Mano aperta e tesa per accogliere  di tutto, in primo luogo il grano, quello che il loro hinterland non poteva  fornire a sufficienza; mano chiusa a pugno per guardarsi dagli attacchi esterni,  quelli militari, ma, ancora più subdoli e pericolosi, quelli epidemici. 
    Per guardarsi da questi,  occorreva impiantare uffici di sanità, con i relativi “magistrati”,leggi  sanitarie e regole, e poi il lazzaretto e i casini di sanità, con le navi alla  fonda per quaranta giorni, in quarantena appunto.
    Tutto questo armamentario  rallentava il commercio, impantanava gli scambi, frenava l’economia. 
    D’altro canto quel sistema dava  qualche speranza di sfuggire alla morsa del costante rischio del contagio,  soprattutto in questo canale di passaggio fra l’Ovest e l’Est, in questo punto  strategico per il transito verso l’Oriente. 
    L’Oriente nel ‘700 è ricco di merci, di mercanti, ma anche  lussureggiante di rischi, dai corsari al   bacillo della peste.
    Lo Stretto non è barriera fra Est e Ovest, ma neanche fra  Sicilia e Calabria. 
    E allora – anche se nel 1743 le due regioni appartengono a  due regni diversi, seppure sotto lo stesso re – occorre lavorare «per la comune salvezza dal morbo contagioso»,  come recita un bel libro di Giovanni Assereto.
    In effetti le due città furono percosse violentemente  dall’ondata epidemica: a Messina morì il 70% della popolazione, a Reggio il 50. 
    Tutt’e due i centri furono contornati da cordoni sanitari,  che non lasciavano passare le persone e neanche le merci: molti furono vittime  della fame. 
    In ambedue le città si fece sentire la mano militare; per la  verità più a Reggio che non a Messina, forse per la maggiore resistenza calabrese  all’ordine costituito. 
    In entrambe si passò per lo “spurgo” per poter  riprendere i contatti con il mondo esterno,  che le aveva isolate e “sdegnate”.
    La prospettiva di ricerca su quel  doloroso momento vissuto dagli abitanti dello Stretto adesso è quella di  superare il descrittivismo e la drammatica narrazione, che si sono snodati  dalla fase successiva alla peste fino ai nostri giorni. 
    Le domande non mancano, a partire  da quelle riguardanti la “vita” dei microparassiti nell’area e le condizioni  climatiche e ambientali entro cui essa si svolgeva. 
    Degli uomini e di come tentarono  di difendersi sappiamo già non tutto, ma abbastanza. 
    Forse è giunto il momento di  porsi nuovi quesiti sul rapporto fra quegli uomini e gli ecosistemi 
  dentro cui vivevano, per  chiedersi anche quali percezioni ne avessero e quale capacità previsionale  riuscissero a mettere in campo.





(1) Giusi Currò, Giuseppe Restifo, Reggio Calabria, Laterza,  1991;
    (2) ASRC, Notai del distretto di Reggio Calabria, notar  francesco rijtano,   protocollo anno  1656, inventario 81, busta 428, volume 2296.