
Le note di «Love of my life» degli albionici Queen,  ironia della sorte, la fioca luce emessa   dalle candele, la lettura della lettera scritta  da Gioacchino Murat alla moglie Carolina,  poco  prima della sua fucilazione  avvenuta a Pizzo,  dopo un processo sommario, sono stati  alcuni  degli elementi che hanno  caratterizzato   l’incontro organizzato  dal giovane sodalizio  reggino che a 180  anni dalla morte del Re di Napoli  ha  inteso organizzare una prima giornata di studi per ricordarne la figura, le  gesta di  colui che seppure non italiano,  non calabrese,  ebbe a cuore le  problematiche del Mezzogiorno e, nella fattispecie della Calabria e della   provincia reggina. 
    Testimonianza di quanto sopra indicato è la vasta  letteratura legislativa, le riforme, i lavori pubblici, le bonifiche del territorio,  gli aspetti sociali, amministrativi, aspetti   questi che hanno interessato l’intero territorio   facente parte del Regno di Napoli, quindi  esteso   anche e soprattutto alle  periferie, poco  considerate, sia  dall’amministrazione borbonica, ad eccezione del periodo di Carlo III, che  da  quella piemontese in seguito ai fatti  del 1860.
    Quindi tale riformismo venne effettuato durante  il periodo del “decennio francese”, così  definito dallo storico Umberto Caldora e che,  naturalmente, oltre all’azione di Gioacchino   Murat, c’è da rilevarne quella effettuata da Giuseppe Bonaparte,  fratello maggiore  dell’Imperatore  Napoleone, che dopo il suo “passaggio” al trono di Madrid, gli successe  Gioacchino Murat, apparentato con i Bonaparte  per averne sposato la sorella Carolina.
    Gianni Aiello, presidente del Circolo Culturale  L’Agorà, coordinando i lavori della giornata  di studio, ha tracciato un profilo storico sia del  periodo che del Re di Napoli, dal quale si  sono  potuti evincere interessanti cifre  che saranno   oggetto di studio e di  approfondimento da parte   del sodalizio  reggino che si prefigge di  favorire  successivi incontri di studio, coinvolgendo in futuro  studiosi, ricercatori e chiunque darà un  valido  supporto scientifico a tale  manifestazione. 
    Il decennio francese pur nella sua “brevità  esistenziale” (1806-1815) nelle regioni  meridionali ha rappresentato un momento  storico  di notevole rilievo dovuto ai  mutamenti  profondi, verificati nelle  varie e vetuste   strutture  amministrative del periodo, non solo  nel  Mezzogiorno, causati dall’onda lunga della   rivoluzione francese, se vogliamo da quella napoletana del 1799 e,  naturalmente dalla macchina napoleonica: realtà storiche che hanno  contribuito allo svecchiamento plurisecolare  che  attanaglia vaste aree, non solo  della parte  meridionale del  Mediterraneo, assoggettate alla  politica  degli antichi regimi e che quindi hanno   rappresentato un momento di frantumazione dovuta  all’onda d’urto che proveniva dalle zone  transalpine.
     La presenza  dei francesi – prosegue Gianni Aiello, nel corso della sua relazione -  è da   ricercarsi ad un periodo precedente a quello del 14 febbraio del 1806,  relativo all’entrata dell’esercito napoleonico guidato dal maresciallo Massena  in Napoli, e nello specifico  si risale  alla data del 23 gennaio del 1799  quando  Jean Étienne Vachier, detto Championnet, con la sua presenza nella Capitale del  Regno,   diede così inizio alla nascita  delle Repubblica Partenopea.
    Il relatore ha posto la sua attenzione sulla  politica attuata durante il decennio francese   nel Mezzogiorno dove la piattaforma su cui basava il volume delle  riforme poggiava le  fondamenta sul  modello francese e nella fattispecie trovava applicazione, pur se tra tante  difficoltà logistiche.
    La politica riformistica inerente l’eversione della  feudalità ebbe il merito di svecchiare un sistema arretrato, quello del  Mezzogiorno, e con tale  strumento  legislativo, emesso il 2 agosto del 1806 da Giuseppe Bonaparte, si attuò una  serie di indirizzi come il ripristino statale  delle varie giurisdizioni feudali, la demanialità dei corsi fluviali e delle  acque correnti, la soppressione dei diritti 
    proibitivi.
    Nel contempo vennero istituiti alcuni importanti  istituti come la Commissione feudale   decretata in data 11 novembre 1807 ed altre come quella inerente alla  quota fondiaria unica datata 8 novembre 1806 dispositivo legislativo  che soppresse un centinaio di aggravi  fiscali  ruotanti nella sfera di diverse  amministrazioni, essa era la carta d’identità   del riformismo napoleonico: l’abbattimento del  regime feudale, come anche il dettato  legislativo del 25 giugno del 1806, valido  strumento atto ad indirizzare al governo centrale la totalità degli  arredamenti, nello  specifico i cespiti  della finanza pubblica trasferiti,  ne  risarcivano i possessori attraverso lo strumento del debito pubblico.
    Tutte queste operazioni di rinnovamento, attuate  prima da Giuseppe Bonaparte  e  successivamente con Gioacchino Murat, che si sono abbattute sul  vecchio regime, hanno rappresentato il giusto  passaggio di consegne tra il “vecchio” e ciò che andrà a costituire, attraverso  l’operato dell’amministrazione napoleonica, il crocevia atto alla metamorfosi  in senso moderno degli organismi politici, economici, sociali ed  amministrativi che, prima di tale  avvento,  ricalcavano schemi non adeguati  ai tempi, tanto  che la  propulsione progressista del decennio  francese  venne rilanciata dal rientrato  Ferdinando IV.
    Dopo l'intervento di Gianni Aiello, presidente del  sodalizio organizzatore, è seguita la    relazione di Orlando Sorgonà che ha tratteggiato in modo semplice ed  efficace gli ultimi  giorni  di vita dello sfortunato Re di Napoli,  dal  giorno dello sbarco  al   giorno della fucilazione.   
    Gioacchino Murat, giunse dinanzi alla spiaggia di  Pizzo Calabro con tre navi e sbarcò con una trentina di  uomini: egli proveniva dalla Corsica, da dove  era partito con l’intento di sbarcare nella capitale ed in modo eroico,  riflettendo quindi anche il suo lato romantico, di riconquistarne il Regno con  il supporto della popolazione.
    Ma tale operazione fallì a causa delle condizioni  metereologiche, così come quella che doveva essere attuata nell’alto jonio  casentino e l’unica alternativa, era quella della cittadina napitina di Pizzo  Calabro, dove, dopo lo sbarco si diresse verso la piazza principale, contava di  radunare nuovi proseliti con le cui forze destituire i rientrati Borboni .           
    L’idea romantica del Re di Napoli di trovare  quell’entusiasmo scaturito dall’amore e dalla   devozione della maggior parte della popolazione che lo aveva amato,  crolla con l’impatto che ha con le ostilità ben percepibili della cittadinanza  nei suoi confronti: egli era convinto di essere ben voluto e, quindi, di  poter usufruire dell’appoggio di quella gente  e di quel territorio che aveva tanto voluto bene, ma la realtà è ben diversa.
    Sulla battigia di Pizzo Calabro, avvenne, in data 8  ottobre del 1815, l’approdo di alcune lance, facente parte di una piccola  flottiglia composta da tre navigli posizionati al largo della costa,  dalle quali sbarcarono trentuno  persone, tra le quali Gioacchino Murat, il  generale Franceschetti, diversi militari ed alcuni domestici, mentre del  comando delle imbarcazioni era stato incaricato il Barbara di origini maltesi.
    Tale azione scosse la tranquilla cittadina che  insorse anche quando Gioacchino Murat riconobbe   tra la popolazione alcuni individui che durante la sua amministrazione  svolgevano servizio in diversi ambiti amministrativi, tra cui un certo Tavella,  un sergente facente parte della Guardia Nazionale durante il periodo  murattiano. 
    L’ostilità della popolazione indussero il piccolo  drappello di uomini a dirigersi verso   Monteleone nella speranza di trovare gli aiuti necessari per portare a  buon fini gli scopi che Gioaccchino Murat aveva intenzione di attuare, ma ciò  non fu possibile, in quanto la strada era difesa dal Capitano della  Gendarmeria  Trentacapilli che con il suo  intervento non permise l’attuazione del piano.
    Fallito tale tentativo, Gioacchino Murat ed i suoi  uomini, alcuni dei quali erano caduti sotto il fuoco nemico si diressero nel  luogo dello sbarco percorrendo l’impervio tracciato del torrente Parrei dove  avevano lasciato le barche, ma li ebbe l’amara sorpresa di vedere che le sue  navi erano già al largo: non avendo altre vie di fuga furono catturati e  condotti nelle prigioni del castello, dove venne condannato da una Commissione  Militare che ne sentenziò la fine  che  gli venne notificata nella giornata del 13 ottobre, quindi alcune ore prima  della sua 
    fucilazione.
    Gioacchino Murat dopo aver letto il documento della  sua condanna espresse la sua volontà a non volersi sottoporre al giudizio di  tale tribunale in quanto non lo riconosceva come tale, essendo lo stesso  composto da meri graduati ed a nulla valsero le sollecitazioni espresse sia dal  facente funzioni Francesco Froyo che dal generale Vito Nunziante.
    Dopo alcune ore gli venne notificata la sentenza da  parte del procuratore reale Giovanni La Camera, il quale entrando nella cella  di Gioacchino Murat la consegnò insieme al dettato legislativo che era stato  promulgato dallo stesso Murat contro i briganti e con lo stesso strumento di  valutazione ne veniva effettuata la sentenza.      
    La convocazione dell'istituto lo giudicò con lo  stesso rigore della legge che egli stesso aveva promulgato nel 1810 contro i  briganti catturati nel territorio del Regno: tale avvenimento ha dato origine  ad alcuni detti popolari come     “Gioacchino a fa, Gioacchino a  pata”  (Gioacchino la fa, Gioacchino la subisce)     oppure “Giuacchino facette ‘a legge e Giuacchino fuie ‘mpiso”  (Gioacchino ha fatto legge e Gioacchino venne impiccato) ma non finì così,  infatti venne fucilato, ponendosi il veto alla benda e comandando il plotone  d’esecuzione, dopo che il fallimento del primo tentativo della sua esecuzione,  e sembra che le sue ultime parole furono «Sauvez ma face -  visez à mon cœur -  feu!» (Salvate la faccia, mirate al cuore,  fuoco!).
    Dopo l’esecuzione avvenuta intorno alle quattro  pomeridiane la salma venne trasportata nella   notte da quattro becchini nella Chiesa di S.Giorgio e calata nella terza  fossa comune della navata centrale, dopodiché si provvide a sprangare il marmo. 
    Diversi risultano gli interrogativi  legati alle ultime ore del Re che riguardano  soprattutto la sorte delle sue spoglie che non furono mai rinvenute nonostante  alcuni tentativi attuati per il loro ritrovamento come quelli fatti da una sua  nipote nel 1899 e successivamente nel 1976 da parte di un comitato locale: in  entrambi i casi le ricerche risultarono vane, in quanto nella fosse comune vi  erano i resti delle centinaia di vittime colpite dal colera nel 1837.
  Nonostante i buoni risultati scaturiti da questa  giornata di studi, certamente non di esaurisce l’interesse del Circolo  Culturale L’Agorà nei confronti dello sfortunato Re di Napoli, Gioacchino  Murat, che, anzi, intende favorire dei veri e proprio incontri di studi a  cadenza  annuale proprio nella città di  Reggio Calabria.

 
 

