
A  Gioacchino Murat, che sotto la sua amministrazione portò una  ventata di modernità nel Meridione, con le numerose riforme che vennero attuate  in appena un decennio, e al periodo storico che vide in Italia le  esperienze e le conseguenze della Rivoluzione francese, il Circolo Culturale  “L’Agorà” e il Centro studi “Gioacchino e Napoleone” dedicano ogni anno, a  partire dal 1995, convegni e seminari di studio. 
    Anche  quest’anno “Gioacchino Murat: un Re tra storia e leggenda”, è stato il filo  conduttore di una serie di proposte predisposte dalle due associazioni come la  mostra documentale (13 ottobre – 7 novembre), lo speciale annullo filatelico,  una cartolina celebrativa da collezione, realizzata in tiratura limita sulla  quale è stato apposto il francobollo riproducente un dipinto di Gennaro Picinni  intitolato "Joachim Murat a S. Nicola", raffigurante lo stesso  sovrano, ed  un catalogo della mostra  stampato  in tiratura limitata e numerato  e l'apposita conversazione culturale, giunta alla sua ventunesima edizione. 
    A  riguardo l'esposizione documentale, allestita nella prestigiosa cornice del  Palazzo delle Poste di via Miraglia, ha registrato la presenza di oltre 1.000  visitatori che hanno avuto la possibilità di ripercorrere le fasi salienti del  periodo napoleonico e la storia del Regno di Napoli durante l'amministrazione  del “decennio francese”.
    Tale  percorso illustrativo, strutturato su venti pannelli, ha permesso per la facile  lettura dei contenuti didattici e divulgativi anche ad un pubblico giovane di  conoscere e di approfondire le più importanti vicende storiche del Re di  Napoli, come la ventata di modernità nel Meridione attraverso lo strumento  delle numerose riforme che vennero attuate in appena un decennio, e quindi  della sua collocazione nel contesto europeo. 
    Ritornando  alla mostra documentale, apprezzata anche dalle giovani scolaresche reggine, la  stessa è stata arricchita da un'apposita teca dove, insieme a diversi oggetti  del periodo storico in argomento, hanno fatto bella mostra di se diversi  soldatini di piombo a cavallo del periodo napoleonico.
    Per  il significato ed il valore di tali contenuti, la manifestazione ha ricevuto  l’Alto Patrocinio dell’Institut Français Italia ed a tal proposito è stata  letta, da parte di Antonio Megali la lettera inviata dal Presidente del  prestigioso Istituto culturale Eric Tallon, nella quale si è congratulato per  tale progetto culturale .
    Il  coordinatore della conversazione culturale Antonino Megali ha evidenziato la  figura alquanto variegata di Gioacchino Murat: condottiero dalle ottime  capacità e dotato di grande coraggio, figlio della rivoluzione francese,  espressione dei principi della mobilità sociale e dei punti cardini quali  uguaglianza e libertà, e, non per ordine d'importanza di quanto ebbe ad  affermare Napoleone Bonaparte che “nello zaino di ogni soldato dell’esercito  francese rivoluzionario era custodito il bastone di maresciallo”. 
    La parola è passata a Gianni Aiello  che ha trattato il tema "Tra il teschio della discordia ed il silenzio  degli innocenti" ed il titolo del suo intervento – come lo stesso  intervenuto ha precisato – prende spunto dall'interesse che si è sviluppato a  seguito di una proposta di deliberazione da parte del Comune di Motta Santa  Lucia (Catanzaro), cui ha fatto seguito una recente mozione da parte dei  capigruppo di maggioranza ed opposizione del Consiglio regionale calabrese a  riguardo la restituzione del cranio del brigante Giuseppe Villella da parte del  Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino. 
    A tal proposito si registra una  sentenza da parte del Tribunale di Lamezia Terme del 5 ottobre 2012 che intimò  al Museo del Lombroso di Torino di restituire al Comune di Motta Santa Lucia il  cranio di Giuseppe Villella, che secondo  alcuni “... per diversi anni si è battuto in favore  delle popolazioni meridionali e partecipò alla resistenza contro i Savoia...”.  
    Nulla togliendo a quanto  sopra evidenziato, Gianni Aiello ha ricordato ai presenti  che nel carteggio dell'Archivio di Stato di  Catanzaro risulta che il Vilella “fu Pietro, di anni 35 venne condannato il  19 giugno del 1844 dalla Gran Corte Criminale a sei anni di reclusione per  complicità in furto” per aver sottratto ad un possidente del luogo alcuni  pezzi di formaggio, del pane e due capretti nella notte del 29 luglio del 1843.
    Secondo il relatore il  Giuseppe Vilella, non può essere considerato un brigante, ma l'autore di un  furto per “la sopravvivenza” e per sua sfortuna venne avvolto dalle maglie  dei tribunali militari piemontesi e della  legge “Pica”. 
    Anche se Gianni Aiello ha  avanzato un'ipotesi, anche se priva di fondamento, e cioè che l'amministrazione  della seconda restaurazione borbonica, come nel 1799, svuotò le carceri al fine  di “arruolare” i detenuti, ma questa naturalmente rimane al momento solo una  supposizione.
    Dati certi che Giuseppe  Vilella era un pastore (atto di matrimonio 23 aprile 1830), come il padre  Pietro (atto di morte del 1801) e che, sotto l'amministrazione borbonica, venne  condannato per furto da parte della Gran Corte Criminale nel 1844, mentre non risulta  chiaro il luogo natio di Giuseppe Vilella dovuto anche ad un vuoto documentale  sia nell'archivio parrocchiale  di Monte Santa Lucia  (1802-1821) che nei registri dello stato civili che partono solo dal 1809.
    Inoltre, a riguardo tale  aspetto, in alcune pubblicazioni vengono indicati i natali in quel di Monte  Santa Lucia, in altre si alternano con quelli di Simeri Crichi, mentre ne “L’atlante criminale. Vita scriteriata  di Cesare Lombroso” di Luigi Guarnieri, Ed. Mondadori, 2000,  Giuseppe Villella è espressamente detto “contadino  di Simeri Crichi”. 
    La seconda parte della  relazione di Gianni Aiello, relativa “al silenzio degli innocenti”, ha il suo  quartier generale nell'area di Simeri Crichi ed assume tonalità meno enfatiche  rispetto alla prima parte della relazione, come evidenziato dallo stesso  ricercatore, e nel contempo è caratterizzata da dati certi.
    Le crudeltà che si  perpetrarono nell'estate del 1809 nel comune del catanzarese riportano alla  mente il massacro di 27 persone, tra cui 20 bambini, avvenuto in una scuola  elementare di Sandy Hook, borgo della città di Newtown in Connecticut, avvenuto  il 14 dicembre 2012. 
    L'autore di tale efferato  episodio era affetto dalla sindrome di Asperger, mentre gli artefici dell'altra  atrocità non presentano nessun disturbo patogeno – come evidenzia Gianni  Aiello  – ma solo affetti dalla cieca  vendetta, come riportato in una missiva del Commissario straordinario del Re in  Basilicata e in Calabria Giuseppe Poerio indirizzata al Ministro dell’Interno  Giuseppe Zurlo.
    Si trattava della banda di Bartolo Scozzafava, alias “il macellajo” di  Tiriolo che con il suo seguito  operava  nella fascia presilana del catanzarese.
  Sul numero 352 del “Monitore Napoletano” del  12 luglio 1809, veniva pubblicato che “...  dopo aver portato dappertutto il sacco, il ferro e il fuoco, questi mostri  della specie umana si abbeverarono in CRICHI, casale distante 6 miglia da  Catanzaro, del sangue di 30 infelici fanciulli, che scannarono e gettarono  nelle fiamme nel dare l’ultimo addio a una terra che li aveva in gran parte  visti nascere [...] I fatti avvenuti in queste occasioni sono sì  atroci, che il generale Stuart ha sentito la necessità di scusarsene in faccia  all’Europa, proclamando che esso non ha mai autorizzato un piano di guerra sì  orribile...” (1) 
    In “Gioacchino Murat e  l’Italia meridionale”, a tal proposito ha commentato Angela Valente: “...Belve  umane, i briganti giunsero al sacrificio di 25 bambini figli dei bravi  legionari di Crichi, vera nuova strage degli innocenti, che ancora oggi fa  salire dai nostri cuori un grido di protesta, che fa eco alla voce commossa ed  eloquente di Giuseppe Poerio, il quale sorse ad accusare e condannare, in nome  dell’umanità offesa...” (2)
    Dalla lettura di altri documenti – prosegue Gianni Aiello – si evince  del decesso di altre persone nei giorni seguenti a quelli del 12 luglio 1809  sia tra i civili che tra i militari che furono sepolti anche nelle zone  limitrofe di Simeri Crichi, ed a seguito di quella strage vennero adottati  dall'amministrazione murattiana   provvedimenti restrittivi per arginare tali fenomeni criminosi, come il  Decreto di Gioacchino Murat (Monteleone, 10 agosto 1809). 
    Il territorio venne interessato da altri sanguinosi episodi  come quelli   avvenuti a Pedace, il 30 ottobre del 1806, a Strongoli, e Sellia, dove  si verificarono due tragiche circostanze.
    La prima riguarda un giovane prelato che dopo lo svolgimento di  una funzione religiosa venne delapidato, dopo numerose sevizie, dalla banda al  seguito del capo-massa Turino di Taverna. Mentre la seconda ricordata  come “strage di Sellia” dove vennero uccisi  diversi componenti della famiglia Perrone. (3)
    La parte conclusiva dell'intervento Gianni Aiello si basa su un  episodio di alto significato, avvenuto nella giornata del 29 dicembre del 2012  proprio a Simeri Crichi, dove si svolse una cerimonia di pacificazione storica  tra la comunità locale e quella di Tiriolo come “purificazione della memoria” dei tragici  eventi dell'estate del 1809 che causarono la morte di tanti innocenti,  “colpevoli”, forse, di essere figli di coloro che sostenevano un'altra causa.
    La parola passa ad Enzo Zolea, studioso e appassionato di teatro,  nonché esperto distoria locale e di tradizioni popolari, che ha  trattato il tema "L'idea di teatro nel decennio francese a Reggio  Calabria". 
    Il  relatore ha parlato sulla costruzione del teatro a Reggio durante  l'amministrazione napoleonica nella città dello Stretto e per meglio  contestualizzare l'evento si è soffermato su un prima e un dopo, partendo dal  terremoto del 1783 e concludendo la sua trattazione intorno al 1848, quando il  teatro venne completato nella sua struttura.   
    Il  “tremuoto” del 5 febbraio 1783 venne definito dagli storici come“il grande flagello”, per la  potenza devastatrice, le vittime ed i danni provocati al patrimonio edilizio,  urbanistico e artistico, soprattutto nella Calabria meridionale e nella  Sicilia. 
    Nella  città di Reggio si registrarono poche vittime (179, secondo Giovanni Vivenzio,  su una popolazione di 10.000 abitanti) di fronte alle oltre 35.000 nella  Calabria. (4) 
    A  seguito di tali fatti tellurici venne istituita la Giunta per la Riedificazione ed attuato un programma di ricostruzione  delle aree devastate dal sisma e la Calabria Ulteriore venne divisa in cinque  Distretti, ad ognuno dei quali venne assegnato un ingegnere sotto il controllo  diretto del Vicario Generale Francesco Pignatelli. 
    Al  Distretto di Reggio venne assegnato Giovan Battista Mori che con il suo  progetto di ricostruzione cancellò completamente l'impianto medioevale della  città, e tale piano  venne presentato al  Consiglio comunale nel marzo del 1784 e definitivamente approvato con Decreto  Reale il 14 maggio dello stesso anno.
    Il  relatore ha evidenziato che tale programma era in contrasto sia con i  “suggerimenti” degli ingegneri Antonio  Winspeare e Francesco La Vega, supervisori dei  progetti di ricostruzione per tutta la Calabria, teorici della difesa della  città storica, che con la Deputazione Municipale reggina.    
    Nella  compilazione del piano progettuale, Giovan Battista Mori ebbe ad indicare una  seriedi costruzioni dislocate lungo l'asse principale, secondo un suo  ordine, utilizzando per distinguerle sulla pianta le lettere dell'alfabeto: la  lettera A indicava il luogo dove doveva sorgere il Palazzo Arcivescovile, la lettera  B il Quartiere per la truppa, la lettera C l'abitazione del Governatore e via  di seguito. 
    Con  la lettera P il Mori aveva indicato “il luogo da potersi formare un teatro” nel  lotto dove sorgono ora il Palazzo Melissari e Musitano, proprio di fronte all'attuale  piazza Italia e tale idea progettuale era legata all'idea della “nuova” città  di chiaro stampo illuministico.
    L'auspicio  di avere in città un teatro era stato formulato anche dal Galanti nella sua  visita a Reggio del 1792, ma una serie di eventi che caratterizzano i nuovi  scenari politici contrassegnati da alterne vicende nel Mezzogiorno crearono dei  ritardi sul progetto di  riedificazione,  tanto che il 1806 può tranquillamente considerarsi  una data epocale nella storia del Regno di Napoli per dovuta alla  trasformazione radicale delle sue strutture politiche, amministrative ed  economico-sociali.   
    Per ciò che riguarda Reggio, Gioacchino Murat, col decreto del  16 luglio 1810, dal Campo di Piale, dove si era stabilito assieme al suo  esercito, ordinò di “illuminare la città nella notte coi lumi a riverbero,  simili a quelli di Napoli, istituire un Reale Liceo, disporre la costruzione di  un teatro nel luogo ov'erasi cominciato l'edificio della Casa Comunale, a spese  del Tesoro regio, da compirsi nel giro di tre anni”.
    Le difficoltà politiche del successivo quinquennio non permisero  che si badasse a quell'opera, della quale si era completato appena il progetto,  in considerazione anche degli eventi internazionali che si ripercuotevano  sull'economia del Regno.
    Ma nonostante tali difficoltà venne tracciata dapprima la lunga  strada principale sulla quale piano piano dovevano sorgere i palazzi,  riedificata la Cattedrale, rifatta la Fontana Nuova. Ma quel che premeva di più  ai maggiorenti della città era l'edificazione delle scuole,convitti per  l'educazione dei ragazzi e dei giovani. 
    Dopo la caduta dei napoleonici, Reggio venne scelta come  capoluogo della terza provincia costituita in Calabria che prese il nome di  Calabria Ultra Prima comprendente i Distretti, oltre che di Reggio, anche di  Palmi e Gerace.  
    In qualità di Intendente (l'attuale Prefetto) fu nominato Nicola  Santangelo, il quale  accelerò i tempi di  ricostruzione, così come per il teatro progettato al tempo di Murat.
    A tal proposito venne eletta una Commissione composta dai  cavalieri D. Carlo Plutino, D. Vincenzo Ramirez, D. Giuseppe Piconieri, D.  Giuseppe Musitano e l'ingegnere comunale, Stefano Calabrò Anzalone. 
    Il progetto murattiano venne in parte modificato e l'ing Stefano  Calabrò Anzalone diede un ultimo tocco   al progetto, “il quale imitando il disegno del teatro dei Fiorentini  in Napoli – in seguito vedremo che l'Intendente la penserà diversamente – seppe  sviluppare abilmente la curva per migliorare la visuale del palcoscenico”. 
    I lavori procedettero spediti grazie alle anticipazioni in  denaro fornite da alcuni proprietariterrieri, tanto che in data 4  aprile 1818 l'Intendente Santangelo informava il Ministero degli Affari Interni  di S.M. Il Re: “Eccellenza, il Teatro di questa Città, di cui esisteano  appena i fondamenti, trovasi di già ridotto al suo termine. ...È sul gusto del  Teatro Nuovo di Napoli. Se cede a questo per poco in grandezza, lo vince  sicuramente nella eleganza e nella precisione... Desiderosa questa popolazione  di dimostrare la gratitudine  verso  l'ottimo nostro Monarca, dalla munificenza riconosce i vantaggi, che le  assicura l'elevazione a Capitale della Provincia... ha chiesto di onorare il  Teatro colla denominazione della Augusta Sua Reale Dinastia... Prego l'Ecc.  Vostra di sottometterla ai piedi del Real Trono e d'impetrare la Sua M. che il  novello Teatro abbia la denominazione di Borbonio...”.
    L'ubicazione del teatro prevista dal Mori prevedeva una  posizione centrale, ma le difficoltà burocratiche prima e più ancora le vicende  storiche ne ritardarono la costruzione e l'area che era stata prescelta veniva  occupata da altri edifici (Palazzo Melissari e Musitano), sicché il teatro  trovò nuova sistemazione nel tratto compreso tra la via dei Bianchi e la via  Terme, nel lotto ove sorge oggi – continua il relatore Zolea – l'attuale  Palazzo delle Poste. 
    Si passa poi alla descrizione della struttura teatrale basandosi  sulle relazioni dell'ing. Calabrò che di volta in volta sottoponeva al Sindaco  per le delibere sulle spese sostenute. La sala presentava la caratteristica  forma ottocentesca a ferro di cavallo, lunga palmi 42 (m 10,5) e larga 37 (m  9,25), ed era sovrastata da un cielo a forma ellittica il cui asse maggiore era  di palmi 41 (m 10,25) e l'asse minore di palmi 36 (m 9). La zoccolatura della  platea misurava palmi 118 (m 29,5).
    In buona sostanza – prosegue il relatore –  tali misurazioni ci fanno pensare ad un  salone di una casa grande, ma bisogna tenere presente che Reggio contava allora  appena 8.000 abitanti ed il teatro era riservato all'élite della città. 
    Alla platea si accordavano il posto per l'orchestra ed il  palcoscenico, costruito con tavole di castagno e sormontato da un grande arco  di legno avente al centro un orologio. In altezza il teatro si sviluppava in  due ordini di palchi, i cui parapetti erano dipinti con ornati a bassorilievo;  era dotato inoltre di illuminazione con lumi a riverbero, di una vasca per la  conservazione delle acque necessarie al fabbisogno del teatro (soprattutto in  casi di incendio), di un grande lampadario e di sei camerini. 
    Ancora incompleto il Real Teatro Borbonio, per volere  dell'Intendente Santangelo, fu inaugurato il 30 maggio 1818 in occasione  dell'onomastico del Re Ferdinando I, anche se   il teatro necessitava di ulteriori lavori di rifacimento. 
    Nel settembre del 1820 il sindaco di allora Melissari scriveva  all'Intendente per chiedere l'autorizzazione di spesa“...per la  costruzione della soffitta del palcoscenico con incannizzate e tegole sulle  medesime per togliere l'inconveniente della pioggia, del vento e della  grandine, giacché pregiudica la salute, non solo degli attori, m'ancora del  pubblico...”, ed una serie di lavori e per la sua manutenzione vennero  impiegate forze locali: le carte di archivio ci rivelano i nomi dei falegnami  Giuseppe Corsaro e Carlo Nunnari, del “murario” Bruno Piccolo, dei pittori  Vincenzo e Giuseppe Laganà, del fabbro Fortunato Romeo, dell'orafo Luigi  Auteri. 
    L'Amministrazione comunale forniva alle compagnie tutto il  materiale necessario per l'allestimento delle opere e nel dicembre del 1820 si  ebbe la prima stagione lirica in città che si protrasse fino al febbraio  successivo.
    Nel 1823, su richiesta dell'impresario Catani, venne esteso il  proscenio con l'aggiunta di quattro palchetti laterali, proprio sotto il grande  arco, erette dieci quinte e due teloni per il fondale.
    Nel 1846 si ha notizia di un completo ripristino del teatro che  portò alla sopraelevazione della parte anteriore, aggiungendo sopra il  porticato tre eleganti saloni di rappresentanza che ospitavano il Circolo di  Società. 
    Il terzo intervento è stato quello di Orlando Sorgonà che ha relazionato  sul tema delle “Tradizioni popolari ed il folklore nel Mezzogiorno durante il  decennio francese”, periodo in cui soldati e ufficiali rimangono particolarmente colpiti dal modo di  vivere dei contadini meridionali. 
    Per loro che avevano conosciuto l’illuminismo alcune tradizioni che si  erano stratificate nei secoli apparivano inconcepibili e retaggio di fanatismo  e superstizione. Lo apprendiamo dai resoconti, dai diari, dalle lettere che i  soldati inviavano alle famiglie, dalle statistiche murattiane. 
    Fonti importantissime per conoscere quello che Ernesto De Martino definì  il mondo magico. Soprattutto la nutrita diaristica degli ufficiali partecipanti  ai primi dell'800 alle campagne militari francesi nel Sud osserverà infatti la  Calabria con l’ottica particolare dell’invasore armato e la presenterà «come  una piccola Spagna leggittimista e ferocemente ostile allo straniero, un paese  fanatico e triste dai costumi primitivamente strani e pittorescamente  selvatici. Calabria: paese di briganti» .
    Lo spirito avventuroso dei militari, lo stile epistolare e non di rado  romanzesco, il loro prevalente atteggiamento di animosità verso quella  popolazione chiusa ed ostile finiranno per completare la diffusa convinzione di  una Calabria terra impraticabile ed insieme pittoresca dando luogo alle  suggestive interpretazioni prima romantiche e poi decadenti dei viaggiatori in  Calabria lungo l’arco del sec. XIX. 
    Emergono dai racconti di questi viaggiatori che producevano della  Calabria la cattiva nomea e al tempo stesso un fascino irresistibile:  l’isolamento geografico, la mancanza di un capoluogo e la concentrazione della  ricchezza in poche famiglie. 
    In una lettera del 12 giugno 1808 l’ufficiale francese Duret De Tavel  affermava che “questo popolo non ha alcun vero principio morale e religioso.  Come tutti gli uomini ignoranti sono superstiziosi fino al fanatismo. La  maggior parte di essi trascorre la propria vita nell’ozio più totale. Si dice,  giustamente, che in Calabria ci sono di troppo solo gli abitanti”. la Calabria  viene definita dal De Tavel “... la più remota parte del Regno…” viene vista da  quest’ultimo con diffidenza e pregiudizio. 
    Nel 1812 un viaggiatore francese in Calabria, il marchese Astolphe de  Constine, spiegò che bisognava cambiare guida da paese a paese perché «gli  abitanti delle campagne non escono mai dai confini dei loro paesi e non sanno  se il mondo si estende al di là del territorio da loro conosciuto».
    Napoleone nell’esilio di Sant’Elena, apprendendo che uno dei suoi  carcerieri, l’ammiraglio Sidney-Smith aveva combattuto alla testa di irregolari  calabresi contro le sue truppe lo apostrofò definendolo “comandante di  traditori”. 
    E l’immagine del calabrese rozzo, chiuso, violento continuò a  diffondersi ed a perpetuarsi. Ai primi dell’800 la regione si presentava più  che mai come una squallida «isola» nell’interno stesso del Regno delle Due  Sicilie tanto da fare esclamare ad un viaggiatore francese: “Quando si pensa  che la Magna Grecia è stato uno dei paesi del mondo più popolato e civilizzato  e fertile, è impossibile non deplorare il destino di queste contrade così  belle, condannate da tanti secoli ad un graduale continuo deperimento, sino a  divenire terre mefitiche. 
    I fiumi rendono ancora più desolati i campi che inondano, e quando  rientrano nel loro letto lasciano gore e paludi che infettano gran parte del  paese e costringono gli abitanti ad abbandonare i loro antichi stanziamenti.
    L'ignoranza e l'analfabetismo sono l'altra piaga di questi anni  infelici. Arretratezza intellettuale e morale caratterizzano le popolazioni del  Sud e non poche sono le credenze ed i pregiudizi a cui la gente è legata. 
    Si fa spesso ricorso alla magara, si teme il "malocchio" o  "il fiddittu", ritenuti causa di tante malattie e disavventure, si ha  il terrore del diavolo e di esseri strani e malvagi, creati dalla fantasia  popolare. 
    Per la cura delle malattie si va dai cosiddetti "curatori", i  quali con intrugli magici, con erbe speciali o impacchi tentano di sanare mali  ritenuti inguaribili, come "lu male te Santu Tunatu", "lu focu  di Sant'Antoniu"o sistemano arti rotti o slogati. 
    A seguito dell'editto di Saint Cloud emanato da Napoleone Bonaparte il 12 giugno 1804  furono stabilite nuove norme a riguardo l'ubicazione delle sepolture al di  fuori dei luoghi abiti ed in aree luminose ed arieggiate, tutto al fine per  motivi igienico-sanitari  ed esteso nella penisola italiana il 5 settembre del 1806.
    Questa nuova e più igienica pratica della sepoltura nei cimiteri viene  però spesso ostacolata dal popolo, che, come riferisce la statistica murattiana  per le province di Catanzaro e Reggio Calabria "guarda con un'avversione  furibonda il divieto di seppellirsi nelle chiese, dove solo si crede in  contatto colla divinità, con cui debbe in tal modo conciliarsi". 
    Sempre a questo proposito il relatore della statistica murattiana per la  provincia di Campobasso ricorda che "con una circolare del Ministro  dell'Interno si è ordinata la costruzione dè cimiteri ad un miglio fuori  dell'abitato, ma in nessuna comune si è eseguito". 
    Addirittura, nei giorni immediatamente successivi alla disfatta dei  francesi, la popolazione di alcuni paesi diseppellisce i cadaveri dei propri  cari dai cimiteri dove era stata costretta ad inumarli e li trasporta nelle  chiese. 
    Numerose sono, anche, le credenze che riguardano la morte come il canto  della civetta è  considerato un sinistro  presagio, come il guaire lamentoso del cane è l'annuncio di morte per il  padrone o per qualche familiare.
    Il relatore passa ad esaminare alcuni aspetti inerenti agli usi ed alle  tradizioni relative al rito funebre come ad esempio a quelli concernenti  all'allestimento della bara, prima di deporvi il defunto.
    Nel sarcofago venivano posti diversi capi di abbigliamento e tutto ciò  che , secondo la tradizione tramandata dai popoli antichi, poteva essere utile  durante “il lungo viaggio nell'aldilà”: cappotto, cappello, bastone, scarpe. 
    Secondo tali usi si credeva che tali oggetti sarebbero stati necessari  nell'altra vita. 
    In Calabria si usava – prosegue Sorgonà – mettere una moneta, secondo un  retaggio che possiamo far risalire alla Magna Grecia, mentre non si potevano  seppellire oggetti d'oro o pietre preziose, segno d'attaccamento ai beni  terreni, che ne “impedivano l'entrata in Paradiso” ed il corpo del defunto  veniva collocato al centro della stanza, con i piedi protesi verso l'uscita,  per permettere all'anima d'uscire dal corpo, la porta è lasciata socchiusa per  tutto il periodo della veglia e, a mezzanotte, si spalanca perché è considerato  il momento del trapasso. 
    Nel corso della conversazione Orlando Sorgonà narra di alcune credenze  popolari che narrano la presenza di spiriti in alcuni cimiteri dovuti alla  presenze delle fiammelle sulle tombe. Le fiammelle, i cosiddetti fuochi fatui,  hanno origine dalla spontanea accensione dei prodotti gassosi della  decomposizione dei cadaveri.  
    Il relatore si sofferma su alcune credenze relative alla nascita e alla  morte:due momenti della vita, pieni di eventi inspiegabili e misteriosi, dove  si può far spaziare immaginazione e fantasia. Molte congetture si fanno sul  sesso del nascituro, secondo la forma della pancia della gestante, se appuntita  prevede la nascita di una bambina, se pancia arrotondata quella di un bambino. 




 
  
