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  Fra le etichettature che sono  state attribuite, la Calabria è stata definita luogo della “non storia”,  ritenendo che siano stati sempre fatti esterni a determinarne il corso degli  eventi. Un percorso quindi per nulla o scarsamente influenzato dalla volontà o  da scelte proprie dei Calabresi. È una rappresentazione esteriore che si è auto  radicata negli stessi Calabresi che a lungo hanno condiviso l'idea di non  essere o di essere poco responsabili degli avvenimenti che li riguardavano. Ad  altri erano attribuiti sia i pochi meriti sia le molte colpe di una storia  vissuta troppo spesso in modo lento, opaco, marginale. Ogni vicenda umana è  tuttavia storia e quella della Calabria è storia di uomini e donne in rapporto  tra loro, col proprio territorio e la sua natura, soggetti attivi e passivi di  una faticosa vicenda umana (l'effort de la vie).
  La pagina di storia che  tratteremo oggi su un territorio periferico, qual era ed è la Calabria,  pochissimo conosciuta, possiede una ricchezza di personaggi e storie  affascinanti che non temono confronti con la più grande storia.
  Prima di passare alla Calabria  napoleonica, quale emerge anche da testimonianze d'ufficiali francesi durante  l'occupazione, un breve excursus sulla diversa vulgata storica delle ribellioni  antifrancesi. Ci fu dapprima la rivolta della Vandea (1793-1814), e vandeano è  diventato sinonimo di reazionario, legittimista e antiprogressista.  Contemporanea del brigantaggio calabrese, la guerriglia spagnola (1808-1814), è  nota come guerra di liberazione nazionale, immortalata nei quadri di  Goya “orrori della guerra”.
  Per la Vandea si parla d'insurrezione  cattolica e filo-monarchica, anche se il fattore scatenante fu la  ribellione alla coscrizione (c'era la pretesa d'arruolamento di ben 300.000  uomini).
  Per l'opposizione rurale  calabrese all'occupazione francese la definizione fu di brigantaggio, marchio  infamante che priva di valore l'opposizione all'invasore.
  Eppure il brigantaggio calabrese  ebbe una forte motivazione filo-monarchica e religiosa come in Vandea oltre,  come la guerriglia spagnola, una fiera intolleranza all'occupazione straniera. 
  Data l'ignoranza delle masse  rurali, non possiamo parlare di coscienza d'unità nazionale bensì di orgoglio  d'indipendenza e di radicati sentimenti filoborbonici e religiosi.
  Col primo ingresso dei Francesi  (di Championnet) in Napoli il 23 gennaio 1799 e la proclamazione della  Repubblica Partenopea (21 gennaio 1800), la popolazione calabrese fu chiamata a  raccolta per la riconquista antigiacobina di Napoli costituendo un esercito  senza precedenti nella storia: l'Armata della Santa Fede, sostenuta, come in  Vandea, dal clero e dagli strati bassi della popolazione.
  Il basso clero ebbe buon gioco  soffiando sul fuoco religioso di genti contadine legate al costume natio, non  aduse a novità e tradizionalmente devote al binomio chiesa-monarchia, mentre al  popolo indigente non parve vera l'occasione per sfogare l'atavico rancore  contro i suoi padroni, nobili e borghesi, identificati tutto come giansenisti,  sinonimo di diavoli.
  Dalle tradite riforme erano nei  fatti risultati i soli beneficiari (come per le terre nazionalizzate in  Francia), dei beni espropriati dalla Cassa Sacra (1784-1796) creando un nuovo  latifondo di tipo borghese, che ripeteva, quando non aggravava, ingiustizie di  triste memoria.
  Per sfuggire ai soprusi e alle  pesanti imposizioni dei vecchi e dei nuovi feudatari, da sempre contadini  calabresi “Andare alla montagna” era diventata una scelta endemica.
  Darsi alla macchia nelle fitte  foreste era una fuga mossa da un'indigenza da fame, una disperata decisione  individuale per i pericoli che comportava e la quasi certa fine cruenta, ma con  l'assurda gioia espressa nel detto “Meglio toro due anni che bove cent'anni”.
  Furono questi solitari emarginati  i primi a rispondere al richiamo dell'opposizione antigiacobina per la diversa  offerta di vita, e a partecipare poi alla resistenza rurale calabrese contro  l'occupazione francese.
  Un'opposizione, definita dai  francesi brigantaggio di bande (masse o comitive), che da allora ha  diffuso nel mondo, col marchio di brigante, un'immagine infamante che il  Calabrese non è riuscito a scrollarsi di dosso.
  Alla notizia dell'ingresso dei  napoleonidi a Napoli, solo nei centri calabresi più urbanizzati, dove lo  spirito di J.J. Rosseau ed i dettami della Rivoluzione avevano creato circoli  liberali, i cittadini piantarono l'albero della libertà (col berretto frigio),  abbattendo i simboli reali (con i dorati gigli); inneggiando poi, il 23 gennaio  1800, alla proclamazione della Repubblica Partenopea che ha rappresentato per  la Calabria il primo tentativo di passaggio violento dal sistema feudale a  quello borghese.
  A organizzare la prima  repubblicazione in Calabria furono i “galantuomini” locali costituiti da nobili  “illuminati” e da una borghesia professionale e mercantile, diventata rurale  con le vendite della Cassa Sacra.
  Aperti alle nuove idee, sapevano  che la lotta contro l'ancien régime doveva passare dal piano economico a  quello politico. Fu però un'élite intellettuale, fatta anche da religiosi,  destinata a essere eliminata dalla reazione sanfedista che scoppiò immediata,  facendo leva sullo zelo religioso e sull'odio popolare verso i Francesi e i  loro sostenitori.
  Stupisce per l'epoca – prosegue  il prof. Liberale nel corso della sua esposizione storica- il contrasto in  Calabria fra il ritardo a una più ampia diffusione delle idee libertarie e  l'immediata corale adesione popolare all'azione di “reconquista del Regno di  Napoli” affidata alla Corte di Palermo, dove il re Ferdinando si era  rifugiato, al Cardinale Fabrizio Ruffo.
  Quale Comandante Generale del  Re, l'8 febbraio Ruffo sbarcò in Calabria, sua terra natia, con sette  uomini e trasformò i suoi feudi di Scilla e Bagnara in centri di raccolta di volontari  calabresi con proclami infuocati a difesa del Re, della Santa  Religione, della Divina Morale del Vangelo e a difesa dei beni e a  tutela delle donne. Promise il paradiso, come ministro di Dio, sei anni  d'esenzione d'imposte e i beni dei repubblicani, quale rappresentante del Re.  Il cardinale rosso scatenò una controrivoluzine feroce sostenuta dai  ceti legati alla più retrograda tradizione religiosa e politica, richiamando  sotto lo Stendardo della Santa Croce, una massa enorme di Calabresi che  col basso clero, i soldati e la burocrazia borbonica furono i pilastri della  reazione antirepubblicana: un rifiuto del patrimonio d'idee della Rivoluzione,  un'opposizione alla modernità con la riaffermazione della politica assolutista  diretta a colpire i galantuomini, la nobiltà “sleale” e gli elementi  progressisti del clero. Con 10.000 uomini il Ruffo investì Crotone, centro del  partito liberale calabrese, che soccombette e per due giorni fu dato al  saccheggio, stupro e massacro. Il terzo giorno il cardinale celebrò un Te  Deum di ringraziamento con l'assoluzione di tutti i peccati commessi  durante il sacco della città. L'Esercito della Santa Fede, accresciuto  da una plebe di miserabili mossi dalla superstizione religiosa e dal profondo  odio contro i proprietari, identificati sempre come giacobini, riunì in breve  tempo 25.000 uomini abili alle armi, un vero esercito che come nel Medio Evo al  suo passaggio depredava città e villaggi. Nel lungo percorso di cinque mesi ad  arco lungo la Calabria e la Basilicata, l'armata si abbandonò a innumerevoli  crimini privando il paese dei migliori elementi. Ignoranti, gridavano “Abbiamo  la nazione!” senza sapere cosa fosse, ostili alle idee di democrazia e  quindi contro i Francesi negatori di Dio e i galantuomini loro sostenitori. Per  molti Calabresi della massa contadina, oppressi dai vecchi e nuovi proprietari,  quei lunghi mesi di eccitata e sfrenata lotta predatoria accanto a vecchi  soldati, disertori e forzati (che la regina Carolina a Palermo liberava e  faceva affluire in Calabria), furono l'avvio a una vita selvaggia che nutrirà  poi il brigantaggio antifrancese. All'Armata della Santa Fede si unì, fra gli  altri la banda di Nicola Gualtieri - detto Panedigrano (Conflenti,Catanzaro, 1753 – 1828) -  con mille forzati. La crociata giunse a  Napoli il 13 giugno 1799 ponendo fine all'eroica Repubblica Partenopea. Violati  i patti della resa stabiliti col cardinale, iniziò il massacro imposto  dall'ammiraglio Nelson, istigato dall'amante lady Hamilton, che privò anche la  coltissima capitale, seconda in Europa solo a Parigi, delle più belle menti (Eleonora de Fonseca Pimentel ,Roma, 13  gennaio 1752 – Napoli, 20 agosto 1799). 
  Tra i condannati figurano i più  bei nomi della classe borghese e intellettuale di Napoli e delle diverse  province meridionali che avevano dato il loro appoggio alla Repubblica. Da  allora la monarchia napoletana ebbe solo l'appoggio della plebaglia, e prese  quell'impronta d'illetterata … talchè “borbonico” e “ignorante”  divennero sinonimi (Vincenzo Cuoco - Civita Campomarano,Campobassso,  1° ottobre 1770, Napoli 14 dicembre 1823) .
  Un totale silenzio storico grava  su tutta la penisola calabrese per gli anni seguenti quella prima Restaurazione  Borbonica. Alle difficoltà di comunicazione e alle piaghe ancora aperte degli immani  sconvolgimenti tellurici si erano aggiunte le profonde ferite sociali inferte  dall'esercito della Santa Fede. 
  Solo i principali centri  rivieraschi erano rimasti in comunicazione fra loro via mare. La popolazione  era “scarsa e indigente”, rileverà nel 1806 uno dei nostri testimoni  arrivando a Reggio “ancora cosparsa dalle rovine del terremoto”. Per  fuggire dalla malaria, acuita dai nuovi stagnanti impaludamenti, la popolazione  aveva intensificato il ritiro sul montuoso retroterra creando una serie  di nuovi centri abitati. L'esodo era già  iniziato con l'abbandono dei paesi terremotati, i cui solitari ruderi  costellano tuttora la provincia di Reggio).
  I nuovi insediamenti su  inaccessibili alture o nel buio di profonde vallate, prive di vie di comunicazione  se non per sentieri impervi, destinati a rimanere isolati non solo nella  stagione invernale, sono un fenomeno calabrese che aveva già creato  l'isolamento esterno e interno di parte della sa gente sin dal tempo delle  incursioni turchesche, come testimoniano le rovine delle torri di guardia lungo  tutta la costa calabra.
  Nel generale sovvertimento  geopolitico anche la martoriata Calabria non tardò a diventare una pedina nello  scacchiere delle grandi potenze. Il blocco continentale deciso da Napoleone per  colpire economicamente l'Inghilterra, da lui definita “un'accozzaglia di  bottegai”, l'aveva portato a concepire un disegno dal quale non rimase  escluso il Regno di Napoli, prospero e al centro del Mediterraneo, cui  apparteneva una Calabria ricaduta all'inizio del secolo nella prostrazione e  nell'oblio.
  Rompendo in modo cruento –  prosegue  nel corso della sua relazione  il prof. Enzo Liberale – l'isolamento della regione, i Francesi si trovarono a  dover fronteggiare un'inaspettata opposizione soprattutto nella Calabria  Citeriore, un'avversione mortale destinata a caratterizzare tristemente  l'occupazione sino al 1810 quando Gioacchino Murat diede carta bianca al  generale Charles Antoine Manhès (Aurillac, 4 novembre 1777 – Napoli, 26 agosto 1854) per eliminare ogni  ribellione.
  È grazie anche alle descrizioni  di ufficiali, contenute in loro lettere o diari, con giudizi diparte ma anche  obiettivi, che ci sono state offerte finestre di penetrazione nell'esistenza  delle genti di quel periodo.
  Una ricerca del periodo –  prosegue Enzo Liberale – mi ha portato  a  rintracciare e tradurre e pubblicare col titolo “L'occupazione della Calabria  (1806)” la parte riguardante la Calabria dei Mémoires du Général Grios,  (testimone dei cruciali mesi del 1806 e del 1807). I  Mémoires (pubblicati postumi nel 1831,  grazie agli appunti presi dal giovane ufficiale giorno per giorno, persino in  condizioni disperate, con lucidità e acutezza) riportano i movimenti e le  operazioni dell'armata del generale Jean Louis Ebénézer Reynier (Losanna, 14 gennaio  1771 – Parigi, 27 febbraio 1814) , composta da 10.000 uomini, dall'inizio  dell'occupazione e nei primi due anni.
  Entrati i Francesi (15 febbraio  1806) per la seconda volta a Napoli e insediato sul trono Giuseppe Bonaparte  con la corte rifugiata a Palermo, l'esercito borbonico, agli ordini del  generale Joseph Élisabeth Roger de Damas D'Antigny (Parigi, 4 settembre 1765 –  Cirey, 18 settembre 1823)  , si ritirò a  predisporre la linea di resistenza in Calabria, scelta effettuata per  l'inaccessibilità dei luoghi e per la fedeltà della popolazione.
  Posto il Quartier Generale a  Castrovillari (Cosenza), Damas dispose la truppa con fronte a Campo Tenese.  L'allora capitano Charles Pierre Lubin Griois, (21 dicembre 1772 Besançon, Doubs - Parigi  28 novembre 1839)  da protagonista narra lo scontro (avvenuto  l'8 marzo) e la rotta dei borbonici che aprì ai Francesi le porte della  Calabria.
  Il loro ingresso non avvenne nel  segno della liberazione da una vecchia politica e la religione che una secolare  pratica aveva radicato nelle masse (Benedetto Croce).
  Già il primo contatto – prosegue  il prof. Liberale – a Lagonegro (Potenza) con la retroguardia napoletana aveva  portato al saccheggio , così come ha tramandato   l'ufficiale, ellenista e scrittore Paul-Louis Courier (4 gennaio 1772,  Parigi - 10 aprile 1825, Larçay) “Ci troviamo in una casa saccheggiata; due  cadaveri nudi sulla porta; sulla scala un non so che di assomigliante a un  morto. Nella stessa stanza con noi, una donna violentata a quanto ella dice,  che grida ma non morirà. Brucia la casa vicina. Nessun mobile nella nostra, e  neanche un pezzo di pane” (lettera da Morano Calabro). Il mese successivo  (22-28 marzo 1806) nel comune calabrese di Soveria Mannelli (Catanzaro) una  rivolta popolare, guidata da Carmine Caligiuri, uccise 10 soldati francesi e il  giorno seguente tese un'imboscata a 200 milizie transalpine, uccidendone  trenta. La rappresaglia del generale Jean Antoine Verdier (Tolosa, 2 maggio  1767 – 1839) , giustiziò i rivoltosi e diede alle fiamme Soveria e i villaggi  vicini che avevano appoggiato l'insurrezione.
  Gli orrori ed i fatti di sangue  si susseguirono nel periodo argomentato inasprendo l'odio che l'Armata  Sanfedista del Cardinale Ruffo aveva instillato nell'animo dei Calabresi contro  i Francesi e contro la loro Rivoluzione, avviando, per scacciarli dalla propria  terra, un'opposizione che costerà grande spargimento di sangue a entrambi le  parti.
  Rispondendo all'innato senso  d'indipendenza e all'orgogliosa fede borbonica e religiosa, iniziarono così,  anche con fucilare isolate, gli attacchi ai Francesi con imboscate con  imboscate nei luoghi solitari e nei difficili passaggi, intercettando i  corrieri, sgozzando i ritardatari feriti, ostacolando e saccheggiando le  salmerie. Azioni di rivolta alle quali gli occupanti risposero con meno feroci  spedizioni punitive. Ai gruppi di paesani, si affiancarono quelli degli  sbandati, dei galeotti e dei militari che la corte di Palermo si affrettò a  inviare.
  Riemersero i capi massa,  già al seguito del cardinale Ruffo, che riorganizzarono bande anche di migliaia  di elementi. Per violenza ed astuzia si distingueranno quelle di Francatrippa,  Benincasa, Paolo Mancuso, alias Parafante, Nicola Gualtieri alias Panedigrano,  Michele Arcangelo Pezza alias Fra Diavolo (Itri, provincia di Latina, 7  aprile 1771 – Napoli, 11 novembre 1806), autentiche organizzazioni militari  rette da personaggi avventurosi che svolsero vere azioni di guerra che  focalizzavano la totale avversione nei confronti dei napoleonidi, come si come  riportato dalla corrispondenza da Nicastro (Catanzaro) del periodo “... il  brigantaggio è veramente giunto al culmine in questa contrada, e ogni  passeggiata esterna c'è proibita. Gli abitanti segnalano ogni nostro movimento,  perciò siamo costretti a rimare confinati nella ristretta cerchia del borgo dal  quale non possiamo uscire senza scorta. Speriamo di abbandonare al più presto  questo soggiorno che sarebbe un vero paradiso se non fosse abitato da diavoli.”.
  Nel corso dell'intervento del  prof. Liberale viene evidenziato dallo stesso relatore che a differenza della  parte settentrionale della Calabria interessata a continui scontri armati tra  le opposte fazioni, a Reggio Calabria, invece l'ingresso dei Francesi venne  accolto favorevolmente, come testimoniano le cronache del tempo.
  A testimonianza di quanto sopra  evidenziato fa da eco la corrispondenza epistolare del periodo argomentato dove  il cronista transalpino descrive le incomparabili bellezze naturali, come ad  esempio Gallico (Reggio Calabria) “...dalle case pulitissime in riva al  mare...”, o “... le donne calabresi sono generalmente belle e ne ho  viste d'incantevoli...” , ma anche deplora lo stato dei borghi  semidistrutti del terremoto del 1783, quali Mileto, Nicotera e Seminara e  quelle “delle pianure che si trovano in riva al mare o alla foce dei corsi  d'acqua” che, secondo tale reportage “sono di una tale insalubrità che  basterebbe bivaccare una sola notte d'estate pere prendere subito una febbre  mortale”.
  Le cronache francesi del periodo  narrano che Reggio Calabria aveva ancora “la periferia coperta di macerie  che servono alla ricostruzione della nuova città con alcune vie già molte belle  ma poco animate” ed “è impossibile immaginare campagne più belle di  quelle che circondano Reggio” che la definiscono “ideale paradiso terrestre”.  D'altro caso si evidenzia che “gli sperduti e isolati villaggi presentano un  aspetto miserabile e repellente. L'interno delle case è di una sporcizia  ripugnante condivisa anche con maiali, numerosissimi e neri. La condizione dei  contadini è fra le più infelici: le fortune sono troppo sproporzionate, le  mediocri sono poche, rarissimi i piccoli proprietari, in nessun luogo v'è  passaggio così improvviso dell'estrema indigenza alla grande ricchezza così  poco comprensiva”. Fra le cause di tale stato si specifica che “prima  dell'ingresso dei Francesi la Calabria era sottoposta alla diretta influenza  dei ricchi e potenti baroni che esercitavano sui loro vassalli un'autorità  dispotica, usurpata sui diritti dei sovrani. Tutto ciò che di odioso il  feudalesimo presenta e di contrario ai diritti dell'umanità pesava in modo  davvero eccessivo”.
  Quanto sopra evidenziato è  inserito nella letteratura narrativa di Jean Baptiste Duret De Tavel (Villeneuve-lès-Avignon, 7 settembre 1770 – 1861) che  durante la sua permanenza in Calabria (1807-1810)  al seguito dell'esercito napoleonico,  descrive nella sua corrispondenza epistolare l'abbruttimento delle comunità  isolate, violate dalle truppe francesi a causa del loro coinvolgimento con i  briganti, della cui presenza è ricca la narrazione e tali relazioni portano  sempre l'immaginazione a rivivere le disumane condizioni socio-economiche e a  riflettere – prosegue il prof. Liberale – sull'ingrato destino d'una terra che,  dopo tante sofferenze, non ha trovato ancora pace.
  Il regresso e le condizioni di  vita delle comunità più sperdute spiegano solo in parte le selvagge reazioni  davanti a una presenza straniera la quale, dal canto suo, non riuscì a scindere  nell'atteggiamento della popolazione rurale l'affermazione di una fiera  indipendenza dal diverso spirito che anima il brigantaggio, al quale il De  Tavel attribuisce l'insuccesso alla mancata unità d'organizzazione e di  condizione che invece aveva caratterizzato l'esercito della Santa Fede del  Cardinale Ruffo: “I francesi sono fortunati ad avere a che fare in questo  paese soltanto con volgari banditi perché, se la insurrezione si organizzasse,  con gli enormi vantaggi offerti ad ogni passo dal terreno, potremmo essere  eliminati senza pericolo ad uno ad uno”.
  Altri aspetti vengono evidenziati  da tale testimonianze come ad esempio nella descrizione di Reggio Calabria si  nota la poca libertà delle “donne che non siedono a tavola quando il marito  riceve estranei. È lui che le manda il pezzo che gli rimane e le lei lo mangia  in cucina o nella stessa sala in disparte o sulle ginocchia...”.
  Son bastati però alcuni anni di  frequenza con i Francesi perché nelle principali città i costumi cambiassero.  Una testimonianza ci dirà – prosegue il prof. Liberale– che a Cosenza “dall'arrivo  dei Francesi la città ha acquistato molto in socievolezza, si danno balli, e ci  sono parecchi circoli brillanti, dove si degustano liquori possiedono notevoli  redditi. Affascinate dai nostri modi, le signore del luogo sono diventate  avvicinabili con grande scandalo dei mariti, despoti e gelosi per natura, i  quali ritengono tuttavia in obbligo di riservarci qualche riguardo. È con loro  grande scandalo, ripeto, che il voluttuoso valzer è subentrato alle bizzarre  danze locali. Chissà le scenate che questa novità ha procurato nelle famiglie!”.
  Nell'agosto del 1810 Gioacchino  Murat, allora a Reggio Calabria per i preparativi d'invasione della Sicilia,  dopo la sontuosa parata militare, la sera – prosegue il prof. Liberale – ha  offerto un grande banchetto con mille invitati di cui duecento dame. “alle  nove – ci riferisce la seconda testimonianza –   “c'è stato uno splendido fuoco d'artificio, seguito da un ballo  brillantissimo cui hanno partecipato numerosa dame di Reggio e dintorni. Il  cielo sereno e l'aria pura infondevano un fascino inesprimibile a quel ballo  all'aperto” . E continua “Non si può avere un'idea della bellezza delle  notti in questa contrada meridionale; vi regna un fresco balsamico che estasia  tutti i sensi. Lo Stretto, illuminato dai fuochi di festa dei nostri campi e  dall'illuminazione della città e dei paesi della nostra sponda, dava alla festa  un aspetto davvero magico”. Poiché c'erano anche i fuochi d'artificio, l'incanto è rimasto immutabile anche per le attuali notti d'estate sullo Stretto.
  Dato che Reggio Calabria era  sotto la minaccia di bombardamento delle navi inglesi all'ancora a Messina,  Gioacchino Murat nel 1808 elesse Monteleone (Vibo Valentia dal 1928) a  capoluogo della Calabria Ulteriore, stabilendovi il Quartier Generale. La  città, apparsa subito ai Francesi un soggiorno piacevole, divenne importante,  animata da una società ricca di “lumi e urbanità”. Sotto la seconda  Restaurazione (1815-1860) le manifeste idee liberali costarono ai suoi abitanti  l'esclusione dalla pubblica amministrazione per tutto il periodo del Regno  delle Due Sicilie. Il capoluogo fu trasferito a Catanzaro e gli abitanti da  ventimila ridiscesero a ottomila.
  Inoltre, e non per ordine  d'importanza la seconda restaurazione borbonica costrinse poi all'esilio i  reduci più famosi del periodo napoleonico, rare notizie si hanno a riguardo i  soldato che, diventati veterani, riuscirono a salvarsi e a fare rientro  nei  luoghi d'origine. La loro carica  d'esperienza e l'assimilazione delle nuove idee umanitarie, sotto il cui vessillo  avevano militato e combattuto, contribuì certamente a far fermentare anche in  ogni angolo della Calabria la coscienza liberale che produsse i moti ed i  martiri del 1820 e del 1848, anticipando addirittura nel '48 l'importante  sollevazione delle grandi capitali europee.
Una riflessione finale – conclude  il prof. Enzo Liberale – ci porta a ricordare che il concetto di “nazione  d'Italia” nacque col napoleonico Regno d'Italia (1804-1814) con tanto di  tricolore ed esercito detto “Legione italica” ma fra le province anche in  seguito aderenti, non fu annessa la parte continentale delle Due Sicilie, cosa  che Napoleone avrebbe potuto fare benissimo. Fu solo sostituito il re prima con  Giuseppe Bonaparte, poi con Gioacchino Murat, fatto indicativo non solo dell'autosufficienza  economica e organizzativa nonché territoriale dello stato napoletano ma,  soprattutto della sua diversa identità nazionale. Sarà proprio la diversa identità  nazionale il problema della stato unitario (Fatta l'Italia bisogna ora fare  gli italiani – Massimo Taparelli marchese d'Azeglio, Torino, 24 ottobre  1798,15 gennaio 1866). 

   
 

30 ottobre 2014
  
  
la manifestazione