[… questo mare  è pieno di voci, questo cielo è pieno di visioni ... questo è il luogo sacro dove le onde greche vengono a cercare le latine ...]: questo è quanto si legge, anche se a fatica su una vecchia stele attempata ed i cui segni di decadenza, anche per l'incuria dell'uomo, è un alto momento letterario a firma di Giovanni Pascoli.
Queste le sue sensazioni nell'ammirare questo tratto di mare facente parte di un contenitore, non solo geografico ma anche storico, quello che definivano gli antichi romani “Mare nostrum”, quindi il sottotitolo della manifestazione “Popoli e culture del Mediterraneo” che ben si abbina con la sede
istituzionale che a sua volta  è testimone e luogo di memoria di altre culture.
Prima di cominciare i lavori ha preso la parola al dott. Giacomo Oliva  ( in rappresentanza del Museo della Magna Grecia ) che ha dichiarato: « vi porgo i saluti a mio nome ed a nome della dottoressa Lattanzi che è impegnata in altra sede e non ha potuto intervenire. Personalmente: io sono lusingato di presenziare a questo convegno. Non pensate che sia strano che all’interno di un Museo archeologico si svolgano questo genere di manifestazioni. Tutto questo tipo di eventi sono collegati fra di loro: dell’arte ogni cosa è legata all’altra. Noi, come Museo, siamo invitati dal Ministero stesso, del resto, a promuovere proprio questo genere di iniziative. Infatti la dicitura stessa del Ministero parla chiaro, non è più “ Ministero dei beni culturali “ ma è “ Ministero per i beni e le attività culturali ».
Uno scenario, quello di Palazzo Piacentini - Museo della Magna Grecia “guardiano” delle antiche culture del Mediterraneo, testimonianze di un glorioso passato, ben custodite e che non si trovano per caso -  come qualcuno ha avuto modo di dire, dall'alto della sua carica istituzionale , ha ospitato per una settimana una  manifestazione, caratterizzata da due incontri e da un'interessante mostra, inerente il cantautore di quel bacino di mare, appunto il Mediterraneo,del quale  è stato cantore giusto Fabrizio De André.
Da qui nasce il sottotitolo “Popoli e Culture nel Mediterraneo”;  unendo Reggio e Genova in un percorso che non  è solo storico-culturale ma anche umano e sociale.
Da questi elementi Gianni Aiello ha preso spunto per il sottotitolo della manifestazione, per l'appunto "Popoli e culture nel Mediterraneo" e  nello specifico titolo alla sua relazione, dove ha evidenziato i parallelismi storici tra le  due città, Genova e Reggio ed i  testi di Fabrizio De André dove si intrecciano aspetti ricchi di riferimenti culturali, di leggende, miti.
E proprio da questi elementi il relatore ha voluto iniziare il suo intervento sulle note musicali "ideali"   di "Sidun" che secondo lo stesso Gianni Aiello rappresentano al meglio quel Mediterraneo "contenitore di  diverse culture" fonte d'ispirazione di Fabrizio De André " 
I primi abitatori delle  due città ( Genova e Reggio ) provenivano dal mare : essi, forse erano degli esuli, oppure li spingevano  motivi commerciali.
Approdarono sul nuovo sito per fondare un'altra area  che aveva similitudini con il luogo natio.
I primi abitatori di razza ligure, fin dal VII secolo furono in relazione con i Greci, poi con  Etruschi e  Cartaginesi. Dagli stessi presero costumi e tradizioni.  Genova città può dirsi quindi fondata, o per lo meno fiorente, nella stessa epoca in cui fiorirono le altre città greche del Mediterraneo (Marsiglia, Piombino) e le altre città etrusche (Luni, Pisa) ed idealmente percorrendo il territorio peninsulare Sibari, Locri, Reggio, Crotone,  Zancle, od altre realtà che non esistono più, “ ... le città morte ...” descritte da Giovanni Pascoli, quindi un altro elemento di  continuità sia nella relazione che nel sottotitolo della giornata di studi dedicata allo scomparso Fabrizio De André.
Il percorso storico di Gianni Aiello continua intrecciandosi con i versi poetici delle canzoni del cantautore scomparso: popolazioni venute dal mare e qui il parallelismo con “Creuza de Mà”, la canzone scritta in genovese ("Umbre de muri muri de mainè, dunde ne vegnì duve l'è ch'anè" - "Ombre di facce, facce di marinai, da dove venite dov'è che andate"). 
Si continua a sfogliare le pagine di storia delle due città ed i loro destini: le guerre puniche, le due città che diventano Municipio romano, le posizioni strategiche delle stesse.
Le lotte contro i pirati, e qui entra in causa "Sidun" che parla di popoli in catene, di sangue, massacri; il destino dei popoli che si sono affacciati nel bacino del Mediterraneo " ... e i euggi di surdatti  chen arraggë cu'a scciûmma a bucca cacciuèi de baë a scurrï a gente cumme selvaggin-a finch'u sangue sarvaegu nu gh'à smurtau a què e doppu u feru in gua i feri d'ä prixùn e 'nte ferie a semensa velenusa d'ä depurtaziùn ... ( ... e gli occhi dei soldati cani arrabiati con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come selvaggina finchè il sangue selvatico non gli ha
spento la voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigione e nelle ferite il seme velenoso della deportazione ..."
Le leggende del "Mare Nostrum", i sogni, i carrugi ed i gatti a cui De André era affezionato, la poesia di Giovanni  Pascoli ( ormai attempato negli anni, seduto sul lungomare di Reggio che scriveva " … questo mare  è pieno di voci, questo cielo è pieno di visioni … questo è il luogo sacro dove le onde greche vengono a cercare le latine … "): tutto sembra collegarsi in un unica grande ispirazione poetica.
Scorrono le pagine della storia, nella relazione, attraverso la lotta contro i pirati,  le Crociate, la guerra fra Aragonesi ed Angioini, l'epopea cavalleresca "Fila la lana", dove (... cavalieri che in battaglia ignorate la paura stretta sia la vostra maglia ben temprata l'armatura ...),  "Carlo Martello
ritorna dalla battaglia di Poitiers", dove il a sua terra cingendolo d'allor al sol della calda primavera lampeggia l'armatura del sire vincitor il sangue del Principe e del Moro arrossano il cimiero d'identico color ...) , liriche che si possono accostare a "La chanson d'Aspromont" per personaggi, aspetti storici e letterali.
"Il re fa rullare i tamburi"... «La data del 12 ottobre 1492:  … scoperta o invasione del nuovo continente, dipende da quale punto di vista della barricata si guarda - dice il relatore -  : "Rimini" (... e dalla sua portantina lei gli toglie le manette ai polsi gli rimbocca le lenzuola "Per un triste Re Cattolico - le dice - ho inventato un regno e lui lo ha macellato su di una croce di legno. E due errori ho commesso abortire l'America e poi guardarla con dolcezza ma voi che siete uomini sotto il vento e le vele non regalate terre promesse a chi non le mantiene ") ed in quell'equipaggio c'erano un genovese, l'ammiraglio Colombo ed un reggino Anton Calabres .
Altri elementi di continuità: le lotte franco-spagnole , la battaglia di Lepanto, San Giorgio, la resistenza,nella quale dei reggini combatterono per le via di Genova, per un ideale, perdendo la vita ».
È stata poi la volta di Gianfranco Cordì, responsabile della sezione "cinema" dello stesso sodalizio che ha tenuto una relazione avente per tema "L'attenzione per i deboli e il problema del disco in Fabrizio De André".
Due sono le cifre che emergono chiaramente ad un ascolto attento dell’intera opera del cantautore genovese Fabrizio De André.
L’artista, spentosi a soli 59 anni in quel di Milano l’11 gennaio 1999 ha lasciato, come si sa, una profonda impronta nel panorama ( non solo ) musicale italiano.
La sua produzione è incentrata primariamente, dal punto di vista dei contenuti, su di una tematica abbastanza ricorrente e ben strutturata: l’attenzione per gli emarginati della cosiddetta moderna società del benessere.
Questa è la prima riconoscibile cifra di cui si diceva. De André, con la sua stessa vita, stava del resto a confermare questo assunto in maniera del tutto paradigmatica.  
Figlio della Genova bene ( suo padre Giuseppe era, tra l’altro, amministratore delegato dell’industria dello zucchero Eridania nonché fondatore della Fiera di Genova ) aveva condotto, fin dai suoi primi anni, un’esistenza che si era rivelata il perfetto contrario della sua provenienza. Amante delle bettole e della strada tout court ( i carrugi genovesi da lui poi cantati in canzoni come Via del campo e La città vecchia ), dedito alle zingarate in compagnia anche di Paolo Villaggio fra gli altri, cliente assiduo di prostitute, gran bevitore, ed infine cantante: più che per vera vocazione, per non sapere in fin dei conti fare nient’altro nella vita.
Questa esistenza bohemien ha finito per essere tutta travasata in questo modo nei suoi testi. Pullulano infatti le sue canzoni di professioniste ( la Marinella scaraventata nel Tanaro dopo essere stata derubata, protagonista della omonima canzone del 1964  ne è solo un esempio), di poveri cristi senz’arte ne parte, di tipi strani che per tremila lire hanno venduto le loro madri ad un nano, di viados ( Princesa dell’album Anime salve, scritto tutto in  collaborazione con Ivano Fossati nel 1996), di Cenerentole (Via della povertà tratta dall’album Canzoni del 1974, libera traduzione  con De Gregori di Desolation row di Bob Dylan), e così via.
Questa cifra lo caratterizza dunque pienamente.
Sempre dalla parte di chi è rifiutato dallo show-bussines ( da quella bottiglia di orzata su cui galleggia Milano, di cui scriverà, descrivendo alla sua maniera in questo caso i tremendi anni ’80 italiani, anni in cui come dirà Mauro Pagani per poter cantare le tue canzoni dovevi vestirti da marziano e alzare le mani con gli indici al cielo come un imbecille, a questo proposito nella canzone La domenica delle salme ) , di chi soffre, di chi non ci sta, finirà per dedicare pure un intero disco nientemeno che alla figura di Gesù Cristo. 
Che pure gli è lontanissima per formazione ed anche per idea. 
Il disco sarà La buona novella ( 1970); e quel Gesù che Faber finirà per cantare in fin dei conti ( come affermerà un suo amico contrabbandiere dell’angiporto di Genova ) sarà semplicemente un bravo figliolo.
Apocrifo, come i Vangeli da cui prenderà spunto per l’intero disco ( quelli di De André sono tutti dei concept-album: per la prima volta in Italia un intero disco è dedicato a sviluppare un’unica tematica; questa è una delle grandi innovazioni a livello musicale del suo lavoro ), il suo Gesù è un altro di quei son pur sempre figli  che De André non ha fatto altro che cantare per tutta quanta la sua vita.
E questo amore per i sofferenti lo porterà a scrivere l’epigrafe alla sua opera in quella che è proprio l’ultima traccia da lui lasciata su disco: la canzone Smisurata preghiera.
Che conclude il lavoro Anime salve.
In questa canzone ad un certo punto, infatti, De André dice di volere cantare per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale, di speciale disperazione... Più esplicito  e definitivo di così.
Il suo flirt personalissimo e particolare con l’anarchia non è che un pendant, probabilmente di poco conto, a  tutto questo.
E poi c’è la seconda cifra del suo lavoro.
Da sempre i cantautori italiani hanno avvertito come un problema il rapporto che lega, indissolubilmente, il prodotto- disco con il proprio pubblico.
E ne hanno fatto musica.
(Paradigmatico è il caso di Roberto Vecchioni che a quelli lì, intesi come i discografici che ad ogni alba arrivavano a frotte per chiedergli i quotidiani venti chili di riso, e cioè: la canzone commerciale che più commerciale non si può, a quelli lì l’artista lombardo ha dedicato più di una delle sue canzoni; fra le tante anche Pani e pesci tratta dal disco Elisir del 1976, in cui sull’argomento ironicamente in questo modo chiosa: viviamo per il pubblico ma ci chiamiamo Pietro/ in cime alle classifiche ci  rivogliamo indietro ).
I cantautori hanno avvertito dunque in maniera pressante il problema del disco. Di un opera d’arte ( o dell’ingegno come diceva De André) che diventa merce.
E più di ogni altra opera dell’ingegno. Più di un libro, più di una piece teatrale, più di un quadro. Nel mondo della musica sono quelli lì a decidere il bene ed il male; nel mondo della musica: c’è il mercato che domina incontrastato, c’è la legge della domanda e dell’offerta.
De André espone il suo punto di vista su queste tematiche, ora in maniera più velata ora in maniera più evidente, in diverse canzoni. Due sono quelle che ci sembrano stigmatizzare meglio il problema.
La prima, ed entriamo subito in medias res, è quella dedicata alla scomparsa del collega Luigi Tenco.
Avvenuta in quel di Sanremo ( dove, scriverà De Gregori in Festival tratta dal disco Bufalo Bill del 1976, subito dopo il momento in cui si fu consumata la tragedia: l’inviato della pagina musicale/ scrisse tutto è stato pagato). Il 27  gennaio 1967 in pieno Festival, appunto, nella Città dei Fiori Tenco si toglie la vita.
Si diceva che stiamo entrando subito in medias res riguardo al nostro discorso: perché Tenco lascerà un biglietto nel quale dirà che si è ucciso perché la sua canzone non è entrata in finale dove invece, al suo posto, ci sarà nientemeno che Orietta Berti con il suo pezzo.
Questo era il mondo del disco che trionfava a Sanremo e per il quale Tenco perse la vita. De André la notte successiva al momento in cui apprende la notizia della morte dell’amico compone la sua Preghiera in gennaio ( poi compresa nel disco Volume 1 del 1967) nella quale ad un certo punto dirà fate che a Voi ritorni/ fra i morti per oltraggio/ che al cielo  ed alla terra/ mostrarono il coraggio. Tenco, dunque uno dei morti per oltraggio. Ecco cosa pensa De Andrè del mondo del disco nel 1969.
Ed è quanto ribadirà in maniera più poetica e larvata anche due anni dopo, nel 1971; ma il tempo non è tanto importante in questo caso. Contano le parole.
Uscì in quell’anno il disco Non al denaro, non all’amore né al cielo che conteneva fra le altre canzoni anche Il suonatore Jones.
Tutto il disco era in realtà una rilettura dell’ Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters ( e Fernanda Pivano, la celebre studiosa della letteratura americana, ebbe a dichiarare a proposito di questa rilettura di De Andrè delle poesie di Masters io sono contenta dei suoi cambiamenti e mi pare che lui abbia molto migliorato le poesie.
Sono molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo…) ma questa canzone in particolare esprimeva quello che De André sinceramente pensava del problema del disco ( che aveva ucciso Tenco e che avrebbe stritolato più di un grande artista negli anni che sarebbero successivamente venuti ).
In particolare quando De André dice: e poi se la gente sa/ e la gente lo sa che sai suonare/ suonare ti tocca/ per tutta la vita/ e ti piace lasciarti ascoltare.
Dunque al suonatore piace lasciarsi ascoltare suonare; questo è un dato di fatto; ma pesa come un macigno la sentenza contenuta nei versi di mezzo della quartina su riportata suonare ti tocca per tutta la vita.
Magari  la stessa canzone. I deboli ed il disco.
De André può essere racchiuso tutto in questa diade. Non è certo soltanto questa l’esperienza principalmente umana e secondariamente professionale dell’artista genovese.
Uomo schivo, sempre lontano dai riflettori (il primo tour che lo vide protagonista avvenne soltanto nel 1975 dopo una carriera quasi ventennale alle spalle; e quello fu  un tour che partì dalla Bussola di Viareggio di Sergio Bernardini e con l’accompagnamento dei genovesi New Trolls; sotto gli occhi attenti dell’amico regista Marco Ferreri; il quale aveva studiato da veterinario e che perciò conterà i battiti del polso allo stesso De André prima dell’esibizione, dicendogli che sì, quella sera può suonare…), geloso del suo privato, impegnato  ma pur sempre un’artista: De André è stato tutto questo è molto altro ancora.
L’epitome migliore per descriverlo la lasceremo, ancora una volta, alle sue stesse parole ( dalla canzone Amico Fragile contenuta nel disco Volume 8 scritto a quattro mani con Francesco de Gregori nel 1975 ); così in contrapposizione ai quattro parvenu arricchiti incontrati ad una festa di Portobello di Gallura e che non vogliono parlare con lui di quello che sta succedendo in Italia come vagheggerebbe De André ma alla stregua di un ranocchio ammaestrato per il salto, visto che lui suona ed è famoso magari anche più di loro, desiderano soltanto sentirlo suonare arriva a delinearsi in una strofa assai significativa il cattivo Faber: perché già dalla prima trincea/ ero più curioso di voi/ ero molto più curioso di voi.
Subito dopo la fine dell’intervento di Cordì, il presidente del sodalizio organizzatore, Gianni Aiello, ha consegnato nelle mani di Max Manfredi (nella sua veste di “ delegato” del Comune di Genova) una targa appositamente fatta preparare per il sindaco di Genova, Pericu volendo esprimere così la riconoscenza per l’apporto da egli fornito all’organizzazione.
Ha preso quindi la parola Max Manfredi (Cantautore, la cui canzone “ La fiera della Maddalena “ cantata a due voci con Fabrizio De André, che ha dichiarato: « Io questa sera qui a Reggio Calabria vengo nella veste di “ delegato” del Comune di Genova. Questa cosa mi preoccupa non poco, io credetemi sono una persona molto poco rassicurante. Però è anche vero che questa mia veste mi fa piacere.
Vorrei, a questo proposito, osservare che le istituzioni spesso si accorgono delle cose che succedono con un certo ritardo; in questo caso invece: sembrano essersi accorte delle cose addirittura “ prima “.
Le istituzioni, cioè, hanno inviato qualcuno da Genova a parlare di Fabrizio ma non solo: hanno mandato anche un “ testimone” diretto della canzone d’autore genovese.
Ci tengo molto a dire che a Genova non ci sono solo i “ grandi”, i mostri sacri: Lauzi, Bindi e Paoli, poi De André e magari Fossati e Baccini e poi basta, niente altro più.
In realtà: non è proprio così.
La situazione stessa dell’industria discografica parla. Genova è una città che “ parla molto di Genova “, è una città autoreferenziale in qualche modo. Questa è la sua caratteristica. Se ci fate caso nelle altre città non è così: a Roma non si parla di Roma !».
Dopo di che Max Manfredi è passato  a trattare la questione della canzone d'autore, che definirla morta, quindi, darla per spacciata o relegarla al ricordo di alcuni grandi, non tradisce soltanto un' imperdonabile miopia,  è anche malafede.
Il rinnovamento della canzone d’autore non passa soltanto attraverso le mode,  nuovi linguaggi e pretese esigenze di mercato; ma vive, e non vegeta, nella ricerca poetica e musicale dei migliori artisti di oggi.
Genova, che già nel medioevo echeggiava nei suoi vicoli, nelle piazze e nei palazzi, delle strofe di trovatori  e menestrelli,  continua ad essere matrice e scena di canzoni d’amore.
Amore magari risentito, tradito, scontroso, “stundaio”; ma sempre generoso e incoercibile: amore per le strade vecchie e nuove, i ricordi appannati  e le urgenze vitali che fanno di questa città uno straordinario  palinsesto, un mosaico  dove immagini e culture si sovrappongono vertiginosamente, e dove (come dicevano gli antichi saggi) “ciò che è in alto equivale a ciò che è in basso, per comporre le meraviglie della cosa unica”.
C’è una nuova scuola? Non lo crediamo. Sappiamo che ci sono artisti che si conoscono, si stimano, e a volte, lavorano assieme.
I poeti di Genova respirano la stessa atmosfera, così come i suoi palazzi e le sue catapecchie, e la respirano nel bene e nel male, monossido di carbonio e salino; vivono un mondo in divenire e testimoniano necessariamente le sue trasformazioni, a volte senza volere.
«Sappiamo soprattutto che non bisogna parlare di eredità generazionale o artistica, che la musica non è una staffetta, e che il filo rosso che lega fra loro autori come Gino Paoli, Fabrizio De André, Ivano Fossati e me stesso è fatto di amori comuni,   ma soprattutto di sacrosante differenze». 
Dopo l'intervento di Max Manfredi ha preso la parola Luigi Viva (scrittore, autore teatrale,conduttore radiofonico nonché socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André ) che ha detto: « Venendo qui a Reggio io mi sono portato dietro gli attrezzi del mestiere: il mio libro  ( " Non per un Dio ma nemmeno per gioco-Vita di Fabrizio De André" , ed. Feltrinelli ) e poi le poesie di François  Villon , uno dei riferimenti di Fabrizio.
Questi attrezzi li uso quando il dibattito su Fabrizio tende a diventare troppo soggettivo con interpretazioni e considerazioni che non sono in linea con i tratti fondamentali del suo pensiero e con quanto lui diceva.
Proprio nella prefazione che Fabrizio De André ha scritto per le Poesie di Villon (Feltrinelli,1996) egli precisa: "Ora ti saluto consapevole del fatto che quando si tratta di poeti è meglio lasciar parlare loro e non perdere troppo tempo nel tentativo di spiegarli".
Sono quattro pagine importantissime che sottolineano i punti di contatto con Villon e con lo stesso  Georges Brassens che  a Villon ha guardato.
Si ha quasi l'impressione che Fabrizio parli di se stesso "..Biografie lacunose, poco più che pettegolezzi  fortunosamente cuciti da brandelli di storia ti descrivono avventuriero e assassino prima che di te si perda la traccia  e  comunque io ti riconosco poeta della carità, per lo scandalo delle passioni sfrenate , per le risate scomposte a schermare inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e toccano il cuore e la mente di chi ti legge, e ancora e soprattutto per i tuoi lasciti.
Nel tuo testamento è sempre un regalare, anche scherzoso e crudele , qualche cosa a qualcuno , con la sgangherata prodigalità di chi è fuori da ogni casta e non appartiene a niente e nessuno.." .
Villon e Brassens per Fabrizio De Andrè  erano dei veri punti di riferimento, addirittura " dichiarati".
Fu tramite  Brassens che Fabrizio si avvicinò all'anarchia quando aveva circa quattordici anni.
Da anarchico è morto,  dimostrando un grande  rigore e coerenza.
Probabilmente la vicinanza all'anarchia va  interpretata con la costante attenzione avuta per gli ultimi, per le minoranze, per coloro che nella vita  hanno scelto la posizione eretta decidendo di non appartenere a niente e nessuno.
Fabrizio in realtà ha sempre cercato di essere un uomo libero, recidendo il più possibile i legami che la società e la famiglia cerca di importi.
Durante le nostre lunghe chiacchierate eravamo arrivati alla conclusione che la cultura è l'unico strumento che abbiamo per essere liberi .
Ho avuto la fortuna di assistere  alla registrazione della " Fiera della Maddalena" la canzone scritta da Max Manfredi qui presente che per me è la più bella partecipazione realizzata da Fabrizio in un disco di un altro artista.
Mi ricordo che Fabrizio mi telefonò intorno alle sedici, io ero aRoma, mi disse che aveva piacere se lo andavo a trovare al Mulino Recording dove stava registrando. Sono partito in fretta, come i fretta feci la strada, non certo agevole, che da Roma porta ad Acquapendente.
In quella occasione ebbi la conferma della sua professionalità, dell'attenzione dedicata alle cose che realizzava. Era nervoso perché dopo aver inciso la voce avvertiva un calo di tensione del pezzo.
I musicisti presenti, compreso il produttore Edoardo De Angelis, erano della opinione opposta.
Ad un certo punto fece  "Non sono d'accordo, secondo me con l'aggiunta della fisarmonica di  Antonello Salis il pezzo cambia".
Io la pensavo come lui, mi ricordo che  quando il nostro sguardo si incrociò gli feci un cenno di intesa.
Salis  registrò la sua parte ed effettivamente tutto si risolse con lo splendido  risultato che sappiamo.
A QUESTO PUNTO CHIEDE LA PAROLA MAX MANFREDI E DICE:  « Mi  sento chiamato in causa visto che si parla della mia canzone. Fra la voce di Fabrizio e la mia, questo è quello che posso dirvi della vicenda che vi sta raccontando Viva ed è quello che ricordo, ci sono delle inflessioni comuni,o dissi allora a De André: " tu sei più basso , io più baritono; dunque: divarichiamo le voci, tu fai la voce bassa ed io faccio l'ottava alta ".
Fabrizio mi rispose: " quando entra la mia voce mi sembra che entri un pitone ".
C'era effettivamente un ingresso troppo forte di Fabrizio. Fu a quel punto che Fabrizio mandò via il buon Edoardo De Angelis, devo dirlo, con una scusa. Gli disse di andare a comprare dell'erisimo , che è un erba che serve a migliorare la voce.
Dovete sapere che Fabrizio si alzava sempre alle 5 ed in quel momento era in crisi da caffellatte, quando lo aveva diventava gentile.
Quando Edoardo tornò con l'erisimo noi avevamo finito tutto quanto. In sala i ruoli erano molto precisi, questo lo posso dire con cognizione di causa. Io avevo, per esempio, già parlato con De André su chi dovesse fare l'arrangiamento della canzone.
Fu lui a proporre Michele Ascolese. Per me andò bene. Fabrizio ascoltava me ed Ascolese e poi, in forza della sua autorità, mediava il tutto. »
RIPRENDE IL SUO INTERVENTO LUIGI VIVA:
A questo punto vorrei parlarvi di un mio progetto a cui tengo molto e che dovrebbe partire nel prossimo autunno.
Ci sono voluti quasi quattro anni di preparazione e di contatti ma adesso anche grazie al coinvolgimento di Dori Ghezzi dovremmo essere pronti per realizzarlo.
È  una operazione imponente, la prima del genere in Italia: realizzare le partiture integrali di tutta l'opera di De André, vale a dire trascrivere su pentagramma, nelle tonalitàoriginali voce e strumenti di tutte le canzoni di Fabrizio. Così facendo si  raggiungerà lo scopo che mi sono prefisso, ovvero conservare nel tempo, la sua opera .
Avremo così i supporti sonori (dischi,cd) e le partiture che  anticamente erano l'unico mezzo che i musicisti avevano per divulgare e trasmettere la loro opera.
È  ovvio che le partiture in commercio sono partiture parziali e il più delle volte poco precise.
Un'operazione del genere deve essere realizzate con le più ampie professionalità.
Ecco perché ho pensato, perseguendo anche un fine divulgativo e didattico, di concretizzare la mia idea tramite i Conservatori di Musica Italiani.
Saranno proprio gli studenti dei Conservatori a compiere il lavoro di trascrizione che avrà poi più livelli di controllo, quello degli insegnanti e quello del  comitato scientifico ormato dai musicisti e arrangiatori che hanno lavorato  con Fabrizio : Nicola Piovani, Gian Piero  Reverberi, Piero Milesi, Mauro  Pagani, Mark Harris.
Ci tengo a sottolineare l'importanza di una tale operazione effettuata solo ed esclusivamente per rendere omaggio ad un grande della nostra musica e a  conservarne correttamente e più a lungo possibile l'opera..
Per concludere  vorrei prender spunto da quanto ha detto prima Cordì e tornare al mio libro su Fabrizio.
Lo vorrei fare parlando dello scrittore Maurizio Maggiani.
Quando stavo lavorando al mio libro , lessi " Il coraggio del Pettirosso"  con il quale Maggiani ha vinto il premio Campiello.
All'inizio sono presenti tre citazioni: Isaia, Ungaretti e Fabrizio De André.
Parlando con Fabrizio venni a sapere che Maggiani  era uno dei suoi scrittori preferiti.
Pensai così di chiedergli la prefazione della biografia che stavo scrivendo (loro due non si conoscevano personalmente).
Ottenuto il suo assenso ne parlai a  Fabrizio,  e ricordo con quanto entusiasmo accolse la notizia.
Ecco perché anche oggi voglio chiudere il mio intervento leggendo un brano tratto dal libro di Maggiani che può avere molto a che fare con Fabrizio De André ed il suo percorso ed in qualche modo si avvicina all'ultimo capitolo del libro  "Per sempre contro".
Mi auguro che Fabrizio continui a rappresentare questo "  per sempre contro".
Ovvero il suo  andare in " direzione ostinata e contraria.
A QUESTO PUNTO VIVA TERMINA IL SUO INTERVENTO  LEGGENDO UNA PAGINA DEL " IL CORAGGIO DEL PETTIROSSO" DI MAURIZIO MAGGIANI (FELTRINELLI,1995):" Noi si è pettirossi , Saverio.".Iniziava sempre così, bisbigliandomi dalla sua altitudine questa constatazione che a  me suonava insieme misteriosa ed esaltante, non avendo mai visto un pettirosso e immaginandomelo come un uccello meraviglioso.
"Noi libertari si è pettirossi, coraggiosi come quell'uccellino di tanto tempo fa che volle andare dal falchetto.
Vuoi che la conto ancora?". Non aspettava mai che io gli dicessi di si.
"Allora, c'era questo pettirosso,piccolo che lo tenevi nel pugno della mano, ma con le sue idee che nessuno riusciva a togliergliele dal capo.
Voleva volare in qua e in là a vedere ilo mondo, becchettare dove c'era da  sfamarsi, e non gli piaceva per nulla che gli avessero assegnato il suo posticino e morta lì.
Così che un giorno  prese il coraggio a quattro mani e si presentò dal signor falchetto , il re degli uccelli del bosco.
Vorrei il permesso, signoria, di andare un po' dove mi pare, tanto non darei fastidio a nessuno, piccolino come sono-.
Così gli disse, e intanto gli tremavano tutte le penne.
Il falchetto s'adombrò immediatamente e fece la voce grossa:- Questa è una faccenda che non mi piace per nulla.
Tu devi mettere la testa a posto e non star a  disturbare con le tue pretese.
Fila via o chiamo le gazze-. E nel dirgli questo, senza neppure farci caso, gli diede  una  zampata che gli artigliò a sangue un'ala.
L'aveva pagata cara quell'uccelletto la sua smania di libertà.
Ma testardo com'era, in due o tre giorni era di nuovo in aria a volare. Certo, alla bell'è meglio, che arrancava dietro alla sua aluccia offesa tutto di sghimbescio.
Sembrava diventato un pagliaccio tanto era buffo come si era ingegnato di volare con un'ala sola. E tutti gli uccelli giù a ridere.
E ridevano a crepapelle anche il signor falchetto e le sue gazze.
Così che dal gran ridere nessuno si accorgeva che a ogni giorno che passava il pettirosso volava sempre un po' più in alto e un po' più in là del posto che gli avevano assegnato.
E il giorno che il falchetto se n'è accorto, il pettirosso oramai volava così in su che dall'alto prese a bombardare sul capo il re degli uccelli a colpi di cacatine."
Credo che sia tutta qui la documentazione che mi rimane dell'educazione politica e morale che mio padre mi ha impartito.
C'eravamo noi, pettirossi libertari, e c'era l'anarchia.
Zia Anarchia era lontana, ma i suoi benefici  influssi mi avrebbero fatto migliore, più coraggioso e più bello, diverso dalla massa dei servi che non osavano alzare la testa.
La seconda giornata è stata aperta dai saluti di Gianni Aiello che ha anche fatto un resoconto sulla prima edizione della manifestazione tenuta in riva allo Stretto.
A seguire, è arrivato la relazione di Gianfranco Cordì, responsabile della sezione “cinema” del circolo L’Agorà. Dopo i ringraziamenti, d’obbligo, a quegli enti e persone che hanno dato una mano per la riuscita della manifestazione, Cordì, polemicamente, ha posto l’accento anche su quelle persone che non hanno aiutato il sodalizio organizzatore. In particolare un politico locale, che non è stato menzionato.
La relazione di Cordì ha avuto come tema la biografia dei primi 12 anni di vita del cantautore genovese. Alle dodici in punto, del 18 febbraio del 1940 in quel di Genova, nasceva Fabrizio Cristiano De Andrè, dal professor Giuseppe e dalla signora Luigia Amerio.
Ad accompagnare questo lieto evento, quasi fosse un richiamo per l’avvenire del nascituro, c’erano le note del Valzer campestre di Gino Marinuzzi.
La famiglia De Andrè si deve trasferire, nella primavera del 1941 ( in piena guerra ) nell’Astigiano: e precisamente a Revignano d’Asti. In una cascina ( la Cascina dell’Orto ) il giovane Fabrizio passa i suoi primi anni. A contatto con mucche, pecore, cavalli, cani ed oche. Questa è la sua prima educazione.
Questa è la caratteristica fondamentale dei suoi primi anni di vita: ciò che foggerà in maniera indelebile il suo carattere.
Se è vero, che in anni più lontani, dichiarerà di essere solamente
Lui un agricoltore che ogni tanto canta qualche canzone. Fabrizio nasce con già, al mondo, un fratello: Mauro ( che diventerà un avvocato importante ). Mauro è un bambino maturo e studioso. Faber invece no.
L’orrore della guerra incombe sulla famiglia De Andrè. Il professore è costretto a darsi alla macchia.
Uno zio materno ( Francesco Amerio ) viene deportato a Mannheim. Rirnerà a guerra finita con le facoltà cerebrali ormai precarie. Faber è sempre in compagnia del fattore Emilio.
Con lui conosce tutti i segreti dei campi, le rotazioni delle colture, la cura delle bestie.
La guerra finisce. E nel settembre del 1945: la famiglia De Andrè ritorna a Genova.
La partenza per Faber è molto triste. Il ricordo degli anni passati nell’Astigiano lo accompagnerà, da allora, per sempre.
Fabrizio entra in una banda giovanile.
Si tratta della banda di Via Piave.
Compiono atti al limite della legalità, ma soprattutto si divertono e iniziano ad irridere la società dei benpensanti.
Compagni d’avventura di Faber: sono Tiraoro e Durante.
Fabrizio passa tutto il suo tempo per strada con gli amici. Conosce così la realtà della vita genovese. Fonda un asilo di gatti randagi, crea un piccolo zoo nel terrazzo di casa sua, fa la pulizia delle colombaie.
La  passione per gli animali è sempre presente.
Conosce anche Paolo Villaggio.
Inizia un’amicizia che durerà tutta la vita e che fornirà anche alla storia della canzone due testi ( scritti assieme ): Il fannullone e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers.
Fabrizio comincia anche ad appassionarsi della musica: nel 1948 comincia a studiare il violino.
Poi , sotto la guida di un chitarrista colombiano ( Alex Giraldo ) passa alla chitarra.
Presto esordirà, a suonare in pubblico.
Dunque, conclude Cordì il suo intervento, due sembrano le direttrici del carattere del giovane Fabrizio ( alla luce dei suoi primi anni di vita ): la passione per l’agricoltura e lo spirito
anarchico.
Fabrizio ama la terra e i suoi frutti e si lega d’amicizia a compagni che non appartengono alla sua classe sociale.
Impara a comprendere che la società della Genova bene è una società che non va bene.
Egli che pur proviene da essa ne diventa il tafano posto sulle spalle: colui che la pungolerà sempre.
Secondo questa doppia via si svilupperà il carattere dell’uomo Fabrizio De Andrè, che rimarrà dentro di se sempre un’agricoltore ( la tenuta da lui acquistata in Portobello di Gallura ne è l’estrema riprova ) e sempre uno spirito libero: se è vero che come cappello al suo album Le nuvole porrà una frase del pirata Samuel Bellamy che suona così: “… Io sono un principe libero / e ho altrettanta autorità di fare guerra /al mondo intero quanto colui /che ha cento navi in mare “. 
Gianfranco Molinaro ha trattato il tema: "La donna nella poetica di Fabrizio De Andrè" e nello specifico ha indirizzato la relazione sulle figure della madre, la prostituta, l'amante, la morte.
Le immagini materne sono numerose e tra loro molto differenti: la madre-sposa ("Marcia Nuziale") che corona il suo sogno dopo tanti anni di convivenza e che è consolata, per il brutto temporale, dal figlio già grande che suona per lei l'armonica.
È la stessa madre che possiede un mulino, che cucina  per il figlio la torta di mele e che  è nata ridendo ("Volta la carta"); è la stessa madre che ha insegnato al figlio carcerato come si deve fare un buon caffè ("Don Raffaè"). Talvolta la madre  solo invocata, come nel "Cantico dei drogati" ( "... come potrò dire a mia madre che ho paura? ... ") o semplicemente ricordata per i suoi ammonimenti ("... Mia madre mi disse: non devi giocare con gli  zingari nel bosco ..."), "Sally"; talaltra è madre impari al suo compito, come quella che adora crogiolarsi nel suo masochismo (" ... il martirio è il suo mestiere, la sua vanità") "Al  ballo mascherato", o come Madamadorè, che "ha perso sei figlie/tra il bar del porto" .
Ma questi  personaggi sono piuttosto accidenti secondari e rari, poiché in realtà la madre,  per De  Andrè, è innanzitutto una figura austera e dolente; non è una madre, è la madre, colei che dà tutta se stessa al figlio, che si è compiuta nel figlio, colei per la quale la maternità è.
Sorge allora, potentissimo nella sua infinita dolcezza e nella sua sconfinata sofferenza, il simbolo della Madre che in sè riassume tutte le dolorose virtù di ogni madre.
Le pagine del Vangelo hanno lasciato in De Andrè tracce profonde; egli vi scorge costantemente i segni di  una vicenda umana che pur contiene  il mistero del riscatto metafisico che profondamente lo affascina e lo avvince, e che lo induce a cantare (con dolente partecipazione) la tragica storia di un uomo crocefisso e quella - forse più tragica- di sua madre Maria.
Parecchie volte Maria è ricordata in diverse canzoni: "Si chiamava Gesù" , "Ave Maria", Maria è la protagonista di "La buona novella"; la sua avventura umana è cantata dalla prima infanzia sino ai piedi della croce: Maria bambina, condotta al tempio a tre anni "L'infanzia di Maria" : Maria che rivive l'Annunciazione "Il sogno di Maria";
Maria che diventa l'emblema  di tutte le donne (di tutte le madri), che De Andrè comprende e insieme compiange  "Ave Maria".
È notte, e Maria viene svegliata da un rumore assordante, inquietante, che proviene dalla bottega del falegname ("Maria nella bottega del falegname)";
Sotto la croce, s'intrecciano le  voci di tre madri; accanto a Maria, infatti, piangono la morte del figlio anche le madri dei due ladroni, Dimaco e Tito ("Tre madri") .
Per Maria, Gesù non è (o poco le importa che sia) "nostro Signore"; per Maria, Gesù è il figlio ("figlio  nel sangue, figlio nel cuore" dice); e quel rimpianto  finale ("non fossi stato il figlio di Dio/t'avrei ancora  per figlio mio"), rimpianto che sfiora quasi un  pensiero blasfemo ed è l'unico istante di rivolta di Maria al suo destino metafisico.
Tale istante segna il primato del destino di madre, al di sopra di  ogni fede e di ogni obbedienza, destino intriso di carne, di sangue, d'amore; davvero siamo in presenza della sintesi di ogni madre.
Al capo opposto della presenza materna, eppure da lei non sempre totalmente diversa, si situa un'altra figura, più sfaccettata e  inquietante, ma egualmente cara a De Andrè: la prostituta.
Anche per lei, "creatura  che si guadagna il pane da nuda", le parole scelte a rappresentarla sono sempre lievi, talvolta ricolme di dolente pietà, talaltra sorridenti, rispettose sempre.
Certo, De Andrè è capace di creare una grande varietà di tipi nel campionario della donna-prostituta: c'è "Bocca di rosa" che fa l'amore per vocazione, c'è la grande puttana scambiata dal re Carlo  Martello per virtuosa pulzella ("Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers"), c'è l'ingenua fanciulla, che ancora crede a Babbo Natale, trasformata in una dea bellissima dea cinica e infelice ("Leggenda di Natale").
Ancora c'è la cortigiana di lusso che, ormai vecchia, è ridotta a vendere immaginette sacre all'angolo della chiesa ("Il  testamento"), e c'è la prostituta bambina, ancora priva di esperienza ma pronta a imparare; c'è quella che pronuncia i fatidici ( "... micio, bello e bamboccione ..." )"La città vecchia" e quell'altra che inganna un vecchio, per derubarlo assieme al suo complice-protettore "Delitto di paese" . Mai per De Andrè la prostituta è veramente colpevole; la colpa, semmai, è dalla parte di chi profitta dei suoi servigi: così è per Maggie (" ... uccisa in un bordello/dalle carezze di un animale ...") "Dormono sulla collina", così è per Nancy,  che nel suo suicidio ha cercato il rimedio  alla insopportabile solitudine.
Di per sè, la prostituta è donna generosa, che sa dare senza chiedere; in lei si riuniscono figure, che anche questa volta  si coagulano nell'immagine mitica della prostituta: non è forse sempre pronta all'amore? Non è forse sempre malinconicamente afflitta da una profonda nostalgia di  innocenza? Non è forse sempre illusa, che in fondo sogna ancora l'amore?
Nella prostituta di De Andrè si riuniscono la patetica povertà, la sfolgorante e malinconica bellezza (magari scaltrita da qualche civetteria) e l'ingenuità miracolosa della bambina, come avviene nella stupenda figura tratteggiata nella celebre canzone di "Via del Campo".
Graziosa, bambina, puttana: questa è la prostituta di De Andrè, il quale chiude la canzone a lei dedicata con le notissime parole (" ... dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior ...") .
E i fiori nati dal letame, oltre alla prostituta, sono le numerose figure di donna che popolano gli spazi dell'emarginazione, così frequenti nel canzoniere di De Andrè: sono gli indimenticabili personaggi di Sally, la zingara con il tamburello, di Pilar, la ragazza drogata e assassinata "Sally", di Princesa, amara figura di transessuale ( "Princesa"); sono le giovani spose rom, che vanno a mendicare ("... con le vene celesti ai polsi...") "Korakanè"; è Maddalena, compagna del fuggiasco in terre messicane ("Avventura a Durango") ed è Franziska, la promessa sposa del bandito eternamente in attesa, eternamente sola, sulla quale nessun uomo può posare gli occhi, pena la vendetta ("Franziska"); è Suzanne infine, Suzanne, la pazza incantevole, adorna di ("... stracci e piume/presi in qualche dormitorio ..."): silenziosa e dolcissima, Suzanne la pazza sa far conoscere l'amore, un amore libero e armonioso, anche questa volta tra spazzatura e fiori ("Suzanne") .
La donna-amante è senza dubbio quella che  ovunque domina incontrastata e conosce sfumature davvero innumerevoli, sia per quanto riguarda le situazioni, sia per quanto riguarda i sentimenti.
V'è innanzitutto la donna che ha fatto scelta di libero amore; nulla ha a che vedere con la gioia  come allegria.
È il caso di Barbara, la cui bocca sa di fragola e miele, che  "gioca all'amore" con tanti amori diversi ( "La  canzone di Barbara").
È il caso della deliziosa e minutissima bagnante di Brassens che emerge dall'acqua della chiara fontana ( "Nell'acqua della chiara fontana").
È il caso dell'allegra Angiolina , prima che la sua vicenda finisca nella gioia del  matrimonio ("Volta la carta" ).
Ma l'amore a lieto  fine, benchè non sia del tutto assente, è caso raro nelle canzoni di De Andrè.
Di solito la vicenda amorosa è tormentata, e quasi fatalmente destinata a finire.
Egli ricorda innanzitutto l'incapacità dell'amore a cambiare le persone e l'ipocrisia che finisce col governare ogni rapporto ("Verranno a chiederti del nostro amore") .
Certo, quella ipocrisia che cerca  di dare ai rapporti una illusoria dimensione di perennità è ancora una forma d'amore, ma di un amore  che disperatamente si cerca di conservare, e che invece è ormai finito ("Canzone dell'amore perduto").
Ma in quel rimpianto ineludibile è da ravvisare un sentimento che non può essere totalmente cancellato. ("... ma se ti dico che non t'amo più/sono sicuro di  non dire il vero ...") "E fu la notte" . ("... ma tu che vai, ma tu  rimani ... ma tu che stai, perchè rimani?") "Inverno".
Insomma: quello dell'amore è uno stato incerto, fuggevole, contraddittorio: (" ... io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai ...") "Amore che vieni, amore che vai" .
E non bastano a De Andrè le parole che egli stesso sa inventare  per cantare l'amore incerto, per cantare la donna amante: egli unisce  talvolta le sue  parole a quelle dei poeti e canta con loro l'amore che fugge, il tempo che scappa, come in "Valzer per un amore" , dove De Andrè riscrive Pierre de Rosard.
Ma un altro grande poeta ha inspirato De Andrè, tramite Georges Brassens.  Charles Baudelaire nella raccolta  "Le Fleurs du mal" ha incluso una poesia dedicata a "une passante".
Brassens e De Andrè moltiplicano la passante di Baudelaire in tutte le possibili passanti, in tutte le donne scorte un istante e perdute per sempre ("Le passanti").
Ancora Baudelaire si può ritrovare nella "Ballata dell'amore cieco".
Ritroviamo in questa ferocissima donna i tratti fiammeggianti della femme fatale, la donna fatale, cioè della donna-idolo, spietata e bellissima, fredda e crudele, assetata di sangue, assetata di morte.
Il fascino della femme fatale (e  di Baudelaire) lascia il segno anche su un'altra canzone ( "Per i tuoi larghi occhi"); essa narra di un amore finito, eppure possessivo. Siamo ancora in presenza di una donna gelida e crudele, in cui ("...batte un cuore di neve...") i cui occhi ("... non piangono mai ...").
Per De Andrè, anche quando non c'è ritorno, resta comunque  un vuoto che non è possibile colmare: ("... ma dove, dov'è finito il tuo amore ...") "Hotel Supramonte" .
La morte Nei dieci anni dal 1961 al 1971, si registra l'esplodere della vena creativa di Fabrizio De Andrè.
Insistito e modulato,  secondo un vasto spettro di registri diversi, era il tema della morte.
Suicidi, impiccati, annegati, ammazzati, spesso innamorati affollano le canzoni di De Andrè.
"Scandaloso" oltre al tema era il modo di parlarne: una morte senza elaborazione del dolore, senza conforti religiosi e senza lutto, senza vertigini esistenzialistiche o decadentismi poetici (ma con qualche sotterraneo rimando a Cesare Pavese e forse anche a Umberto Saba e a Federico Garcìa Lorca), una morte ostentata e  virile e anche talvolta rancorosa, scarna e contenta, luminosa non notturna, quasi si direbbe ottimista, ridente e irridente, nella serena disperazione di una danza macabra.
La morte era pure, qualche volta, la morte in guerra, forse la più assurda umanamente, benchè storicamente indistruttibile.
Le canzoni di Fabrizio De Andrè ponevano una questione allora molto sentita specialmente a livello giovanile ma anche tra intellettuali come Bertand Russel o Jean Paul Sartre: pacifismo e critica al bellicismo, incitamento all'obiezione di coscienza e ironia amara sulla retorica dell'eroismo militare.
A conclusione  della relazione di Gianfranco Molinaro , Gianni Aiello, dopo aver dato lettura del documento inviato dalla Fondazione Fabrizio De Andrè a nome del Presidente Dori Ghezzi che ha manifestato vivo compiacimento "per il consenso con il quale essa è stata accolta dai giovani artisti, stimolati a manifestare la loro creatività cimentandosi con opere ispirate alle canzoni di Fabrizio" , ha premiato i partecipanti Maria Vadalà e Valentina Albanese del Liceo Artistico "Mattia Preti", Sergio Pennavaria, Luana Romeo e Valerio Conforti dell'Accademia di Belle Arti .
Si conclude, quindi, nel migliore dei modi la prima edizione ed un ringraziamento  particolare va al Comune di Genova ed  al suo primo cittadino prof. Giuseppe Pericu per l'alto spessore culturale  con il quale ha voluto sostenere la manifestazione, alla Fondazione "Fabrizio De Andrè", a Guido Harari che ha  permesso di inserire  una sua foto sulle locandine, al Consiglio Regionale della Calabria, alle Amministrazioni Provinciale e Comunale di Reggio e all'Ufficio Scolastico Regionale che hanno avuto il merito e la sensibilità di incoraggiare  l'incontro.

ShinyStat
12,19 giugno 2004
... hanno detto ...