
[…  questo mare  è pieno di voci, questo  cielo è pieno di visioni ... questo è il luogo sacro dove le onde greche  vengono a cercare le latine ...]: questo è quanto si legge, anche se a  fatica su una vecchia stele attempata ed i cui segni di decadenza, anche per  l'incuria dell'uomo, è un alto momento letterario a firma di Giovanni Pascoli.
    Queste le sue sensazioni nell'ammirare questo  tratto di mare facente parte di un contenitore, non solo geografico ma anche  storico, quello che definivano gli antichi romani “Mare nostrum”, quindi  il sottotitolo della manifestazione “Popoli e culture del Mediterraneo” che ben  si abbina con la sede
    istituzionale  che a sua volta  è testimone e luogo di  memoria di altre culture.
    Prima di  cominciare i lavori ha preso la parola al dott. Giacomo Oliva  ( in rappresentanza del Museo della Magna  Grecia ) che ha dichiarato: « vi porgo i saluti a mio nome ed a nome della  dottoressa Lattanzi che è impegnata in altra sede e non ha potuto intervenire.  Personalmente: io sono lusingato di presenziare a questo convegno. Non pensate  che sia strano che all’interno di un Museo archeologico si svolgano questo  genere di manifestazioni. Tutto questo tipo di eventi sono collegati fra di  loro: dell’arte ogni cosa è legata all’altra. Noi, come Museo, siamo invitati  dal Ministero stesso, del resto, a promuovere proprio questo genere di  iniziative. Infatti la dicitura stessa del Ministero parla chiaro, non è più “  Ministero dei beni culturali “ ma è “ Ministero per i beni e le attività  culturali ».
    Uno  scenario, quello di Palazzo Piacentini - Museo della Magna Grecia “guardiano”  delle antiche culture del Mediterraneo, testimonianze di un glorioso passato,  ben custodite e che non si trovano per caso -   come qualcuno ha avuto modo di dire, dall'alto della sua carica  istituzionale , ha ospitato per una settimana una  manifestazione, caratterizzata da due  incontri e da un'interessante mostra, inerente il cantautore di quel bacino di  mare, appunto il Mediterraneo,del quale   è stato cantore giusto Fabrizio De André.
    Da qui  nasce il sottotitolo “Popoli e Culture nel Mediterraneo”;  unendo Reggio e Genova in un percorso che  non  è solo storico-culturale ma anche  umano e sociale. 
    Da questi  elementi Gianni Aiello ha preso spunto per il sottotitolo della manifestazione,  per l'appunto "Popoli e culture nel Mediterraneo" e  nello specifico titolo alla sua relazione,  dove ha evidenziato i parallelismi storici tra le  due città, Genova e Reggio ed i  testi di Fabrizio De André dove si intrecciano  aspetti ricchi di riferimenti culturali, di leggende, miti.
    E proprio  da questi elementi il relatore ha voluto iniziare il suo intervento sulle note  musicali "ideali"   di  "Sidun" che secondo lo stesso Gianni Aiello rappresentano al meglio  quel Mediterraneo "contenitore di   diverse culture" fonte d'ispirazione di Fabrizio De André  "  
    I primi  abitatori delle  due città ( Genova e  Reggio ) provenivano dal mare : essi, forse erano degli esuli, oppure li  spingevano  motivi commerciali. 
    Approdarono  sul nuovo sito per fondare un'altra area   che aveva similitudini con il luogo natio. 
    I primi  abitatori di razza ligure, fin dal VII secolo furono in relazione con i Greci,  poi con  Etruschi e  Cartaginesi. Dagli stessi presero costumi e  tradizioni.  Genova città può dirsi  quindi fondata, o per lo meno fiorente, nella stessa epoca in cui fiorirono le  altre città greche del Mediterraneo (Marsiglia, Piombino) e le altre città  etrusche (Luni, Pisa) ed idealmente percorrendo il territorio peninsulare  Sibari, Locri, Reggio, Crotone,  Zancle,  od altre realtà che non esistono più, “ ... le città morte ...”  descritte da Giovanni Pascoli, quindi un altro elemento di  continuità sia nella relazione che nel  sottotitolo della giornata di studi dedicata allo scomparso Fabrizio De André.
    Il  percorso storico di Gianni Aiello continua intrecciandosi con i versi poetici  delle canzoni del cantautore scomparso: popolazioni venute dal mare e qui il  parallelismo con “Creuza de Mà”, la canzone scritta in genovese ("Umbre  de muri muri de mainè, dunde ne vegnì duve l'è ch'anè" - "Ombre  di facce, facce di marinai, da dove venite dov'è che andate").  
    Si  continua a sfogliare le pagine di storia delle due città ed i loro destini: le  guerre puniche, le due città che diventano Municipio romano, le posizioni  strategiche delle stesse. 
    Le lotte  contro i pirati, e qui entra in causa "Sidun" che parla di popoli in  catene, di sangue, massacri; il destino dei popoli che si sono affacciati nel  bacino del Mediterraneo " ... e i euggi di surdatti  chen arraggë cu'a scciûmma a bucca cacciuèi  de baë a scurrï a gente cumme selvaggin-a finch'u sangue sarvaegu nu gh'à  smurtau a què e doppu u feru in gua i feri d'ä prixùn e 'nte ferie a semensa  velenusa d'ä depurtaziùn ... ( ... e gli occhi dei soldati cani arrabiati  con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli a inseguire la gente come  selvaggina finchè il sangue selvatico non gli ha 
    spento la  voglia e dopo il ferro in gola i ferri della prigione e nelle ferite il seme  velenoso della deportazione ..."
    Le leggende  del "Mare Nostrum", i sogni, i carrugi ed i gatti a cui De André era  affezionato, la poesia di Giovanni   Pascoli ( ormai attempato negli anni, seduto sul lungomare di Reggio che  scriveva " … questo mare  è pieno di  voci, questo cielo è pieno di visioni … questo è il luogo sacro dove le onde  greche vengono a cercare le latine … "): tutto sembra collegarsi in un  unica grande ispirazione poetica.
    Scorrono  le pagine della storia, nella relazione, attraverso la lotta contro i  pirati,  le Crociate, la guerra fra  Aragonesi ed Angioini, l'epopea cavalleresca "Fila la lana", dove (... cavalieri che in battaglia ignorate la paura stretta sia la vostra maglia  ben temprata l'armatura ...),   "Carlo Martello 
    ritorna  dalla battaglia di Poitiers", dove il a sua terra cingendolo d'allor al  sol della calda primavera lampeggia l'armatura del sire vincitor il sangue del  Principe e del Moro arrossano il cimiero d'identico color ...) , liriche che si  possono accostare a "La chanson d'Aspromont" per personaggi, aspetti  storici e letterali.
  "Il  re fa rullare i tamburi"... «La data del 12 ottobre 1492:  … scoperta o invasione del nuovo continente,  dipende da quale punto di vista della barricata si guarda - dice il relatore -  : "Rimini" (... e dalla sua  portantina lei gli toglie le manette ai polsi gli rimbocca le lenzuola  "Per un triste Re Cattolico - le dice - ho inventato un regno e lui lo ha  macellato su di una croce di legno. E due errori ho commesso abortire l'America  e poi guardarla con dolcezza ma voi che siete uomini sotto il vento e le vele  non regalate terre promesse a chi non le mantiene ") ed in  quell'equipaggio c'erano un genovese, l'ammiraglio Colombo ed un reggino Anton  Calabres .
    Altri  elementi di continuità: le lotte franco-spagnole , la battaglia di Lepanto, San  Giorgio, la resistenza,nella quale dei reggini combatterono per le via di  Genova, per un ideale, perdendo la vita ».
    È stata  poi la volta di Gianfranco Cordì, responsabile della sezione "cinema"  dello stesso sodalizio che ha tenuto una relazione avente per tema  "L'attenzione per i deboli e il problema del disco in Fabrizio De  André".
    Due sono  le cifre che emergono chiaramente ad un ascolto attento dell’intera opera del  cantautore genovese Fabrizio De André. 
    L’artista,  spentosi a soli 59 anni in quel di Milano l’11 gennaio 1999 ha lasciato, come si  sa, una profonda impronta nel panorama ( non solo ) musicale italiano. 
    La sua  produzione è incentrata primariamente, dal punto di vista dei contenuti, su di  una tematica abbastanza ricorrente e ben strutturata: l’attenzione per gli  emarginati della cosiddetta moderna società del benessere. 
    Questa è  la prima riconoscibile cifra di cui si diceva. De André, con la sua stessa  vita, stava del resto a confermare questo assunto in maniera del tutto  paradigmatica.  
    Figlio  della Genova bene ( suo padre Giuseppe era, tra l’altro, amministratore  delegato dell’industria dello zucchero Eridania nonché fondatore della Fiera di  Genova ) aveva condotto, fin dai suoi primi anni, un’esistenza che si era  rivelata il perfetto contrario della sua provenienza. Amante delle bettole e  della strada tout court ( i carrugi genovesi da lui poi cantati in  canzoni come Via del campo e La città vecchia ), dedito alle zingarate in  compagnia anche di Paolo Villaggio fra gli altri, cliente assiduo di  prostitute, gran bevitore, ed infine cantante: più che per vera vocazione, per  non sapere in fin dei conti fare nient’altro nella vita. 
    Questa  esistenza bohemien ha finito per essere tutta travasata in questo modo  nei suoi testi. Pullulano infatti le sue canzoni di professioniste ( la  Marinella scaraventata nel Tanaro dopo essere stata derubata, protagonista  della omonima canzone del 1964  ne è solo  un esempio), di poveri cristi senz’arte  ne parte, di tipi strani che per tremila lire hanno venduto le loro madri ad un  nano, di viados ( Princesa dell’album Anime salve, scritto tutto in  collaborazione con Ivano Fossati nel 1996),  di Cenerentole (Via della povertà tratta dall’album Canzoni del 1974, libera  traduzione  con De Gregori di Desolation  row di Bob Dylan), e così via. 
    Questa  cifra lo caratterizza dunque pienamente. 
    Sempre  dalla parte di chi è rifiutato dallo show-bussines ( da quella bottiglia di  orzata su cui galleggia Milano, di cui scriverà, descrivendo alla sua maniera  in questo caso i tremendi anni ’80 italiani, anni in cui come dirà Mauro Pagani  per poter cantare le tue canzoni dovevi vestirti da marziano e alzare le mani  con gli indici al cielo come un imbecille, a questo proposito nella canzone La  domenica delle salme ) , di chi soffre, di chi non ci sta, finirà per dedicare  pure un intero disco nientemeno che alla figura di Gesù Cristo.  
    Che pure  gli è lontanissima per formazione ed anche per idea.  
    Il disco  sarà La buona novella ( 1970); e quel Gesù che Faber finirà per cantare in fin  dei conti ( come affermerà un suo amico contrabbandiere dell’angiporto di  Genova ) sarà semplicemente un bravo figliolo. 
    Apocrifo,  come i Vangeli da cui prenderà spunto per l’intero disco ( quelli di De André  sono tutti dei concept-album: per la prima volta in Italia un intero disco è  dedicato a sviluppare un’unica tematica; questa è una delle grandi innovazioni  a livello musicale del suo lavoro ), il suo Gesù è un altro di quei son pur  sempre figli  che De André non ha fatto  altro che cantare per tutta quanta la sua vita. 
    E questo  amore per i sofferenti lo porterà a scrivere l’epigrafe alla sua opera in  quella che è proprio l’ultima traccia da lui lasciata su disco: la canzone  Smisurata preghiera. 
    Che  conclude il lavoro Anime salve. 
    In questa  canzone ad un certo punto, infatti, De André dice di volere cantare per chi  viaggia in direzione ostinata e contraria / col suo marchio speciale, di  speciale disperazione... Più esplicito  e  definitivo di così. 
    Il suo  flirt personalissimo e particolare con l’anarchia non è che un pendant,  probabilmente di poco conto, a  tutto  questo. 
    E poi c’è  la seconda cifra del suo lavoro. 
    Da sempre  i cantautori italiani hanno avvertito come un problema il rapporto che lega,  indissolubilmente, il prodotto- disco con il proprio pubblico. 
    E ne  hanno fatto musica. 
    (Paradigmatico  è il caso di Roberto Vecchioni che a quelli lì, intesi come i discografici che  ad ogni alba arrivavano a frotte per chiedergli i quotidiani venti chili di  riso, e cioè: la canzone commerciale che più commerciale non si può, a quelli  lì l’artista lombardo ha dedicato più di una delle sue canzoni; fra le tante  anche Pani e pesci tratta dal disco Elisir del 1976, in cui  sull’argomento ironicamente in questo modo chiosa: viviamo per il pubblico ma  ci chiamiamo Pietro/ in cime alle classifiche ci  rivogliamo indietro ). 
    I  cantautori hanno avvertito dunque in maniera pressante il problema del disco.  Di un opera d’arte ( o dell’ingegno come diceva De André) che diventa merce. 
    E più di  ogni altra opera dell’ingegno. Più di un libro, più di una piece teatrale, più  di un quadro. Nel mondo della musica sono quelli lì a decidere il bene ed il  male; nel mondo della musica: c’è il mercato che domina incontrastato, c’è la  legge della domanda e dell’offerta. 
    De André  espone il suo punto di vista su queste tematiche, ora in maniera più velata ora  in maniera più evidente, in diverse canzoni. Due sono quelle che ci sembrano  stigmatizzare meglio il problema. 
    La prima,  ed entriamo subito in medias res, è quella dedicata alla scomparsa del  collega Luigi Tenco. 
    Avvenuta  in quel di Sanremo ( dove, scriverà De Gregori in Festival tratta dal disco  Bufalo Bill del 1976, subito dopo il momento in cui si fu consumata la  tragedia: l’inviato della pagina musicale/ scrisse tutto è stato pagato). Il  27  gennaio 1967 in pieno Festival,  appunto, nella Città dei Fiori Tenco si toglie la vita. 
    Si diceva  che stiamo entrando subito in medias res riguardo al nostro discorso:  perché Tenco lascerà un biglietto nel quale dirà che si è ucciso perché la sua  canzone non è entrata in finale dove invece, al suo posto, ci sarà nientemeno  che Orietta Berti con il suo pezzo. 
    Questo  era il mondo del disco che trionfava a Sanremo e per il quale Tenco perse la  vita. De André la notte successiva al momento in cui apprende la notizia della  morte dell’amico compone la sua Preghiera in gennaio ( poi compresa nel disco  Volume 1 del 1967) nella quale ad un certo punto dirà fate che a Voi ritorni/  fra i morti per oltraggio/ che al cielo   ed alla terra/ mostrarono il coraggio. Tenco, dunque uno dei morti per  oltraggio. Ecco cosa pensa De Andrè del mondo del disco nel 1969. 
    Ed è  quanto ribadirà in maniera più poetica e larvata anche due anni dopo, nel 1971;  ma il tempo non è tanto importante in questo caso. Contano le parole. 
    Uscì in  quell’anno il disco Non al denaro, non all’amore né al cielo che conteneva fra  le altre canzoni anche Il suonatore Jones. 
    Tutto il  disco era in realtà una rilettura dell’ Antologia di Spoon River di Edgard Lee  Masters ( e Fernanda Pivano, la celebre studiosa della letteratura americana,  ebbe a dichiarare a proposito di questa rilettura di De Andrè delle poesie di  Masters io sono contenta dei suoi cambiamenti e mi pare che lui abbia molto  migliorato le poesie.
    Sono  molto più belle quelle di Fabrizio, ci tengo a sottolinearlo…) ma questa  canzone in particolare esprimeva quello che De André sinceramente pensava del  problema del disco ( che aveva ucciso Tenco e che avrebbe stritolato più di un  grande artista negli anni che sarebbero successivamente venuti ). 
    In  particolare quando De André dice: e poi se la gente sa/ e la gente lo sa che  sai suonare/ suonare ti tocca/ per tutta la vita/ e ti piace lasciarti  ascoltare. 
    Dunque al  suonatore piace lasciarsi ascoltare suonare; questo è un dato di fatto; ma pesa  come un macigno la sentenza contenuta nei versi di mezzo della quartina su  riportata suonare ti tocca per tutta la vita. 
    Magari  la stessa canzone. I deboli ed il disco. 
    De André  può essere racchiuso tutto in questa diade. Non è certo soltanto questa  l’esperienza principalmente umana e secondariamente professionale dell’artista  genovese. 
    Uomo  schivo, sempre lontano dai riflettori (il primo tour che lo vide protagonista  avvenne soltanto nel 1975 dopo una carriera quasi ventennale alle spalle; e  quello fu  un tour che partì dalla  Bussola di Viareggio di Sergio Bernardini e con l’accompagnamento dei genovesi  New Trolls; sotto gli occhi attenti dell’amico regista Marco Ferreri; il quale  aveva studiato da veterinario e che perciò conterà i battiti del polso allo  stesso De André prima dell’esibizione, dicendogli che sì, quella sera può  suonare…), geloso del suo privato, impegnato   ma pur sempre un’artista: De André è stato tutto questo è molto altro ancora. 
    L’epitome  migliore per descriverlo la lasceremo, ancora una volta, alle sue stesse parole  ( dalla canzone Amico Fragile contenuta nel disco Volume 8 scritto a quattro  mani con Francesco de Gregori nel 1975 ); così in contrapposizione ai quattro  parvenu arricchiti incontrati ad una festa di Portobello di Gallura e che non  vogliono parlare con lui di quello che sta succedendo in Italia come  vagheggerebbe De André ma alla stregua di un ranocchio ammaestrato per il  salto, visto che lui suona ed è famoso magari anche più di loro, desiderano soltanto  sentirlo suonare arriva a delinearsi in una strofa assai significativa il  cattivo Faber: perché già dalla prima trincea/ ero più curioso di voi/ ero  molto più curioso di voi. 
    Subito  dopo la fine dell’intervento di Cordì, il presidente del sodalizio organizzatore,  Gianni Aiello, ha consegnato nelle mani di Max Manfredi (nella sua veste di “  delegato” del Comune di Genova) una targa appositamente fatta preparare per il  sindaco di Genova, Pericu volendo esprimere così la riconoscenza per l’apporto  da egli fornito all’organizzazione.
    Ha preso  quindi la parola Max Manfredi (Cantautore, la cui canzone “ La fiera della  Maddalena “ cantata a due voci con Fabrizio De André, che ha dichiarato: « Io  questa sera qui a Reggio Calabria vengo nella veste di “ delegato” del Comune  di Genova. Questa cosa mi preoccupa non poco, io credetemi sono una persona  molto poco rassicurante. Però è anche vero che questa mia veste mi fa piacere. 
    Vorrei, a  questo proposito, osservare che le istituzioni spesso si accorgono delle cose  che succedono con un certo ritardo; in questo caso invece: sembrano essersi  accorte delle cose addirittura “ prima “. 
    Le  istituzioni, cioè, hanno inviato qualcuno da Genova a parlare di Fabrizio ma  non solo: hanno mandato anche un “ testimone” diretto della canzone d’autore  genovese. 
    Ci tengo  molto a dire che a Genova non ci sono solo i “ grandi”, i mostri sacri: Lauzi,  Bindi e Paoli, poi De André e magari Fossati e Baccini e poi basta, niente  altro più. 
    In  realtà: non è proprio così. 
    La  situazione stessa dell’industria discografica parla. Genova è una città che “  parla molto di Genova “, è una città autoreferenziale in qualche modo. Questa è  la sua caratteristica. Se ci fate caso nelle altre città non è così: a Roma non  si parla di Roma !».
    Dopo di che  Max Manfredi è passato  a trattare la  questione della canzone d'autore, che definirla morta, quindi, darla per  spacciata o relegarla al ricordo di alcuni grandi, non tradisce soltanto un'  imperdonabile miopia,  è anche malafede. 
    Il  rinnovamento della canzone d’autore non passa soltanto attraverso le mode,  nuovi linguaggi e pretese esigenze di  mercato; ma vive, e non vegeta, nella ricerca poetica e musicale dei migliori  artisti di oggi. 
    Genova,  che già nel medioevo echeggiava nei suoi vicoli, nelle piazze e nei palazzi,  delle strofe di trovatori  e  menestrelli,  continua ad essere matrice  e scena di canzoni d’amore. 
    Amore  magari risentito, tradito, scontroso, “stundaio”; ma sempre generoso e  incoercibile: amore per le strade vecchie e nuove, i ricordi appannati  e le urgenze vitali che fanno di questa città  uno straordinario  palinsesto, un  mosaico  dove immagini e culture si  sovrappongono vertiginosamente, e dove (come dicevano gli antichi saggi) “ciò  che è in alto equivale a ciò che è in basso, per comporre le meraviglie della  cosa unica”. 
    C’è una  nuova scuola? Non lo crediamo. Sappiamo che ci sono artisti che si conoscono,  si stimano, e a volte, lavorano assieme. 
    I poeti  di Genova respirano la stessa atmosfera, così come i suoi palazzi e le sue catapecchie,  e la respirano nel bene e nel male, monossido di carbonio e salino; vivono un  mondo in divenire e testimoniano necessariamente le sue trasformazioni, a volte  senza volere. 
    «Sappiamo  soprattutto che non bisogna parlare di eredità generazionale o artistica, che  la musica non è una staffetta, e che il filo rosso che lega fra loro autori  come Gino Paoli, Fabrizio De André, Ivano Fossati e me stesso è fatto di amori  comuni,   ma soprattutto di sacrosante  differenze».  
    Dopo  l'intervento di Max Manfredi ha preso la parola Luigi Viva (scrittore, autore  teatrale,conduttore radiofonico nonché socio fondatore della Fondazione  Fabrizio De André ) che ha detto: « Venendo qui a Reggio io mi sono portato  dietro gli attrezzi del mestiere: il mio libro   ( " Non per un Dio ma nemmeno per gioco-Vita di Fabrizio De  André" , ed. Feltrinelli ) e poi le poesie di François  Villon , uno dei riferimenti di Fabrizio.
    Questi  attrezzi li uso quando il dibattito su Fabrizio tende a diventare troppo  soggettivo con interpretazioni e considerazioni che non sono in linea con i  tratti fondamentali del suo pensiero e con quanto lui diceva. 
    Proprio  nella prefazione che Fabrizio De André ha scritto per le Poesie di Villon  (Feltrinelli,1996) egli precisa: "Ora ti saluto consapevole del fatto che  quando si tratta di poeti è meglio lasciar parlare loro e non perdere troppo  tempo nel tentativo di spiegarli".
    Sono  quattro pagine importantissime che sottolineano i punti di contatto con Villon  e con lo stesso  Georges Brassens  che  a Villon ha guardato. 
    Si ha  quasi l'impressione che Fabrizio parli di se stesso "..Biografie lacunose,  poco più che pettegolezzi  fortunosamente  cuciti da brandelli di storia ti descrivono avventuriero e assassino prima che  di te si perda la traccia  e  comunque io ti riconosco poeta della carità,  per lo scandalo delle passioni sfrenate , per le risate scomposte a schermare  inauditi dolori, per le inaccettabili sofferenze che sorgono dal tuo canto e  toccano il cuore e la mente di chi ti legge, e ancora e soprattutto per i tuoi  lasciti. 
    Nel tuo  testamento è sempre un regalare, anche scherzoso e crudele , qualche cosa a  qualcuno , con la sgangherata prodigalità di chi è fuori da ogni casta e non  appartiene a niente e nessuno.." . 
    Villon e  Brassens per Fabrizio De Andrè  erano dei  veri punti di riferimento, addirittura " dichiarati". 
    Fu  tramite  Brassens che Fabrizio si  avvicinò all'anarchia quando aveva circa quattordici anni. 
    Da  anarchico è morto,  dimostrando un  grande  rigore e coerenza.
    Probabilmente  la vicinanza all'anarchia va   interpretata con la costante attenzione avuta per gli ultimi, per le  minoranze, per coloro che nella vita   hanno scelto la posizione eretta decidendo di non appartenere a niente e  nessuno.
    Fabrizio  in realtà ha sempre cercato di essere un uomo libero, recidendo il più  possibile i legami che la società e la famiglia cerca di importi.
    Durante  le nostre lunghe chiacchierate eravamo arrivati alla conclusione che la cultura  è l'unico strumento che abbiamo per essere liberi .
    Ho avuto  la fortuna di assistere  alla  registrazione della " Fiera della Maddalena" la canzone scritta da  Max Manfredi qui presente che per me è la più bella partecipazione realizzata  da Fabrizio in un disco di un altro artista.
    Mi  ricordo che Fabrizio mi telefonò intorno alle sedici, io ero aRoma, mi disse  che aveva piacere se lo andavo a trovare al Mulino Recording dove stava  registrando. Sono partito in fretta, come i fretta feci la strada, non certo  agevole, che da Roma porta ad Acquapendente. 
    In quella  occasione ebbi la conferma della sua professionalità, dell'attenzione dedicata  alle cose che realizzava. Era nervoso perché dopo aver inciso la voce avvertiva  un calo di tensione del pezzo. 
    I  musicisti presenti, compreso il produttore Edoardo De Angelis, erano della opinione  opposta. 
    Ad un  certo punto fece  "Non sono  d'accordo, secondo me con l'aggiunta della fisarmonica di  Antonello Salis il pezzo cambia". 
    Io la  pensavo come lui, mi ricordo che  quando  il nostro sguardo si incrociò gli feci un cenno di intesa. 
    Salis  registrò la sua parte ed effettivamente tutto  si risolse con lo splendido  risultato  che sappiamo.
    A QUESTO  PUNTO CHIEDE LA PAROLA MAX MANFREDI E DICE:   « Mi  sento chiamato in causa  visto che si parla della mia canzone. Fra la voce di Fabrizio e la mia, questo  è quello che posso dirvi della vicenda che vi sta raccontando Viva ed è quello  che ricordo, ci sono delle inflessioni comuni,o dissi allora a De André: "  tu sei più basso , io più baritono; dunque: divarichiamo le voci, tu fai la  voce bassa ed io faccio l'ottava alta ".
    Fabrizio  mi rispose: " quando entra la mia voce mi sembra che entri un pitone  ". 
    C'era  effettivamente un ingresso troppo forte di Fabrizio. Fu a quel punto che  Fabrizio mandò via il buon Edoardo De Angelis, devo dirlo, con una scusa. Gli  disse di andare a comprare dell'erisimo , che è un erba che serve a migliorare  la voce. 
    Dovete  sapere che Fabrizio si alzava sempre alle 5 ed in quel momento era in crisi da  caffellatte, quando lo aveva diventava gentile. 
    Quando  Edoardo tornò con l'erisimo noi avevamo finito tutto quanto. In sala i ruoli  erano molto precisi, questo lo posso dire con cognizione di causa. Io avevo,  per esempio, già parlato con De André su chi dovesse fare l'arrangiamento della  canzone. 
    Fu lui a  proporre Michele Ascolese. Per me andò bene. Fabrizio ascoltava me ed Ascolese  e poi, in forza della sua autorità, mediava il tutto. »
    RIPRENDE  IL SUO INTERVENTO LUIGI VIVA:
    A questo  punto vorrei parlarvi di un mio progetto a cui tengo molto e che dovrebbe  partire nel prossimo autunno. 
    Ci sono  voluti quasi quattro anni di preparazione e di contatti ma adesso anche grazie  al coinvolgimento di Dori Ghezzi dovremmo essere pronti per realizzarlo. 
    È  una operazione imponente, la prima del genere  in Italia: realizzare le partiture integrali di tutta l'opera di De André, vale  a dire trascrivere su pentagramma, nelle tonalitàoriginali voce e strumenti di  tutte le canzoni di Fabrizio. Così facendo si   raggiungerà lo scopo che mi sono prefisso, ovvero conservare nel tempo,  la sua opera . 
    Avremo  così i supporti sonori (dischi,cd) e le partiture che  anticamente erano l'unico mezzo che i  musicisti avevano per divulgare e trasmettere la loro opera. 
    È  ovvio che le partiture in commercio sono  partiture parziali e il più delle volte poco precise. 
    Un'operazione  del genere deve essere realizzate con le più ampie professionalità. 
    Ecco  perché ho pensato, perseguendo anche un fine divulgativo e didattico, di  concretizzare la mia idea tramite i Conservatori di Musica Italiani. 
    Saranno  proprio gli studenti dei Conservatori a compiere il lavoro di trascrizione che  avrà poi più livelli di controllo, quello degli insegnanti e quello del  comitato scientifico ormato dai musicisti e  arrangiatori che hanno lavorato  con  Fabrizio : Nicola Piovani, Gian Piero   Reverberi, Piero Milesi, Mauro   Pagani, Mark Harris.
    Ci tengo  a sottolineare l'importanza di una tale operazione effettuata solo ed  esclusivamente per rendere omaggio ad un grande della nostra musica e a  conservarne correttamente e più a lungo possibile  l'opera.. 
    Per  concludere  vorrei prender spunto da  quanto ha detto prima Cordì e tornare al mio libro su Fabrizio. 
    Lo vorrei  fare parlando dello scrittore Maurizio Maggiani.
    Quando  stavo lavorando al mio libro , lessi " Il coraggio del Pettirosso"  con il quale Maggiani ha vinto il premio  Campiello. 
    All'inizio  sono presenti tre citazioni: Isaia, Ungaretti e Fabrizio De André. 
    Parlando  con Fabrizio venni a sapere che Maggiani   era uno dei suoi scrittori preferiti. 
    Pensai  così di chiedergli la prefazione della biografia che stavo scrivendo (loro due  non si conoscevano personalmente). 
    Ottenuto  il suo assenso ne parlai a   Fabrizio,  e ricordo con quanto  entusiasmo accolse la notizia. 
    Ecco  perché anche oggi voglio chiudere il mio intervento leggendo un brano tratto  dal libro di Maggiani che può avere molto a che fare con Fabrizio De André ed  il suo percorso ed in qualche modo si avvicina all'ultimo capitolo del  libro  "Per sempre contro".
    Mi auguro  che Fabrizio continui a rappresentare questo "  per sempre contro". 
    Ovvero il  suo  andare in " direzione ostinata  e contraria. 
    A QUESTO  PUNTO VIVA TERMINA IL SUO INTERVENTO   LEGGENDO UNA PAGINA DEL " IL CORAGGIO DEL PETTIROSSO" DI  MAURIZIO MAGGIANI (FELTRINELLI,1995):" Noi si è pettirossi ,  Saverio.".Iniziava sempre così, bisbigliandomi dalla sua altitudine questa  constatazione che a  me suonava insieme  misteriosa ed esaltante, non avendo mai visto un pettirosso e immaginandomelo  come un uccello meraviglioso.
  "Noi  libertari si è pettirossi, coraggiosi come quell'uccellino di tanto tempo fa  che volle andare dal falchetto.
    Vuoi che  la conto ancora?". Non aspettava mai che io gli dicessi di si.
  "Allora,  c'era questo pettirosso,piccolo che lo tenevi nel pugno della mano, ma con le  sue idee che nessuno riusciva a togliergliele dal capo. 
    Voleva  volare in qua e in là a vedere ilo mondo, becchettare dove c'era da  sfamarsi, e non gli piaceva per nulla che gli  avessero assegnato il suo posticino e morta lì. 
    Così che  un giorno  prese il coraggio a quattro  mani e si presentò dal signor falchetto , il re degli uccelli del bosco.
    Vorrei il  permesso, signoria, di andare un po' dove mi pare, tanto non darei fastidio a  nessuno, piccolino come sono-. 
    Così gli  disse, e intanto gli tremavano tutte le penne. 
    Il  falchetto s'adombrò immediatamente e fece la voce grossa:- Questa è una  faccenda che non mi piace per nulla. 
    Tu devi  mettere la testa a posto e non star a   disturbare con le tue pretese. 
    Fila via  o chiamo le gazze-. E nel dirgli questo, senza neppure farci caso, gli diede  una   zampata che gli artigliò a sangue un'ala. 
    L'aveva  pagata cara quell'uccelletto la sua smania di libertà. 
    Ma  testardo com'era, in due o tre giorni era di nuovo in aria a volare. Certo,  alla bell'è meglio, che arrancava dietro alla sua aluccia offesa tutto di  sghimbescio. 
    Sembrava  diventato un pagliaccio tanto era buffo come si era ingegnato di volare con  un'ala sola. E tutti gli uccelli giù a ridere. 
    E  ridevano a crepapelle anche il signor falchetto e le sue gazze. 
    Così che  dal gran ridere nessuno si accorgeva che a ogni giorno che passava il  pettirosso volava sempre un po' più in alto e un po' più in là del posto che  gli avevano assegnato. 
    E il  giorno che il falchetto se n'è accorto, il pettirosso oramai volava così in su  che dall'alto prese a bombardare sul capo il re degli uccelli a colpi di  cacatine."
    Credo che  sia tutta qui la documentazione che mi rimane dell'educazione politica e morale  che mio padre mi ha impartito. 
    C'eravamo  noi, pettirossi libertari, e c'era l'anarchia. 
    Zia  Anarchia era lontana, ma i suoi benefici   influssi mi avrebbero fatto migliore, più coraggioso e più bello,  diverso dalla massa dei servi che non osavano alzare la testa.
    La  seconda giornata è stata aperta dai saluti di Gianni Aiello che ha anche fatto  un resoconto sulla prima edizione della manifestazione tenuta in riva allo  Stretto. 
    A  seguire, è arrivato la relazione di Gianfranco Cordì, responsabile della  sezione “cinema” del circolo L’Agorà. Dopo i ringraziamenti, d’obbligo, a  quegli enti e persone che hanno dato una mano per la riuscita della  manifestazione, Cordì, polemicamente, ha posto l’accento anche su quelle  persone che non hanno aiutato il sodalizio organizzatore. In particolare un  politico locale, che non è stato menzionato. 
    La  relazione di Cordì ha avuto come tema la biografia dei primi 12 anni di vita  del cantautore genovese. Alle dodici in punto, del 18 febbraio del 1940 in quel di Genova,  nasceva Fabrizio Cristiano De Andrè, dal professor Giuseppe e dalla signora  Luigia Amerio. 
    Ad  accompagnare questo lieto evento, quasi fosse un richiamo per l’avvenire del  nascituro, c’erano le note del Valzer campestre di Gino Marinuzzi. 
    La  famiglia De Andrè si deve trasferire, nella primavera del 1941 ( in piena  guerra ) nell’Astigiano: e precisamente a Revignano d’Asti. In una cascina ( la  Cascina dell’Orto ) il giovane Fabrizio passa i suoi primi anni. A contatto con  mucche, pecore, cavalli, cani ed oche. Questa è la sua prima educazione. 
    Questa è  la caratteristica fondamentale dei suoi primi anni di vita: ciò che foggerà in  maniera indelebile il suo carattere. 
    Se è  vero, che in anni più lontani, dichiarerà di essere solamente 
    Lui un  agricoltore che ogni tanto canta qualche canzone. Fabrizio nasce con già, al  mondo, un fratello: Mauro ( che diventerà un avvocato importante ). Mauro è un  bambino maturo e studioso. Faber invece no. 
    L’orrore  della guerra incombe sulla famiglia De Andrè. Il professore è costretto a darsi  alla macchia. 
    Uno zio  materno ( Francesco Amerio ) viene deportato a Mannheim. Rirnerà a guerra  finita con le facoltà cerebrali ormai precarie. Faber è sempre in compagnia del  fattore Emilio. 
    Con lui  conosce tutti i segreti dei campi, le rotazioni delle colture, la cura delle  bestie. 
    La guerra  finisce. E nel settembre del 1945: la famiglia De Andrè ritorna a Genova. 
    La  partenza per Faber è molto triste. Il ricordo degli anni passati nell’Astigiano  lo accompagnerà, da allora, per sempre. 
    Fabrizio  entra in una banda giovanile. 
    Si tratta  della banda di Via Piave. 
    Compiono  atti al limite della legalità, ma soprattutto si divertono e iniziano ad  irridere la società dei benpensanti. 
    Compagni  d’avventura di Faber: sono Tiraoro e Durante. 
    Fabrizio  passa tutto il suo tempo per strada con gli amici. Conosce così la realtà della  vita genovese. Fonda un asilo di gatti randagi, crea un piccolo zoo nel  terrazzo di casa sua, fa la pulizia delle colombaie. 
    La  passione per gli animali è sempre presente. 
    Conosce  anche Paolo Villaggio. 
    Inizia  un’amicizia che durerà tutta la vita e che fornirà anche alla storia della  canzone due testi ( scritti assieme ): Il fannullone e Carlo Martello ritorna  dalla battaglia di Poitiers. 
    Fabrizio  comincia anche ad appassionarsi della musica: nel 1948 comincia a studiare il  violino. 
    Poi ,  sotto la guida di un chitarrista colombiano ( Alex Giraldo ) passa alla  chitarra. 
    Presto  esordirà, a suonare in pubblico. 
    Dunque,  conclude Cordì il suo intervento, due sembrano le direttrici del carattere del  giovane Fabrizio ( alla luce dei suoi primi anni di vita ): la passione per  l’agricoltura e lo spirito 
    anarchico. 
    Fabrizio  ama la terra e i suoi frutti e si lega d’amicizia a compagni che non  appartengono alla sua classe sociale. 
    Impara a  comprendere che la società della Genova bene è una società che non va bene. 
    Egli che  pur proviene da essa ne diventa il tafano posto sulle spalle: colui che la  pungolerà sempre. 
    Secondo  questa doppia via si svilupperà il carattere dell’uomo Fabrizio De Andrè, che  rimarrà dentro di se sempre un’agricoltore ( la tenuta da lui acquistata in  Portobello di Gallura ne è l’estrema riprova ) e sempre uno spirito libero: se  è vero che come cappello al suo album Le nuvole porrà una frase del pirata  Samuel Bellamy che suona così: “… Io sono un principe libero / e ho altrettanta  autorità di fare guerra /al mondo intero quanto colui /che ha cento navi in  mare “.  
    Gianfranco  Molinaro ha trattato il tema: "La donna nella poetica di Fabrizio De  Andrè" e nello specifico ha indirizzato la relazione sulle figure della  madre, la prostituta, l'amante, la morte.
    Le  immagini materne sono numerose e tra loro molto differenti: la madre-sposa  ("Marcia Nuziale") che corona il suo sogno dopo tanti anni di  convivenza e che è consolata, per il brutto temporale, dal figlio già grande  che suona per lei l'armonica. 
    È la  stessa madre che possiede un mulino, che cucina   per il figlio la torta di mele e che   è nata ridendo ("Volta la carta"); è la stessa madre che ha  insegnato al figlio carcerato come si deve fare un buon caffè ("Don  Raffaè"). Talvolta la madre  solo  invocata, come nel "Cantico dei drogati" ( "... come potrò dire  a mia madre che ho paura? ... ") o semplicemente ricordata per i suoi  ammonimenti ("... Mia madre mi disse: non devi giocare con gli  zingari nel bosco ..."),  "Sally"; talaltra è madre impari al suo compito, come quella che  adora crogiolarsi nel suo masochismo (" ... il martirio è il suo mestiere,  la sua vanità") "Al  ballo  mascherato", o come Madamadorè, che "ha perso sei figlie/tra il bar  del porto" .
    Ma  questi  personaggi sono piuttosto  accidenti secondari e rari, poiché in realtà la madre,  per De   Andrè, è innanzitutto una figura austera e dolente; non è una madre, è  la madre, colei che dà tutta se stessa al figlio, che si è compiuta nel figlio,  colei per la quale la maternità è.
    Sorge  allora, potentissimo nella sua infinita dolcezza e nella sua sconfinata  sofferenza, il simbolo della Madre che in sè riassume tutte le dolorose virtù  di ogni madre.
    Le pagine  del Vangelo hanno lasciato in De Andrè tracce profonde; egli vi scorge  costantemente i segni di  una vicenda  umana che pur contiene  il mistero del  riscatto metafisico che profondamente lo affascina e lo avvince, e che lo induce  a cantare (con dolente partecipazione) la tragica storia di un uomo crocefisso  e quella - forse più tragica- di sua madre Maria.
    Parecchie  volte Maria è ricordata in diverse canzoni: "Si chiamava Gesù" ,  "Ave Maria", Maria è la protagonista di "La buona novella";  la sua avventura umana è cantata dalla prima infanzia sino ai piedi della  croce: Maria bambina, condotta al tempio a tre anni "L'infanzia di  Maria" : Maria che rivive l'Annunciazione "Il sogno di Maria";
    Maria che  diventa l'emblema  di tutte le donne (di  tutte le madri), che De Andrè comprende e insieme compiange  "Ave Maria".
    È notte,  e Maria viene svegliata da un rumore assordante, inquietante, che proviene  dalla bottega del falegname ("Maria nella bottega del falegname)";
    Sotto la  croce, s'intrecciano le  voci di tre  madri; accanto a Maria, infatti, piangono la morte del figlio anche le madri  dei due ladroni, Dimaco e Tito ("Tre madri") .
    Per  Maria, Gesù non è (o poco le importa che sia) "nostro Signore"; per  Maria, Gesù è il figlio ("figlio   nel sangue, figlio nel cuore" dice); e quel rimpianto  finale ("non fossi stato il figlio di  Dio/t'avrei ancora  per figlio  mio"), rimpianto che sfiora quasi un   pensiero blasfemo ed è l'unico istante di rivolta di Maria al suo  destino metafisico. 
    Tale  istante segna il primato del destino di madre, al di sopra di  ogni fede e di ogni obbedienza, destino  intriso di carne, di sangue, d'amore; davvero siamo in presenza della sintesi  di ogni madre.
    Al capo  opposto della presenza materna, eppure da lei non sempre totalmente diversa, si  situa un'altra figura, più sfaccettata e   inquietante, ma egualmente cara a De Andrè: la prostituta. 
    Anche per  lei, "creatura  che si guadagna il  pane da nuda", le parole scelte a rappresentarla sono sempre lievi,  talvolta ricolme di dolente pietà, talaltra sorridenti, rispettose sempre. 
    Certo, De  Andrè è capace di creare una grande varietà di tipi nel campionario della  donna-prostituta: c'è "Bocca di rosa" che fa l'amore per vocazione,  c'è la grande puttana scambiata dal re Carlo   Martello per virtuosa pulzella ("Carlo Martello ritorna dalla  battaglia di Poitiers"), c'è l'ingenua fanciulla, che ancora crede a Babbo  Natale, trasformata in una dea bellissima dea cinica e infelice ("Leggenda  di Natale").
    Ancora  c'è la cortigiana di lusso che, ormai vecchia, è ridotta a vendere immaginette  sacre all'angolo della chiesa ("Il   testamento"), e c'è la prostituta bambina, ancora priva di  esperienza ma pronta a imparare; c'è quella che pronuncia i fatidici (  "... micio, bello e bamboccione ..." )"La città vecchia" e  quell'altra che inganna un vecchio, per derubarlo assieme al suo  complice-protettore "Delitto di paese" . Mai per De Andrè la  prostituta è veramente colpevole; la colpa, semmai, è dalla parte di chi  profitta dei suoi servigi: così è per Maggie (" ... uccisa in un  bordello/dalle carezze di un animale ...") "Dormono sulla  collina", così è per Nancy,  che nel  suo suicidio ha cercato il rimedio  alla  insopportabile solitudine.
    Di per  sè, la prostituta è donna generosa, che sa dare senza chiedere; in lei si  riuniscono figure, che anche questa volta   si coagulano nell'immagine mitica della prostituta: non è forse sempre  pronta all'amore? Non è forse sempre malinconicamente afflitta da una profonda  nostalgia di  innocenza? Non è forse  sempre illusa, che in fondo sogna ancora l'amore?
    Nella  prostituta di De Andrè si riuniscono la patetica povertà, la sfolgorante e  malinconica bellezza (magari scaltrita da qualche civetteria) e l'ingenuità  miracolosa della bambina, come avviene nella stupenda figura tratteggiata nella  celebre canzone di "Via del Campo".
    Graziosa,  bambina, puttana: questa è la prostituta di De Andrè, il quale chiude la  canzone a lei dedicata con le notissime parole (" ... dai diamanti non  nasce niente dal letame nascono i fior ...") .
    E i fiori  nati dal letame, oltre alla prostituta, sono le numerose figure di donna che  popolano gli spazi dell'emarginazione, così frequenti nel canzoniere di De  Andrè: sono gli indimenticabili personaggi di Sally, la zingara con il  tamburello, di Pilar, la ragazza drogata e assassinata "Sally", di  Princesa, amara figura di transessuale ( "Princesa"); sono le giovani  spose rom, che vanno a mendicare ("... con le vene celesti ai  polsi...") "Korakanè"; è Maddalena, compagna del fuggiasco in  terre messicane ("Avventura a Durango") ed è Franziska, la promessa  sposa del bandito eternamente in attesa, eternamente sola, sulla quale nessun  uomo può posare gli occhi, pena la vendetta ("Franziska"); è Suzanne  infine, Suzanne, la pazza incantevole, adorna di ("... stracci e  piume/presi in qualche dormitorio ..."): silenziosa e dolcissima, Suzanne  la pazza sa far conoscere l'amore, un amore libero e armonioso, anche questa  volta tra spazzatura e fiori ("Suzanne") . 
    La  donna-amante è senza dubbio quella che   ovunque domina incontrastata e conosce sfumature davvero innumerevoli,  sia per quanto riguarda le situazioni, sia per quanto riguarda i sentimenti. 
    V'è  innanzitutto la donna che ha fatto scelta di libero amore; nulla ha a che  vedere con la gioia  come allegria. 
    È il caso  di Barbara, la cui bocca sa di fragola e miele, che  "gioca all'amore" con tanti amori  diversi ( "La  canzone di  Barbara"). 
    È il caso  della deliziosa e minutissima bagnante di Brassens che emerge dall'acqua della  chiara fontana ( "Nell'acqua della chiara fontana").
    È il caso  dell'allegra Angiolina , prima che la sua vicenda finisca nella gioia del  matrimonio ("Volta la carta" ).
    Ma  l'amore a lieto  fine, benchè non sia del  tutto assente, è caso raro nelle canzoni di De Andrè. 
    Di solito  la vicenda amorosa è tormentata, e quasi fatalmente destinata a finire. 
    Egli ricorda  innanzitutto l'incapacità dell'amore a cambiare le persone e l'ipocrisia che  finisce col governare ogni rapporto ("Verranno a chiederti del nostro  amore") . 
    Certo,  quella ipocrisia che cerca  di dare ai  rapporti una illusoria dimensione di perennità è ancora una forma d'amore, ma  di un amore  che disperatamente si cerca  di conservare, e che invece è ormai finito ("Canzone dell'amore  perduto").
    Ma in  quel rimpianto ineludibile è da ravvisare un sentimento che non può essere  totalmente cancellato. ("... ma se ti dico che non t'amo più/sono sicuro  di  non dire il vero ...") "E  fu la notte" . ("... ma tu che vai, ma tu  rimani ... ma tu che stai, perchè rimani?")  "Inverno".
    Insomma:  quello dell'amore è uno stato incerto, fuggevole, contraddittorio: (" ...  io t'ho amato sempre, non t'ho amato mai ...") "Amore che vieni,  amore che vai" .
    E non  bastano a De Andrè le parole che egli stesso sa inventare  per cantare l'amore incerto, per cantare la  donna amante: egli unisce  talvolta le  sue  parole a quelle dei poeti e canta  con loro l'amore che fugge, il tempo che scappa, come in "Valzer per un  amore" , dove De Andrè riscrive Pierre de Rosard.
    Ma un  altro grande poeta ha inspirato De Andrè, tramite Georges Brassens.  Charles Baudelaire nella raccolta  "Le Fleurs du mal" ha incluso una  poesia dedicata a "une passante". 
    Brassens  e De Andrè moltiplicano la passante di Baudelaire in tutte le possibili  passanti, in tutte le donne scorte un istante e perdute per sempre ("Le  passanti").
    Ancora  Baudelaire si può ritrovare nella "Ballata dell'amore cieco".
    Ritroviamo  in questa ferocissima donna i tratti fiammeggianti della femme fatale, la donna  fatale, cioè della donna-idolo, spietata e bellissima, fredda e crudele,  assetata di sangue, assetata di morte. 
    Il  fascino della femme fatale (e  di  Baudelaire) lascia il segno anche su un'altra canzone ( "Per i tuoi larghi  occhi"); essa narra di un amore finito, eppure possessivo. Siamo ancora in  presenza di una donna gelida e crudele, in cui ("...batte un cuore di  neve...") i cui occhi ("... non piangono mai ...").
    Per De  Andrè, anche quando non c'è ritorno, resta comunque  un vuoto che non è possibile colmare:  ("... ma dove, dov'è finito il tuo amore ...") "Hotel  Supramonte" .
    La morte  Nei dieci anni dal 1961 al 1971, si registra l'esplodere della vena creativa di  Fabrizio De Andrè.
    Insistito  e modulato,  secondo un vasto spettro di  registri diversi, era il tema della morte.
    Suicidi,  impiccati, annegati, ammazzati, spesso innamorati affollano le canzoni di De  Andrè.
  "Scandaloso"  oltre al tema era il modo di parlarne: una morte senza elaborazione del dolore,  senza conforti religiosi e senza lutto, senza vertigini esistenzialistiche o  decadentismi poetici (ma con qualche sotterraneo rimando a Cesare Pavese e  forse anche a Umberto Saba e a Federico Garcìa Lorca), una morte ostentata  e  virile e anche talvolta rancorosa,  scarna e contenta, luminosa non notturna, quasi si direbbe ottimista, ridente e  irridente, nella serena disperazione di una danza macabra.
    La morte  era pure, qualche volta, la morte in guerra, forse la più assurda umanamente,  benchè storicamente indistruttibile.
    Le  canzoni di Fabrizio De Andrè ponevano una questione allora molto sentita  specialmente a livello giovanile ma anche tra intellettuali come Bertand Russel  o Jean Paul Sartre: pacifismo e critica al bellicismo, incitamento  all'obiezione di coscienza e ironia amara sulla retorica dell'eroismo militare.
    A  conclusione  della relazione di  Gianfranco Molinaro , Gianni Aiello, dopo aver dato lettura del documento inviato  dalla Fondazione Fabrizio De Andrè a nome del Presidente Dori Ghezzi che ha  manifestato vivo compiacimento "per il consenso con il quale essa è stata  accolta dai giovani artisti, stimolati a manifestare la loro creatività  cimentandosi con opere ispirate alle canzoni di Fabrizio" , ha premiato i  partecipanti Maria Vadalà e Valentina Albanese del Liceo Artistico "Mattia  Preti", Sergio Pennavaria, Luana Romeo e Valerio Conforti dell'Accademia  di Belle Arti .
  Si  conclude, quindi, nel migliore dei modi la prima edizione ed un  ringraziamento  particolare va al Comune  di Genova ed  al suo primo cittadino  prof. Giuseppe Pericu per l'alto spessore culturale  con il quale ha voluto sostenere la  manifestazione, alla Fondazione "Fabrizio De Andrè", a Guido Harari che  ha  permesso di inserire  una sua foto sulle locandine, al Consiglio  Regionale della Calabria, alle Amministrazioni Provinciale e Comunale di Reggio  e all'Ufficio Scolastico Regionale che hanno avuto il merito e la sensibilità  di incoraggiare  l'incontro. 











