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  Nella  pagina internet sopra richiamata sono elencati per data ed argomento le  conversazioni culturali organizzate fino al momento. Il programma quadriennale  (2014-2018) di tale progetto culturale, per la valenza ed il significato,  per la valenza ed il significato di tale programma ha ricevuto l'Alto Patronato  delle Ambasciate di Austria, di Ungheria, della Repubblica Ceca e della  Repubblica Slovacca. La nuova proposta organizzata dal Circolo Culturale  "L'Agorà" sul tema „Le malattie e la grande guerra".Secondo lo  storico Diamond nelle guerre succedutesi nel corso delle storia, i morti dovuti  a malattie superarono quelli caduti in combattimento. In un eventuale conflitto  odierno questo non avverrebbe data la potenza delle armi moderne e il progresso  della medicina , ma l’affermazione è sicuramente vera fino e durante la Grande  Guerra , quando la sola epidemia influenzale del 1918 provocò decine di milioni  di morti. Causa di questa carneficina fu il protrarsi di un conflitto che tutti  ritenevano dovesse essere una guerra lampo. Poi le condizioni delle trincee che  portò ad un logoramento fisico e morale dei soldati. Per capire la condizioni  della vita in trincea bisogna leggere i diari, le memorie di scrittori, di  politici, o anche solo le lettere dei soldati semplici per rendersi conto del  dramma vissuto in quegli anni dalle truppe con le uniformi che diventavano dure  come fango, le scarpe ridotte a suole di legno e per tentare di scaldarsi si  dormiva per terra uno addosso all’altro. Queste condizioni primitive della vita  in trincea sono così descritte da Luigi Bartolini scrittore e pittore nel suo  libro Il ritorno sul Carso : “ Si combatte sotto terra in fosse lunghe, orride  scavate da coloro che poi vi dovevano rimanere sotterranee. Trincee: luridi  cunicoli, budella che erano sporche di sterco e di fango e che puzzavano di  fradicio o di cloruro di calcio buttato dai soldati delle infermerie sopra i  cumuli di cadaveri. Arrivava un granata da 305, e la trincea si spappolava; la  terra si ricuciva; i vivi vi rimanevano sotterrati: ma , intanto che si  aspettava di morire, si rosicchiava la galletta raccolta nelle tasche dei  feriti ; si beveva acqua putrida che scolava dalle alture  ruscellando attraverso i morti in  decomposizione”. E per conoscere i luoghi visti quotidianamente dai soldati  ancora Bartolini:” Le trincee sembravano quei mucchi di immondizia che si  possono vedere per certi campacci lontani dalle città e dove gli spazzini vanno  a scaricare le escrementizie dei carretti. Stracci luridi; barattoli di latta  arrugginiti; gavette e presepi, sfasciati, di ricoveri; scudi di trincea; con  le feritoie sconvolte; maschere pei gas asfissianti; fucili fracassati;  baionette dove s’ erano ossidati grumi di sangue; pezzi di braccia e di gambe;  ossa , teste disseccate, mezze mummie di cadaveri; carcasse piene di vermi e di  scarabei; putrelle e lastroni di eternit; cartelli indicatori sfilzati dai  pali;”.Come commenta Mario Scardigli proprio il continuo confronto tra  primitivo e progredito, tra rudimentale e tecnico fu uno degli aspetti  peculiari e più spiazzanti della Prima Guerra Mondiale. Finanche era negato il  piacere del fumo perché i soldati erano costretti, fumando, a tenere in bocca  la parte accesa, per non essere presi di mira dai cecchini. Inevitabile la  convivenza con topi, pidocchi, cimici e altri parassiti che proliferavano data  l’assenza di igiene e per l’impossibilità di cambiarsi e lavare gli indumenti.  Ogni tanto gli uomini venivano ammassati nudi in un capannone e investiti da  getti di acqua calda, ma ne uscivano scottati e alla fine i pidocchi  ricomparivano. Su questa forzata convivenza con i parassiti e gli animali  scrive Luigi Gasparotto nel suo diario di un fante :”Questa notte fu la sagra  dei topi. Certi topi slavi, grandi come gatti, con code interminabili,  correvano sulle panche, passeggiavano sul viso, venivano persino a leccare le  labbra. Non riesco a spiegare come questa notte si siano dati convegno proprio  qui tutti i topi del Carso. Impossibile chiudere occhio; topi di qua, topi di  là topi che sbucano dai crepacci, che scendono dalla scaletta, che guizzano e  saltano da una parte all’altra; vera scena del cinematografo”. E non è tenero  neanche Paolo Caccia Dominioni che nel suo  diario così sintetizza la vita sul luogo di combattimento: “Trincea!  Abominevole carnaio di putredine e di feci, che la terra si rifiuta di  assorbire, che l’aria infuocata non riesce a dissolvere. La pioggia continua  snida dal terreno il puzzo della vecchia orina. Il tanfo di cadavere lo  troviamo col caffè col pane, col brodo”. Il risultato di questa situazione non  poteva che essere il manifestarsi di malattie vecchie e nuove. Ma prima di  parlare di esse ricordiamo un altro fenomeno che caratterizzò la guerra. Oltre  gli imboscati e i disertori ci furono i furbi che tentarono in tutti i modi di  evitare in tutto o in parte la trincea simulando varie patologie, ma anche  disperati che arrivavano a provocarsi mutilazioni e ferite pur di ritornare a  casa. I furbi simulavano dolori addominali, cefalea, sordità, contratture  muscolari paralisi, regressioni infantili. Così si racconta di un medico che di  fronte ad una lunga fila giornaliera di soldati (quasi tutti simulatori) dopo  averli ascoltati ordinava a tutti una dose di olio di ricino. In pochi giorni i  finti malati scomparvero. Un altro metodo usato per smascherare chi si fingeva  muto era la somministrazione di scariche elettriche. Visto che la furbizia non  aiutava si passò all’autolesionismo. Si arrivava ad amputarsi un dito o  tagliarsi il tendine di Achille con l’accetta o maciullarsi mani e piedi  facendosi cadere dei massi addosso. Con sostanze irritanti si provocavano  piaghe purulente; con la calce lesioni agli occhi; con i ferri arroventati  otiti suppurative e si inalava del fumo per ammalarsi di bronchite. Inoltre si  preferiva scegliere prostitute infette per contrarre la sifilide o peggio si  strofinavano occhi e organi genitali col muco infetto acquistato dai malati di  gonorrea. Un altro mezzo era quello di spararsi a una mano o a un piede. Certe  volte il  dramma finiva nella comicità. Così un soldato prima di spararsi ad un piede si  tolse lo scarpone e poi se lo rimise rivelando così l’origine della ferita.  Vediamo ora le vere patologie provocate dallo stare in guerra. Frequenti la  scabbia, la micosi, il tifo e il colera. Tutto questo veniva ritenuto di scarsa  importanza. Infatti quando nell’agosto 1915 le truppe austriache che potarono  il colera Emilio Lussu annotò:” I soldati ridevano del colera. Che cos’è il  colera? Di fronte al fuoco d’infilata di una mitragliatrice?”. Inevitabile date  le condizioni di vita e il termometro che d’inverno scendeva a trentacinque  gradi sotto zero il cosiddetto “piede da trincea”. I piedi immersi nel fango,  nell’acqua e nella neve perdono a poco a poco la sensibilità.Poi compare il  formicolio con bolle rossastre e violacee. La pelle diventa sempre più scura.  Si arriva alla cancrena e alla successiva amputazione. Frequenti le ferite  soprattutto all’addome e al volto. La chirurgia del viso era all’inizio e poco  poteva fare di fronte a volti diventati un assemblaggio di carne e metallo, che  impediva di masticare e spesso provocava cecità e mutismo. In Francia era nata  l’associazione della “Gueules  cassées  (facce distrutte), che si prese cura degli uomini col volto sfigurato. Numerose  la malattie mentali. Figlia della Grande Guerra che aprì una nuova branca della  psichiatria fu la “sindrome commozionale da scoppio di proiettili” che  provocava attacchi di panico, terrore, incapacità di connettere di parlare, di  camminare. I colpiti furono etichettati con il termine popolare” scemi di  guerra”.I colpiti in Italia sono stati circa quarantamila. Angosciante leggere  le cartelle cliniche di questi infelici. C’è chi avverte intorno a sé “diavoli  nei dappertutto: sotto i guanciali, sotto le lenzuola, sotto i materassi, sopra  il letto, aggruppati alle lettiere”. L’ammalato dice di averne uccisi  centoventi e “gli altri si sono gettati dalla finestra, ma se avesse avuto un  fucile li avrei ammazzati tutti”. Un altro si sente circondato sempre da nemici  e per questo definito “austrofobo”. Un altro ancora non sa spiegare come e  perché è finito in ospedale: emette involontariamente feci e urina.  Appartennero alla schiera degli “scemi di guerra” persone innocue, ma  ossessionate dagli avvenimenti bellici per cui parlavano sempre di battaglie,  di guerra, del Piave e dell’Isonzo. Con lo stesso termine vennero definiti gli  smemorati colpiti da amnesia come reazione per dimenticare gli orrori vissuti.  Celebre il caso dello smemorato di Collegno. Ѐ ora la volta dell’epidemie come  quella di malaria (o area malsana) dovuta a parassiti detti plasmodi. Agli  inizi del novecento fino alla Prima Guerra Mondiale il problema fu affrontato  con il massimo impegno tanto che il numero dei morti era sceso notevolmente. Ma  mentre era vicina la completa vittoria sulla malattia, lo scoppio della guerra  annullò ogni sforzo. Nel 1915 si scatenò l’epidemia e decine di migliaia di  persone, fra soldati e civili, morirono e milioni restarono infettati. La  guerra provocò una maggiore virulenza del morbo in parte per la conformazione  geografica del territorio e essendo il campo di battaglia soprattutto nella  zona costiera del Veneto famosa per la sua aria malsana e costituito com’ era  da grande distese di paludi in cui vivevano gli anofeli. Si aggiunga la  condizione delle trincee ideali terreni di incubazioni delle larve delle  zanzare. Anche il fatto che i soldati provenissero da tutta l’Italia peggiorò  la situazione: arrivando alcuni da zone non malariche erano privi di difese  immunitari. Al solito poi prevalse l’autolesionismo e molti soldati fecero di  tutto per contrarre la malattia per potere avere una licenza per tornare a  casa. Tornati nella loro città contribuivano al diffondersi del morbo. Si  aggiunga inoltre che mandati al fronte braccianti e contadini, come manodopera  nelle campagne furono chiamati bambini, donne e anziani che rimasero vittime  delle zanzare. Nel dopoguerra la lotta fu poi ripresa e reimpostata con nuovi  principi anche se la vittoria definitiva si può fare risalire alcuni anni dopo  la fine della Seconda Guerra Mondiale. Passiamo ora in conclusione alla più  grande pandemia influenzale della storia nota con il nome di “spagnola”. Ha  causato almeno cinquanta milioni di morti molti di più dei caduti in guerra tra  militari e civili. Sgombriamo subito il campo da un equivoco: la Spagna non è  l’origine della malattia. Essendo rimasto un paese neutrale, la stampa non  venne sottoposta a censure, per cui le notizie arrivavano da lì, generando il  sospetto che il contagio fosse partito da quel paese. Per gli inglesi era la  PUO, acronimo di Piressia di origine sconosciuta; in Italia “febbre da  pappataci”; in Francia la Grippe, in Germania catarro-lampo. Forse sarebbe più  corretto chiamarla ”influenza americana”, perché i primi casi si manifestarono  nel marzo del 1918 nel Kansas. I sintomi dell’influenza che colpisce di più i  giovani tra i trenta e quarant’anni sono mal di testa, dolori muscolari,  debolezza, febbre, nausea e vomito. La morte arrivava in poche ore o nei giorni  successivi. Il virus è stato isolato nel 1997 dal tessuto polmonare di persone  morte per questo morbo. Il virus era sfuggito ai microscopi del tempo, ma no a  quelle elettronici di oggi. Ricordiamo che tra i colpiti dell’epidemia ci furono  personaggi famosi: da Schiele a Roosevelt, da Disney a Munch, da Wilson a  Apollinaire che  morì . Morirono anche i  due pastorelli testimoni delle apparizioni di Fatima canonizzati pochi giorni  fa da Papa Francesco. Sembrerà strano, ma l’influenza incise sulle vicende  storiche e sulle abitudini delle popolazioni. Infatti sembra che il presidente  americano cambiasse atteggiamento sulle misure da prendere conto la Germania a  secondo delle sue condizioni di salute. Come poi avrebbero spiegato i neurologi,  tra gli effetti collaterali del virus, vi fu una ridotta capacità a prevedere  le conseguenze delle proprie azioni. Così il leader della Rivoluzione di  ottobre Yakov Sverdlov, uomo di fiducia di Lenin dopo aver contratto la  malattia incominciò a soffrire di manie di persecuzione. Intorno all’epidemia  circolavano le notizie più strane. Il Corriere raccomandava di evitare “gli  eccessi nel mangiare e nel bere; il Popolo d’Italia voleva impedire l’abitudine  di stringere la mano; un giornale americano era per l’abolizione dei baci;  l’autorevole New York Times :” Non usare i piatti o asciugamani usati da alti  se non dopo che sono stati lavati in acqua corrente. Non avvicinate le labbra  alla cornetta del telefono e non mettete in bocca matite o altri oggetti che siano  stati usati da altri”. Non mancarono tentativi di truffa. Era offerta” La  cassetta per la cura della febbre spagnola spedita contro vaglia postale”, e  mascherine confezionate con “quattro- cinque fogli di carta con cui ripararsi  dalle secrezioni”. Fu disinfettato il Teatro alla Scala furono chiusi molti  locali pubblici e cinema. Con un provvedimento del Prefetto di Milano sono  vietati tutti i cortei funebri… Ѐ vietato l’accompagnamento del viatico e per  la somministrazione di esso il solo sacerdote ufficiante e gli stretti  familiari dell’infermo potranno accedere alla camera di questo. Ѐ vietato anche  il suono della campane e la chiusura dei portoni per annunziare l’agonia e la  morte degli infermi”. In Italia si verificarono due ondate di influenza nel 1918:  una fra la fine di aprile e giugno che passò senza conseguenze, seguita da una  seconda che a luglio dalla Calabria imperversò su tutta la Nazione fino al  gennaio 1919. Paradossalmente come sostiene lo storico della medicina  Cosmacini, la Gande Guerra rappresentò una svolta per la scienza medica che  d’allora iniziò i suoi progressi. Infatti di fronte alle ferite e alle  infezioni le ricerche furono accelerate e dopo alcuni anni furono scoperti i sulfamidici  e gli antibiotici. Ora ricordiamo un’abitudine- che non ha niente a che vedere  con le malattie-ereditata dalla battaglia del Piave: quella di fare colazione  col caffè. I fanti per non dormire dovevano bere caffè, fino allora riservato  ai borghesi. Ogni mattina- secondo una circolare- dovevano essere distribuiti  otto grammi di caffè e dieci di zucchero. La dose veniva sempre aumentata. I  soldati tonati a casa, continuarono a bere il caffè al mattino,  modificando così nel tempo la prima colazione  degli italiani. 
 

 
  
 
17 maggio 2017
  
  
la manifestazione
R. CHIABERGE “1918. La Grande  Epidemia”, UTET, 2016
  F. M. SNOWDEN,  “La Conquista della Malaria”, Einaudi, 2006
  A. GIBELLI, “La Grande Guerra  degli Italiani”, Bur, 2014
A.  CAZZULLO, “La Guerra dei nostri nonni”, Mondadori, 2014