Il caso Montesi fu uno dei gialli più discussi e occupò le pagine dei giornali –   anche quelli scandalistici – per anni. Tutto ebbe inizio l’11 aprile 1953. Sulla spiaggia di Tor Vaianica, zona a venticinque chilometri circa da Roma, era stato trovato, parzialmente immerso in acqua, il cadavere di una ragazza, che risultò poi scomparsa da due giorni da casa. È seminuda: le mancano le scarpe e le calze, la gonna e il reggicalze. Si chiamava Wilma Montesi. Abitava a Roma, figlia di un falegname, aveva ventun anni essendo nata nel 1932. Era fidanzata con un agente di polizia e aspirava ad entrare nel mondo del cinema ed aveva fatto già da comparsa in alcuni film. Il cadavere viene portato all’obitorio, dove viene identificato dalla famiglia. L’esame autoptico attribuì la morte a “sincope dovuta a pediluvio, e confermò che la ragazza non aveva subito violenze e stranamente il volto era ancora truccato e presente lo smalto sulle unghie nonostante la possibile permanenza in acqua di due giorni. Nel sangue non c’erano tracce di stupefacenti. Secondo i genitori pochi giorni prima si era ferita a un tallone. Quindi deve aver pensato che un pediluvio avrebbe procurato giovamento all’irritazione del tallone. Entrando in acqua, essendo anche nei giorni del ciclo, sarebbe scivolata e, perdendo i sensi, sarebbe annegata. Ma come spiegare Tor Vaianica, dal momento che era stata vista prendere il treno per Ostia? Come aveva fatto il cadavere a trovarsi a diciassette chilometri da Ostia ? Con un po’ di fantasia si spiegò lo spostamento del corpo a una combinazione di venti e correnti marine. Tutto sembrava portare all’archiviazione del caso con l’ipotesi dell’incidente e dell’annegamento accidentale. Poco tempo dopo si trasformerà in uno dei casi più clamorosi che l’Italia abbia visto. Passano alcune settimane e il 4 maggio “il Roma”, quotidiano napoletano, scrive che la vittima era stata vista nei pressi di Tor Vaianica in compagnia del “figlio di una nota personalità politica governativa” e si chiede: “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?”. E il giorno dopo il “Merlo giallo” giornale di estrema destra pubblica una vignetta dove un piccione viaggiatore porta al becco un reggicalze e scrive :”Dopotutto le note personalità cui allude il Roma non sono poi tante e non possono nemmeno sparire senza lasciare tracce come piccioni viaggiatori”. Il riferimento porta a Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del Consiglio, Attilio, e dato come probabile successore di De Gasperi. Piero è un musicista che usa il nome d’arte Piero Morgan quando dirige una orchestra di jazz e risulta fidanzato di Alida Valli. Ma nonostante questo passano ancora alcuni mesi e sembra che tutto venga dimenticato. Poi, a ottobre, un giornalista, Silvano Muto, proprietario e direttore della rivista “Attualità” parla dell’omicidio di Wilma attribuendolo ad alcuni esponenti noti della Roma bene e parla di orge e di traffico di droga. La ragazza sarebbe morta durante un’orgia nella tenuta di Capocotta, presso Castel Porziano, di proprietà del marchese Ugo Montagna e frequentata da gente importante. Colta da malore, sarebbe stata a Tor Vaianica e lì abbandonata. Silvano Muto, querelato da Montagna, ritratta. Poi ritorna sull’argomento e cita due ragazze che sanno tutto. La prima è Adriana Bisaccia che vuole fare carriera come attrice, vive col suo amante e passa il tempo nei caffè di Piazza di Spagna. Al processo smentisce tutto, ma quando la stampa racconta tutto su di lei, compresa la vita privata, non regge e deve essere ricoverata in una clinica psichiatrica. La seconda ragazza è Anna Maria Moneta Caglio, figlia di un notaio, con un corso d’arte drammatica a Roma alle spalle, presunta fidanzata del marchese Ugo Montagna. La chiameranno “cigno nero” dal colore dell’abito e dal lungo collo e ironicamente “Miss Querela ‘54” per averne collezionate una trentina. Dopo aver rilasciato le sue versioni sul delitto, considerandosi in pericolo di vita, si nasconde in un istituto religioso, in una casa di suore a Montemario. Portata in tribunale dichiarò di essere stata l’amante di Montagna e di aver visto la Montesi nella macchina del marchese poche settimane prima della morte e con l’aiuto di un gesuita presenta un memoriale in cui accusa Piccioni e Montagna responsabili della morte di Wilma. Una copia viene mandata al Papa. Intanto compare un dossier stilato dal colonnello dei carabinieri Pompei con cui si accusa Montagna di essere stato sfruttatore della prostituzione, spia, criminale. A questo punto viene aperto un nuovo processo e entra in scena il giudice istruttore Sepe. Fa arrestare Adriana Bisaccia e fa perquisire la casa di Muto. Sepe non ha dubbi: Wilma non è morta di annegamento. Fa arrestare Piccioni e Montagna e indizia di reato l’ex questore Polito. Non lo ferma neanche l’alibi presentato da Piccioni. Prima dimostra di essere stato in compagnia di Alida Valli, poi tornato a casa si ammala di tonsillite e si mette a letto. Tutto testimoniato da persone insospettabili. L’opinione pubblica e i giornali volevano ad ogni costo un colpevole ed era difficile a chi doveva fare giustizia  resistere a questo clima in cui si pretendeva la verità a qualunque costo. Non si contavano i memoriali e le interviste. Anche la famiglia Montesi – genitori, zio e sorella – si lasciò coinvolgere pur di guadagnare del denaro. Un giornalista raccontò al processo che la madre di Wilma si offrì di scrivere un articolo avallando pettegolezzi, ma il giornale avrebbe dovuto farsi carico delle spese del matrimonio della figlia. Intanto il 19 settembre 1954 Attilio Piccioni, intuendo l’imminente arresto del figlio, che avverrà due giorni dopo, si dimette da ministro degli Esteri. Passa ancora qualche anno. Gli imputati vengono liberati e s’incomincia a parlare del processo che si apre solo il 27 gennaio 1957 a Venezia, tre anni e nove mesi dopo la morte di Wilma. Non mancano, durante il processo, episodi comici. Un giorno si presenta a testimoniare il mago Orione e racconta una serie di fatti inventati. Viene condannato per direttissima a diciotto mesi di reclusione. La sentenza lo farà divertire, perché pensa al vantaggio pubblicitario. Verso la fine un altro protagonista, un certo Simola, è il protagonista di un’altra farsa. Condannato a una pena detentiva prima dell’inizio del processo, si presenta come testimone per distrarsi un po’ e passare qualche giorno fuori dal carcere. Raccontò di aver distribuito pacchi di cocaina, datagli da Ugo Montagna, a varie persone e alle ospiti delle case di tolleranza. Parlava con aria divertita facendo anche divertire i presenti con particolari comici. Poi ritrattò tutto e fu riaccompagnato in prigione. Il 28 maggio 1957 viene emessa la sentenza; assoluzione con formula piena per Piccioni, Montagna e Polito. La lettura dura solo due minuti. Piccioni, il maggiore imputato, come disse Montanelli, aveva la sola colpa di portare quel cognome. Nessuno aveva dimostrato che Wilma fosse stata a Capocotta. Eppure la sinistra per anni rivolse ai democristiani l’appellativo di Capocottari. Non si trovò neanche un grammo di cocaina. Non sapremo mai se il caso Montesi sia stato un delitto, una disgrazia, una montatura, una manovra politica o come scrisse un giornale inglese, “il più grande scandalo avvenuto a Roma dopo i tempi di Nerone”.Facciamo ora un passo indietro di cinquant’anni rispetto al delitto Montesi e siamo nel 1902. A fine agosto si consuma in un appartamento di Bologna un delitto che appassionerà l’opinione pubblica e passerà alla storia come delitto Murri. La vittima è il conte Francesco Bonmartini. La famiglia è in vacanza al Lido di Venezia, ma il conte torna a casa e dopo pochi giorni dall’appartamento proviene un odore sgradevole. Nessuno risponde alle suonate della custode e del cognato e quindi chiesero l’intervento della polizia. Il commissario diede ordine di abbattere la porta e fu così trovato il corpo del conte nell’anticamera, in stato di decomposizione. Potrebbe sembrare a prima vista un delitto come tanti altri, ma suscitò clamore per il cognome della famiglia della moglie della vittima: Murri. Chi erano i Murri ? Augusto Murri era una celebrità (Da non confondersi con Romolo Murri, sacerdote e politico, fondatore dell’impegno sociale dei cattolici, poi scomunicato). Scienziato di fama mondiale, professore all’Università di Bologna, medico della casa reale e di tanti ministri, il più grande clinico di quel tempo. Da qui l’interesse dell’opinione pubblica e dei giornali per la morte del genero. Si sposa con Giannina Murri (solo omonima) e dall’unione nascono tre figli: Tullio, Linda e Tullio, così chiamato perché il primogenito era intanto morto in seguito a un attacco di epilessia che nessuno era riuscito a curare. Linda nacque nel 1871 e fu chiamata Teodolinda, come la nonna paterna. Fu lasciata dai nonni che fecero allattare da una balia, ma quando fu colta da un attacco di dissenteria, i nonni terrorizzati la restituirono ai genitori. Fu una giovinezza difficile. Accusava ogni tipo di malessere, era triste, piangeva spesso, era legatissima al padre, che vedeva raramente. La madre le aveva imposto di bere ogni mattina latte freddo di capra senza zucchero, ma Linda lo odiava e un giorno lo buttò dalla finestra. Il padre, saputolo, le proibì di parlargli. Non frequentava scuole pubbliche, come il fratello più piccolo, avendo a casa i maestri privati. I due crebbero così legatissimi e li unì un amore ossessivo, dipendente. La loro vita era regolata rigidamente. Sveglia alle sei del mattino, bagno sempre nell’acqua fredda, ginnastica. Poi studio e lavori domestici. Colazione, passeggiata anche sotto la pioggia o la neve, studio al ritorno e lavori domestici fino alle sei del pomeriggio. Compiuti i dieci anni ottiene di consumare i pasti in compagnia dei parenti e di andare a letto alle nove di sera. Fino a 17 anni le è proibito frequentare persone estranee. Quando il padre la isola per i motivi sopra detti, incontra un uomo, il medico Carlo Sacchi che frequenta suo padre. A poco  a poco Linda s’accorge che l’amicizia si trasforma in innamoramento. Ma questo lo avvertono anche i genitori e lo allontanano da casa. A Linda dicono che il medico si era vantato in giro di averla conquistata, suscitando imbarazzo in famiglia. Poi l’incontro col futuro marito. A Padova, ospite di un’amica di famiglia, Teresa Crovato, conobbe Francesco Bonmartini. Dopo un corteggiamento molto discreto, la chiese in moglie. Lei non accettò, perché innamorata ancora di Carlo Sacchi. Poi si fidanzò ufficialmente nel 1892. Il conte non aveva cultura né professione e nonostante fosse stato allevato da un vecchio prete, è privo di sensibilità pur amando la Musica. Linda lo sa, tanto che scrive nelle sue memorie: “Aveva un fondo d’arroganza, di presunzione, di furfanteria, che dispiaceva molto a mio padre”. Il matrimonio fu celebrato il 17 ottobre 1892 e poi si stabilirono a Padova. Qui si rende conto dell’errore fatto. Vide che il vecchio prete faceva cuoco e cameriere, che la cosa era priva di ogni conforto, che il marito non aveva amici e che non gradiva che lei ostentasse il suo amore per la cultura. Un giorno arrivò a dirle: “Tu sei troppo istruita. La donna istruita non è una buona donna di casa e si lascia sopraffare dalla servitù. Sai cosa dovrebbe fare una donna ragionevole ? La calza e tenere in ordine gli abiti de marito”. Nell’aprile del 1894 nacque Maria Augusta, che il padre non volle vedere per tre giorni perché desiderava un maschio. I litigi si fecero più  frequenti quando Francesco volle iscriversi all’Università per la laurea in medicina. Non aveva però il diploma scolastico e chiese al professore Murri di aiutarlo. Murri disse di no: non voleva andare contro legge. Non si sa come, ma il conte riuscì alla fine a entrare all’università di Camerino. Intanto Linda era incinta per la seconda volta. A proposito di questa nascita disse a Linda: “Questa volta fa che sia un maschio. Se nasce un’altra femmina la prendo per una gamba e la butto dalla finestra nel letamaio”. Il maschio nacque il 18 gennaio 1896 sottopeso e malaticcio. Linda si trasferì a Bologna dai genitori per avere le cure per sé e per il figlio, mentre Bonmartini va a Camerino per studiare. Tornarono a Padova qualche mese dopo, ma Linda volle che dormissero in stanze separate. Poi il conte si trasferì a Bologna per essere vicino a Camerino e tornarono tutti nella città della famiglia Murri. La situazione non faceva altro che peggiorare e alla fine Linda chiese la separazione legale che verrà accordata dal tribunale di Padova il 26 ottobre 1899. Quello stesso giorno “l’Avanti” segnalò l’iscrizione fasulla all’università di Camerino, per cui si trasferì prima a Firenze e poi a Roma dove si laureò. Intanto Linda aveva rivisto Carlo Sacchi che era diventato un bravo laringoiatra. Incominciarono a incontrarsi di nascosto con la complicità di una cameriera di Linda, Tisa Borghi, che aveva avuto anche una breve avventura con Sacchi. Intanto il fratello Tullio prende una seconda laurea in lettere. La prima era in legge, ma aveva smesso di fare l’avvocato perché deluso del modo in cui si amministrava la giustizia. Nel 1902 fu nominato direttore de “La Squilla” organo di stampa della federazione socialista bolognese. Nello stesso anno viene eletto consigliere provinciale nella lista popolare, prendendo più voti di Giosuè Carducci, candidato nella lista dei moderati. Andava spesso a trovare la sorella per raccontarle le sue disavventure. Il conte Bonmartini intanto, dopo la laurea pretendeva di essere assistente del prof. Murri, ricevendone ancora una volta un rifiuto. Intanto era avvenuta una riconciliazione tra Linda e il conte. Francesco chiese allora a Linda di intervenire presso il padre. Dopo la risposta negativa, decise di trasferirsi a Padova con i figli. Linda era disperata. Tullio intanto vuole vedere la sorella felice e decide il delitto. Chiede del curaro a Sacchi e crede di poterlo iniettare al conte con l’aiuto dell’amante Rosina Bonetti. Ma il tentativo fallisce. Avendo saputo che il 28 agosto il cognato deve tornare a Bologna per pagare l’affitto dell’appartamento che doveva lasciare decise di ripetere il tentativo. Dopo una breve colluttazione riesce ad ucciderlo. La perizia legale stabilirà che la vittima aveva ricevuto tredici colpi di arma da taglio, fra queste una aveva trapassato lo sterno e un’altra reciso la carotide. Compiuto il delitto, Tullio si lava le mani sporche di sangue in un lavamano pieno d’acqua che non svuota. Apre i cassetti del comò, buttando a terra il contenuto. Prende i gioielli della sorella che poi butterà in mare. Mette sotto le lenzuola del letto delle mutandine di raso, sul tavolo una bottiglia di champagne svuotata. Nel vaso da notte espone capelli da donna. Prende il portafoglio del morto di tutto il denaro e lo butta a terra. Durante l’omicidio Tullio aveva subito delle ferite alla mano. La polizia pensa a un omicidio a scopo di furto con l’aiuto di una prostituta. Tullio confesserà il delitto allo zio Riccardo che informa subito il fratello e la nipote. I funerali di Bonmartini non vedranno nessun rappresentante della famiglia Murri. Incomincia a circolare la voce della loro colpevolezza e ai giornali giungono diverse lettere anonime in cui li indicano come colpevoli. Intanto viene scoperta la relazione di Linda e di Sacchi. L’11 settembre Augusto Murri va a prendere la figlia in Svizzera e il dodici rivela al giudice istruttore la colpevolezza del figlio Tullio. A poco a poco vengono arrestati tutti i protagonisti. Quando la polizia andò a prendere Linda, il padre l’abbracciò piangendo e cadde a terra svenuto. Il processo iniziò il 21 febbraio 1905 a Torino. In 104 udienze furono ascoltati 420 testimoni. Fra gli avvocati di Linda c’era il famoso Arturo Vecchini. I giornali dedicarono al processo intere pagine. Linda fu descritta come una donna capace di sottomettere chiunque, tanto da ipotizzare una relazione incestuosa con il fratello e persino col padre. Indagarono sulla sua infanzia e la descrissero come una prepotente che simulava malattie per attirare l’attenzione della famiglia e poi per ricattare il marito. Quando gli avvocati capirono che tutto era perduto, puntarono sull’infermità mentale. Tullio si fingeva pazzo in aula raccontando particolari che poi ritrattava. Quando vedeva la sorella piangere, inveiva contro la corte. L’arringa dell’avvocato Arturo Vecchini valse l’applauso del pubblico: “Povera creatura di carne e ossa, ella cadde quando la debolezza fisica impose la debolezza morale! E per la colpa di adulterio, per il peccato di fragilità femminile, non per gli indizi che crearono, deformarono, ingigantirono, la dicono rea di assassinio! Per la colpa, per il peccato d’amore, ogni bocca ignota schizzò su di lei la sua rabbia, ogni ruota passò sul suo corpo! L’accusano d’aver fatto uccidere il padre dei suoi figli, d’aver armato di pugnale il fratello gittandolo in fondo agli abissi … le danno l’untuosa ipocrisia di Tartufo mista alla onesta reticenza di Jago, la perversità truce di Lady Macbeth, che goccia sangue dalle piccole mani; la libidine sfrenata di Messalina, che sotto gli angiporti assorbe i colpi di cento! … Perché Linda Murri avrebbe voluta, meditata, fatta eseguire la strage ? Per odio ? Per odio dell’uomo, cui non potendo dare più l’amore, diede tutte le benevolenze, tutte le indulgenze ? … Per conquista di maggiore libertà ? E non l’aveva ella intera ? … Per cupidigia di lucri ? Figliuola prediletta di un uomo, che aveva maggiori fortune di quante non possedesse il marito, che cosa poteva mancarle, che solo avesse desiderato ? … Per paura ? L’idea peregrina è del pubblico ministero, il quale, postosi in cerca d’una causale che avesse apparenza credibile, non ha trovato, pover’uomo, di meglio! Paura di che ? Paura, egli dice, che il peccato d’amore giungesse a notizia di Bonmartini … Una tale causale è ridevole; altrimenti la storia non ricorderebbe una sola strage degli innocenti, ma una perpetua ecatombe, per quante son mogli infedeli e mariti infelici”. Il 21 agosto 1905 il pubblico rimase in aula per lunghe ore, nonostante il caldo, per aspettare la sentenza. Tullio Murri ebbe un collasso e fu portato in infermeria; venne riportato in aula quasi di peso. Fu giudicato colpevole di omicidio premeditato e di furto, venne condannato a trent’anni di carcere; le attenuanti lo avevano salvato dall’ergastolo. Ebbe un collasso alla lettura della sentenza. Dieci anni a Linda Murri che svenne, dieci a Carlo Sacchi riconosciuto, come Linda, “complice non necessario nell’omicidio premeditato”.La folla fuori dall’aula era in tumulto: chi sosteneva che la pena era troppo lieve, chi invocava l’assoluzione per tutti. Anche i giornali furono di parere diverso: “l’Avvenire d’Italia! Scrisse, “La campagna contro gli assassini di Bonmartini è stata una campagna santa”. “L’Avanti” titolò: “Sentenza macello” e insinuò che con i Murri si era voluta colpire la corrente laica in Italia. Subito dopo la condanna si moltiplicarono gli appelli per la grazia da cittadini di tutto il mondo e non mancarono gli appelli di artisti e scrittori e uomini politici tra cui: Romolo Murri, Morselli, Amilcare Cipriani, Eleonora Duse, Matilde Serao, Gaetano Salvemini, Ugo Ojetti. La vicenda commosse profondamente Giovanni Pascoli, che dopo aver chiesto la grazia per Tullio, li ricordò, padre e figlio, nel suo letto di morte. Anche la poetessa Ada Negri era convinta della innocenza di Linda, tanto da dedicarle una poesia dal titolo “Per un’accusata”, che così recitava “Tu cerchi, nel sogno, due teste / Di bimbi – i tuoi bimbi . lontani: / non v’è sangue sulla tua veste, / non vi è sangue nelle tue mani”. Linda Murri fu scarcerata nel maggio 1906, l’anno successivo alla sentenza, graziata da Vittorio Emanuele III. Sembra che la figlia del re si era ammalata di un male sconosciuto e che il prof. Murri l’aveva guarita. Andò ad abitare a Porto San Giorgio in una villa contornata da 140 ettari di terreno. Nel 1926 sposò il prof. Francesco Egidi, precettore dei figli avuti dal marito. Trascorse gli anni trenta scrivendo articoli per “il Giornale d’Italia” e libri di metapsichica firmati con lo pseudonimo “Anhelus”. Un libro dal titolo “Metapsichica e Scienza” ebbe la prefazione di Emilio Servadio. È morta nel 1957 a Roma in via Sistina dopo sette anni di paralisi. Il prof. Enrico Morselli aveva scritto di lei nella perizia psichiatrica: “Linda è molto istruita, ma non fa pompa della sua istruzione; noi diremo piuttosto che la stessa sua forza di intelletto la imbarazzi. Dotata di non comuni capacità mentali, raggiunge negli studi classici un grado molto superiore alla media delle donne della sua casta: ma la sua indole, squisitamente muliebre, la portava lontano dalle occupazioni virili, e nelle cure domestiche più modeste essa ha trovato il naturale modo di spiegare la sua attività pratica. Linda è una donna dal gusto fino riguardo di tutte le manifestazioni della mente umana … In ragione del pessimismo, più volte alla Linda ha sorriso, nonostante la sua sensibilità al dolore, l’idea della morte: tale immagine era dovuta in lei, come in tutte le persone melanconiche, all’intolleranza del dolore stesso. Anche da bambina desiderava morire, ed in molti momenti della vita, avvenuto il disinganno sul Bonmartini, perdurando nell’intimo suo la lotta fra la passione ed il sentimento del dovere, quella idea fatale è ritornata sino a concretarsi nel pensiero del suicidio. Linda ci ha detto di avere seriamente pensato a togliersi la vita sulla fine del 1898 e nei primi mesi del ’99, quando si accorse della fiamma che la riscaldava: se si è trattenuta dal funesto passo, fu solo per amore del padre e dei due figli”. Tullio Murri, condannato a 30 anni di carcere, fu scarcerato a Viterbo nel 1919 dopo averne scontati 17. In galera aveva scritto numerosi libri (romanzi, racconti, poemi). Libero, pubblicò a proprie spese un’inchiesta sulla situazione carceraria intitolata“Galera” tradotta anche all’estero. È morto nel 1930, gridando la sua innocenza in un memoriale e in un romanzo dal titolo “Fuori del pelago” accusando Carlo Sacchi di essere stato l’ideatore del delitto, realizzato da un sicario. Si sarebbe confessato colpevole per amore della sorella. Si sposò ed ebbe una bambina. Alla morte lo portò un tumore, tre anni prima del padre. Sempre il prof. Enrico Morselli, nella perizia psichiatrica, volendo marcare l’infermità mentale, scrisse: “La personalità psichica di Tullio presenta talune note di mancata evoluzione, quasi di infantilismo, in quanto riproduce fasi primitive della filogenia ed ontogenia mentale. Dentro un corpo atletico e vigorosissimo (mt 1,85 d’altezza, 100 kg di peso) sono in lui alcune deficienze, che perpetuano uno stadio d’incompleta evoluzione (ontogenesi) mentale. … Egli eredita dalla nonna, dagli zii, dalla madre, il temperamento nevrotico … Egli è un primitivo, in quanto vivi sono in lui i concetti di un diritto atavico di famiglia e di una connessa legge di giustizia individuale; egli associa poi a questi due fenomeni psichici di primitività, oltre note di difettosa evoluzione mentale, fra cui la tendenza al pregiudizio, lo svolgimento arretrato di certe manifestazioni dell’affettività famigliare, e la sua scarsa inibizione volitiva. Egli è un disequilibrato, tanto nelle manifestazioni della vita fisiologica, quanto, e più, in tutte quelle della vita mentale. Egli è un impulsivo, e questa qualità sua si presenta a periodi in tutte e tre le sfere dell’attività psichica, nel pensiero, nel sentimento, nella volontà”. Carlo Sacchi, condannato a 10 anni di carcere, muore ne 1910 nel penitenziario di Conversano (BA), senza aver confessato alcuna colpa. Come succede ancora oggi, anche le due storie drammatiche sopra sintetizzate entrano in un circo mediatico-giudiziario applicato alla politica. Ma, come sempre, le tragedie diventano farse. Abbiamo già sopra citato il neologismo inventato dai comunisti, “Capocottari” rivolto ai democristiani. E Pietro Ingrao inventa uno scioglilingua: “A Capocotta poca coca cape ?”. Risposta: “Non poca coca cape a Capocotta?”. Le bugie, le omissioni, i sospetti si susseguono. Così Montanelli sintetizza il caso: “Un grande puzzo: abbastanza per impiantarci sopra uno scandalo, troppo poco per derivarne un verdetto in tribunale”. E sul marchese Montagna: “Io ho il sospetto che invece della cocaina egli prenda bicarbonato e che non beva lo champagne senza provare qualche rimpianto per la gazzosa … È l’eroe nazionale che passa cantando «Cosa mi importa se il mondo mi rese glacial», e intanto con la coda dell’occhio insegue il deretano di Anna Maria Caglio che passa ondulando, e sul quale naufragheranno miseramente tutte le sue consumate astuzie di gran furfante internazionale”. Non è male la domanda fatta durante il processo da un Pubblico Ministero: “Signorina, ricorda di essere stata gelosa di una donna da lei soprannominata «la tardona» o «la dromedaria». Sul caso l’ultima parola spetta a Giulio Andreotti: “Come è morta Wilma solo Iddio lo sa”. Ma anche l’altro caso che ha appassionato gli Italiani, il delitto Murri, non è risparmiato dalla satira. Il giornale umoristico “La Rana” pubblica un pezzo, “L’invidia dei Parigini” (Il bel delitto di Bologna). È un fatto che non si crederebbe se non si leggesse sui giornali francesi. Parigi, detta anche la moderna Babilonia, la capitale del mondo, eccetera, invidia Bologna la dotta, capitale delle mortadelle. E non l’invidia già per la sua Università, per i suoi tortellini, per la sua acqua di felsina. Nossignori, essa invidia Bologna per la sua bella tragedia di via Mazzini, con morti e feriti. Se non credete alla Rana di Bologna, spero che crederete al Figaro di Parigi, il quale scrive: “Questo delitto italiano è veramente un bel delitto” ed al Matin, sempre di Parigi, che aggiunge: “Son ben felici gli Italiani, i quali hanno ciò che manca di più a noi in questo momento: essi hanno l’affare sensazionale, il bel delitto ben completo, ecc. ecc. Finalmente l’Italia e Bologna hanno trovato modo di farsi invidiare dalla Francia e da Parigi. E se il delitto di Bologna è il più bel delitto del secolo, l’invidia di Parigi è certo una invidia molto giustificata”. E in un’altra occasione, più seriamente, scrive, a proposito dell’isterismo che s’impossessa della stampa e del pubblico: La stampa clerico-conservatrice, che per solito ama le tenebre, vuol far la luce togliendo le macchie che coprono le misteriose figure degli autori del truce misfatto. La stampa ministeriale invece che parla sempre di luce, si affatica per fare il buio e nascondere più o meno i delinquenti. Ma in mezzo al doppio lavoro, ed a tante minchionerie dette e stampate, il buon pubblico resta sempre … più minchione di prima”. Tutto sommato, le considerazioni, scritte nel 1902, sembrano ancora attuali.

ShinyStat
11 aprile 2009

E. RÒISS, “Il delitto Murri”, Arnaldo Forni editore,1974
H.M. ENZENSBERGER,“Politica e crimine”,Bollati Boringhieri,1998
C. TOMI, “Assassine” , Oscar Mondadori,1999
U. ZATTERIN, “Il caso Montesi”,Europeo cronaca nera,2009

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