
Secondo  appuntamento dei “Pomeriggi Culturali”, sempre nella cornice della villetta  della Biblioteca Comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria, questa volta si  tratta di un approfondimento di una grande personalità della cultura italiana,  nella rubrica intitolata “Uomini contro”, e, nello specifico la figura di Pier  Paolo Pasolini, tratteggiando per ovvi motivi “logistici”, quindi di tempo,  visto la sua poliedrica figura culturale di poeta, scrittore di romanzi e di  teatro, regista, pittore, gli aspetti relativi al Pasolini  giornalista ed il momento della morte.
    Nella sua  breve introduzione Gianni Aiello ha voluto significare il termine della rubrica  “Uomini contro” e cioè «coloro che hanno il coraggio della diversità, coloro  che vanno avanti, proseguendo il loro percorso anche contro quando si è  consapevoli di stravolgere le regole, “Uomini contro”, anche nel tentativo di  frantumare il silenzio. Uomini contro anche “in direzione ostinata e contraria”  come ebbe a dire Fabrizio De Andrè».  
    Lo stesso  cantautore, insieme a Massimo Bubola,   prese spunto dalla morte di Pier Paolo Pasolini per la canzone “Una  storia sbagliata” registrata nel 1980 ed incisa per l’etichetta discografica  “Ricordi” . 
    La stessa  canzone recita “[…] Una spiaggia ai piedi  del letto stazione Termini ai piedi del cuore è una notte un po' concitata una  notte sbagliata [...]”, la stessa, come ebbe a rilasciare il cantautore  genovese fu una canzone che gli venne commissionata come sigla per alcuni  documentari televisivi inerenti le morti dello stesso Pasolini e Wilma Montesi. 
    Ma in  precedenza venne scritta, nel dicembre del 1975 “Lamento per la morte di  Pasolini” ,  da Giovanna Marini nel  dicembre del 1975 e successivamente ripresa nel 2003 da Francesco De Gregori  nell’album “Il fischio del vapore” (2003) […Ma  quella notte volevo parlare  La pioggia  il fango e l’auto per scappare Solo a morire lì vicino al mare Ma quella notte  volevo parlare …] anche se lo stesso cantautore romano nel 1985, dieci anni  dopo la morte di Pasolini, incideva “A Pa”, canzone facente parte dell’album  “Scacchi e tarocchi” (RCA italiana) […C'era  Roma così lontana E c'era Roma così vicina E c'era quella luce che ti chiama  Come una stella mattutina…].
    La parola  è poi passata al relatore vero e proprio Antonino Megali.  
    «Ma chi è  quel fijo de ‘na mignotta che ha scaricato la mondezza sotto casa mia? Me so  detta appena l’ho visto: pareva un sacco di stracci. E invece era n’omo.  Morto». Sono le 6,30 di domenica 2 novembre 1975 quando una casalinga, in gita  con la famiglia, fa la macabra scoperta. Poche ore prima in quell’idroscalo di  Ostia, dove erano state girate alcune scene del “Fiore delle mille e una notte”  veniva ucciso da un ragazzo di diciassette anni, Pier Paolo Pasolini. Ha la  testa fracassata, i capelli impastati di sangue,il volto sfigurato. Quell’uomo,  scambiato per “un sacco di stracci” da poeta, romanziere, critico letterario,  regista, giornalista, polemista, era stato un protagonista della vita culturale  italiana, subendo dal 1949 al 1977 (quindi oltre la fine) ben trentatrè  procedimenti giudiziari. 
    Ai suoi  funerali Moravia, facendo uso di una   retorica d’accatto- il giudizio è dell’editore Livio Garzanti- gridò: «È  morto un poeta. 
    Di poeti  così ne nascono due o tre ogni secolo». «È morto un poeta» ripeté Elsa Morante  che aveva preferito non esserci sul palco degli oratori ufficiali e per la  quale il termine aveva qualcosa di sacro tanto da considerarsi poeta (non  poetessa!), lei che pure di versi ne aveva scritti ben poco. 
    Da  ricordare che il primo, mentre si recava sul luogo del delitto, commentò  rivolgendosi a Renzo Paris, con cinismo e sarcasmo: «Tanto và la gatta al lardo  che ci lascia lo zampino». 
    Aggiungendo  subito dopo: «Ma perché non ha fatto come Visconti? Che bisogna c’era di  portarselo su un prato?». 
    La  seconda aveva interrotto i rapporti con Pasolini quando seppe che Ninetto  Davoli aveva dovuto chiedere il permesso allo scrittore per sposare la donna  della quale era innamorato. Ma sulla morte torneremo in seguito.
    Abbiamo  privilegiato di parlare del giornalista per motivi evidenti.
    Primo  perché sarebbe impossibile accennare in così poco tempo all’intera produzione  pasoliniana; secondo perché i romanzi sono illeggibili, tra le poesie poche  sono quelle da salvare, i suoi films sentono tutti il peso degli anni, i testi  teatrali irrapresentabili. 
    Ultimo,  ma non ultimo, sono proprio gli scritti ulla politica e sulla società a  coinvolgerci ancora.
    Aggiungiamo  però che non intendiamo fare  ripartizioni  sull’opera del nostro autore, perché i motivi conduttori sono sempre gli  stessi, come fu precoce la sua vocazione di pedagogo e di capo e costante la  rivendicazione del diritto di contraddirsi.
    È del  1942 l’esordio giornalistico di Pasolini. 
    A Bologna  diventa redattore capo de “Il Setaccio”, pubblicazione della Gioventù Italiana  del Littorio, con vaghe tendenze frondiste nel campo culturale – chiusa  dopo  poco mesi – e ad “Architrave”,  rivista del Gruppo  Universitario  Fascista.
    Sulla  prima di rilevante pubblicherà l’”Ultimo discorso degli intellettuali”, un atto  di accusa contro la cultura manipolata dalla propaganda; sulla seconda un  articolo intitolato “Cultura italiana e cultura europea a Weimar”, ispirato al  suo viaggio nella Germania nazista dove si era svolto un incontro della  Gioventù Universitaria dei paesi fascisti o filo fascisti (erano presenti, fra  gli altri, anche Vittoriani e Giaime Pintor).
    In esso  dice di avere scoperto aspetti della cultura europea a lui sconosciuti: «i  giovani europei con cui ho parlato mi hanno assicurato privatamente che nella  vecchia Europa l’intelligenza, come la libertà, è ancora ben viva; così viva da  non soltanto contrapporsi beffardamente e gagliardamente alla tradizione  ufficiale degli organi propagandistici, ma da adeguarsi per conto proprio, al  tempo e alla storia con un atto imprevedibile, ma ormai giustificato, di  pacificazione o di liberazione». 
    Gli anni  dell’immediato dopoguerra lo vedono collaborare al quotidiano udinese “Libertà”  , dove fa la scelta politica della sua vita. «Noi, da parte nostra, siamo  convinti che solo il Comunismo attualmente sia in grado di fornire una nuova  cultura “vera”, una cultura che sia moralità, interpretazione intera  dell’esistenza». 
    Ancora  suoi interventi sulla scuola, sul Friuli, sulla democrazia, vengono pubblicati  da “Il Mattino del Popolo”.
    Nel 1949  la svolta. Accusato di indegnità politica per atti immorali compiuti verso  quattro ragazzi, Pasolini viene espulso dal PCI.
    Così  recita lo scarno comunicato de “l’Unità”: «Prendiamo  spunto dai fatti che hanno determinato un grave provvedimento disciplinare a  carico del poeta Pasolini per denunciare ancora una volta le deleterie  influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e  di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a  progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della  generazione borghese». 
    Espulso  dal partito e poi dalla scuola lo   scrittore parte con la madre, per Roma. Qui conosce lo scrittore Sandro  Penna, si iscrive al Sindacato comparse di Cinecittà, fa il correttore di  bozze, riesce perfino a farsi pubblicare qualche articolo sui quotidiani  cattolici e di estrema destra: “Il Quotidiano”, “il Popolo di Roma”, “Libertà  d’Italia”, vende i suoi libri sulle bancarelle. 
    Roma gli  procura “stordimento” e “consolazione” la preferisce a Milano (come dirà  rispondendo ad un’inchiesta di Adele Cambria) , «cittadina di provincia come Cremona, Mantova e Bergamo, col suo  cattolicesimo dolorante, e la sua borghesia   ben pensante per diritto in quanto non priva di tradizionale dignità.  Roma non è mai stata moralmente e civicamente pura. Quindi non è corrotta».
    Fu nella  capitale che conobbe gli amici con i quali passò tutta la sua vita: Elsa  Morante, Moravia, Parise, Bertolucci, Elsa De Giorgi; poi Siciliano, Laura  Betti, Adriana Asti.
    Alberto  Moravia al suo primo incontro con Pier Paolo Pasolini lo descrisse come un tipo  piccolino, con il naso rincagnato, che vuole scrivere un romanzo intitolato  “Ferrobedò” (primo capitolo dei ragazzi di vita).
    Seguendo  il percorso giornalistico dobbiamo arrivare al 1955 per la nascita di una  importante rivista: “Officina” uscì a Bologna e a dirigerla furono Leonetti,  Roversi, e appunto Pasolini. 
    La  pubblicazione “bimestrale” era insieme   letteraria e politica. 
    Nel primo  Pasolini si occupa di Pascoli definendo rivoluzionario il suo plurilinguismo.
    Tra i  collaboratori vi furono Gadda, Bertolucci, Volponi, Calvino.
    Ma  l’orientamento era quello del Partito Comunista Italiano, tanto che alcune  poesie di Mario Luzzi furono ospitate solo per il diretto invito di Pasolini.
    Altri  suoi interventi interessarono la poesia, la saggistica letteraria, con una  posizione un po’ frondista attaccando i cànoni del “realismo socialista”  imposti allora da Salinari.
    Nel 1959  un’attacco, feroce quanto gratuito, contro Pio XII ne accellerò la chiusura. 
    Ne  citiamo i versi finali: «Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato/davanti ai  tuoi occhi son vissuti in stabbi e porcili/lo sapevi, peccare non significa  fare il male/non fare il bene questo significa peccare/.Quanto bene tu potevi  fare! E non l’hai fatto/non c’è stato un   peccatore più grande di te». 
    Nello  stesso anno la polemica con il Sud per un articolo intitolato “la lunga strada  di sabbia sulle spiagge italiane”. 
    Lo  pubblica “Successo”, il mensile diretto da Arturo Tofanelli. Superficiale,  banale, sommaria e la condanna del Sud. 
    «Addio,  Sud, cafarnao sterminato alle mie spalle; brulichio di miseri, di ladri, di  sensuali, pura e oscura riserva di vita». 
    E sulle  donne: «Non voglio insinuare che nel Sud non ci siano belle donne: io,  comunque, in centinaia e centinaia di chilometri di litorale non ne ho viste.  Ho visto delle femminucce nere ed ineleganti, delle adolescenti gelatinose …  poveri branchi di maschi del Sud;». 
    E sulla  nostra Reggio sentenzia: «Reggio è una città estremamente drammatica e  originale, di un’angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe  vie parallele al mare, si vedono scritte come “Dio aiutaci”». 
    Ma c’è  n’è anche per Cutro: «A un distendersi di dune gialle, in una specie di  altopiano è il luogo che più impressiona di tutto il viaggio. È veramente il  paese dei banditi, come si vede in certi westerns. Ecco le donne dei banditi.  Ecco  i figli dei banditi. 
    Si sente  che siamo fuori dalla legge, o, se non dalla legge, dalla cultura del nostro  mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che tornano al loro atroce  lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di pazzia». 
    Infine,  secondo lo scrittore, a Taranto le donne “fanno il bagno clandestino” ma poi  sono  piccoline piccoline, nere come  vermetti ma anche un pò gonfie di anche, benché magari adolescenti, con gli  occhi neri affumicati, misteriosi e insipidi”.
    Naturalmente  segue la querela del Sindaco di Cutro poi ritirata ed una del Comune con  sentenza di non doversi procedere.
    Ma è con  la collaborazione  a “Vie Nuove”  settimanale del PCI che Pasolini comincia a diventare personaggio. Sporadiche  collaborazioni c’erano già state sul settimanale,ma ora gli viene affidata una  rubrica fissa “Dialogo con i lettori”.
    La  Macciocchi, che allora lo dirigeva, confessa, nelle sue memoria d’ignorare che  fosse stato espulso dal PCI per indegnità morale. 
    Entrò in  redazione, racconta, vestito con blu jeans   stretti da un cinturone di cuoio con le borchie, la camicia aperta sul  collo, l’aria un pò canagliesca, il tutto contrastante con la sua gentilezza  e  timidezza, con l’impaccio di un  giovanotto ben educato.
    Ignoravo  che fosse omosessuale, lo appresi dai redattori che, quando se ne andava  sghignazzavano “quel frocio”.Lo scrittore, considera”quasi come un dolce dovere  una corrispondenza con i lettori.”E’ accetta. La posta viene prima filtrata  dalla direttrice e poi passata alla risposta del curatore. Gli argomenti posti  e i pareri richiesti sono i più disparati:un giudizio sulla letteratura  ungherese, un consiglio sul battesimo di un  figlio o su un fidanzamento, il problema del latino e qualcuno lo rimprovera  perfino per le “parolacce” o le cose poco piacevoli dei suoi romanzi. 
    Pasolini  risponde a tutti a modo suo :prolisso,  retorico,burocratico,puntiglioso,alternando finto candore politico e furbizia  intellettuale,paternalismo e populismo,fuga nel passato e pessimismo sul  presente.
    Finché  non scoppiò la tempesta.Riportiamo nuovamente dalle memorie della  Macciocchi:”non è possibile che la prosa di quell’omosessuale di Pasolini venga  letta nelle case dei proletari,dalle loro famiglie! Proclamò un giorno del  1960, nel Comitato Centrale, Mario Montagnana, cognato di Togliatti.  Allontanate questo pederasta da “Vie Nuove! ”Togliatti non sarebbe restato  sordo all’invito dal momento che aveva nel 1950 attaccato duramente Gide per lo  stesso motivo.Rifiutai- conclude la Macciocchi-di eliminare la rubrica dei  Dialoghi e così la mia fine di direttore-direttrice- era stata sanzionata.
    Pasolini  non reagì e quando qualche anno dopo,il nuovo direttore Giorgio Cingoli gli  chiese di riprendere la collaborazione,accettò senza esitare,spiegando ai  lettori che la sua assenza era stata causata da una malattia. Negli anni  seguenti aumenta il dissenso nei confronti del partito comunista e si esaurisce  il rapporto con il settimanale.
    Nel 1968,  anno cruciale,lo scrittore entra al settimanale “Tempo” titolare della rubrica  “il Caos”.
    Qui  diventa una firma, tanto che, non a caso   presentandolo, viene messe in rilievo che in passato la pagina era stata  affidata a Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte, Salvatore Quasimodo, Giovanni  Ansaldo.
    Questa  volta è Pasolini a scegliere i temi diventando eccezionali le lettere dei  lettori.
    Si parla  di politica, di costume, appunti di viaggio, recensioni, festival di Sanremo,  della tv, della droga.
    Ma pur  non avendo “Tempo” una precisa linea   politica (ospitando giornalisti di diverso orientamento politico come  Vittorio Gorresio e Enrico Mattei), mal si sopporta l’eccessiva  personalizzazione dei suoi scritti, diventati ormai una palestra dalla quale in  modo confuso alterna invito alla legalità e all’eversione, diventa progressista  e estremista, è contro il  terrorismo ma predica  la violenza, uomo dello scandalo e moralista, difendendo sempre il diritto a  contraddirsi dal momento che solo le contraddizioni permettono - a suo parere-  l’affermazione della personalità.
    D’altra  parte incominciava a capire che la sua visione del mondo – quella del  sottoproletariato urbano fedele a una cultura contadina –era superata e  prendere atto che il consumismo aveva conquistato tutti, era stato per lui un  grosso trauma politico e culturale.
    Però egli  pretendeva di rimanere fedele alla sua utopia, sia pure concepita come sogno  irrealizzabile. Anche questa volta il rapporto con il giornale s’incrina.
    Il  direttore di “Tempo”, Nicola Cattedra, dopo avergli tagliato alcuni pezzi, gli  scrive che i temi politici trattati non rientrano nella tematica del “Caos”.
    La  rubrica è sospesa. Due anni dopo Pasolini ritorna a collaborare al settimanale  ma solo con scritti di critica letteraria che verranno raccolte nel volume  postumo “Descrizioni di descrizioni”.  
    Ma quello  che veramente permette a Pasolini di essere al centro dell’attenzione e di  amplificare le sue polemiche è l’ingresso, nel 1973, al “Corriere della Sera”.
    Come era  arrivato al grande quotidiano della borghesia lombarda? Facciamo un passo  indietro. 
    Nel 1972  viene defenestrato dalla direzione del “Corriere della Sera” Giovanni  Spadolini, e sostituito da Piero Ottone, pseudonimo di Pier Leone Mignanego,  convinto che bisognava dare al giornale un’impronta meno moderata, più  stimolante e palestra di diverse e opposte opinione politiche. Nico Naldini,  cugino di Pasolini per via materna, conosceva l’ambiente editoriale milanese. 
    Quando  Gaspare Barbiellini Amidi, vice direttore del quotidiano meneghino gli fece  sapere che il giornale avrebbe gradito la collaborazione di Pier Paolo, Naldini  fece da tramite col cugino.
    Accettata  l’offerta di collaborazione il 7 gennaio 1973 esce il primo articolo contro i  capelli lunghi. 
    Seguiranno  una serie di interventi sulla politica, sul costume, sulle istituzioni, che  saranno raccolti nel volume “Scritti corsari” che l’autore riuscì a vedere  pubblicare prima di morire. 
    Ogni  pezzo suscitava reazioni sulla stampa e specialmente le critiche stimolavano  una contro risposta pasoliniana.
    Il suo  sogno si era avverato. Era diventato il geniale comunicatore, l’analista più  seguito della società italiana, il pedagogo provocatore, lo psicologo dei  comportamenti, un testimone scomodo ed ingombrante.
    Vale la  pena citare alcuni temi trattati nei suoi articoli. I capelli lunghi : “È  giunto il momento di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è  orribile, perché servile e volgare”. Sullo slogan dei jeans “jesus” “non   avrai altri jeans al di fuori di me: il fascismo non ha nemmeno scalfito  la Chiesa, mentre oggi il Neo capitalismo la distrugge”. E sul consumismo:  “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo  della civiltà dei consumi”.
    Altri  argomenti verso i quali si indirizzavano gli strali pasoliniani furono il  fascismo degli antifascisti, lo sviluppo, il progresso tecnologico, la globalizzazione,  il potere del Palazzo, il provincialismo della società italiana, la cultura che  nell’università, nel giornalismo, nella letteratura, è incapace di cogliere i  segni dei tempi.
    A rigore  non è che i suoi giudizi presentano cambiamenti rispetto alle sue idee  precedenti. 
    Ma la  possibilità di essere ospitato dal primo quotidiano italiano rende il suo stile  meno retorico, più efficace anche dal punto di vista della comunicazione.
    Alcune  prese di posizione, famosa quella ad esempio   quella – contro l’aborto – fecero si che l’autore trovasse estimatori e  difensori più  a destra che a sinistra. 
    Ben poco  da aggiungere sul libro postumo “Lettere luterane” che vede un Pasolini  riprendere i temi corsari, ma in un quadro apocalittico e drammatico. 
    La “vera  tragedia italiana” è la droga che occupa il vuoto lasciato dalla mancanza di  valori. Così per l’eliminazione della criminalità in Italia, il “luterano  Pasolini” propone due “modeste proposte”:   l’abolizione della scuola dell’obbligo e della televisione.
    Torniamo  ora alla notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 che vide la morte del poeta,  non certamente angelica come ebbe a definirla Edoardo De Filippo. Un complotto  politico l’insostenibile tesi di molti, tra i quali spiccò Oriana Fallaci. Una  fine attesa, prevista e non evitata secondo il cugino Nico Naldini. 
    Una  sciocchezza, quest’ultima, secondo l’amico Moravia. A un pittore e ad un amico  da sempre, Giuseppe Zìgaina, và la ricostruzione (o la fantasia?) più  originale.
    Pasolini  - secondo questa tesi – scelse l’anno, il mese, il giorno e il luogo della  propria morte. Aggiunge di più. La prima decisione di suicidarsi era stata  presa nella domenica dei Morti del 1969. 
    Ma  qualcosa gli fece spostare la data: l’ingresso nella sua vita di Maria Callas.  A Pasolini era già capitato di rimanere colpito da Silvana Mangano, ma solo  perchè in lei aveva visto una somiglianza fisica con la madre; ora era rimasto  letteralmente affascinato dalla cantante interprete della sua “Medea”. 
    La Callas  nulla sapendo della sua omosessualità, si era innamorata di lui e quando il  poeta le regalò un anello, lei lo baciò con trasporto pensando a una richiesta  di matrimonio. 
    “Bisognava  vedere gli occhi sbarrati di Pasolini in quel momento” , racconta l’amico  pittore. 
    Sarà in  un viaggio fatto insieme in un’isola deserta dell’Egeo che la cantante si  renderà conto dell’impossibilità del suo amore.
    Per il  poeta fu soltanto il soggetto di questi versi. “Così (ed è la prima volta,  ripeto, che mi succede) i miei occhi prendono in considerazione i lombi immondi  di donna, di carne d’uomo non fatta a somiglianza di Dio, preda del serpente e  affabulo d’amore ha PsiKiKò”. Coincidenza vuole che quella morte prima fissata  per domenica dei Morti 2 novembre del 1969 avverrà domenica dei Morti 2 novembre  del 1975, data scelta perché doppiamente sacra.
    In  conclusione, una curiosità. 
    Tra i  commenti e sulla morte del poeta giudicati più scandalosi vi è quello apparso  sulla “Gazzetta del Sud” per la penna del suo direttore Nino Calarco: “La sua scontata morte violenta non ci turba,  né ci commuove, né ci emoziona. Pasolini, figlio dell’Italia del boom economico  e dello sviluppo anomalo non cessò mai di rinunciare alla sua euforia vitale  espressa in autentiche notte di violenza psicologica e fisica, com’era abbastanza  noto a tutti e come è stato confermato dal fatto del suo ultimo incontro.  Quello che non accettiamo e respingiamo è l’omosessuale perverso come Pasolini,  cioè colui che si fa non solo apologista del costume contro la storia… ma al  servizio della sua diversità impone grazie al successo e alla notorietà la sua  falsa scienza, la sua falsa psicologia, spingendosi, per opportunismo  commerciale, fino all’ignominia della propaganda politica che in Italia  aggiunge confusione a confusione” . 
    Verrà  presentata denuncia contro Calarco per   apologia di reato, archiviata dalla magistratura.
  Eppure  l’analisi del siciliano, passionale Calarco ci sembra meno impietosa di quella,  fatta sul “Guerin sportivo” , dal padano, freddo, Gianni Brera. “Mi rimane  tutt’ora nella memoria come una sorta di sgomento: (si riferisce alla faccia  dello scrittore vista in una trasmissione tv) gli occhietti vivi e pungenti, la  fronte ampia, bozzuta e insieme degenerata per chissà quali sconquassi  ereditari, gli zigomi alti e sporgenti, il nasetto breve, la bocca larga da  femminota riuscita male, il mento peraltro ossuto e quadrato, in imbarazzante  contrasto con l’espressione, che era del satiro conscio di sé e della propria  dannazione armonica. Incasellato nel mio archivio mnemonico, quel personaggio  era già condannato al triste suo destino, ed a pensarci, ha ottenuto, la fine  che forse cercava, quasi irridendo allo scandalo cui lo costringeva la sua  ambigua natura. Ad accopparlo in quel modo orrendo è stato un ragazzo di vita  quali egli stesso aveva scoperto e reso popolare. Era la fine di un poeta  maledetto ma con “Alfa Romeo” e conto in banca”. 








AA. VV.,  "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte", Garzanti, 1977;
    E.  Siciliano, "Vita di Pasolini", Bur Rizzoli, 1981;
    N.  Naldini, "Vita di Pasolini", Einaudi, 1989;
    E.  Golino, "Pasolini - il sogno di una cosa", Bompiani, 1992;
    P.P.  Pasolini, "I dialoghi", Editori Riuniti, 1992;
    V.  Mannino, "Invito alla lettura di Pasolini", Mursia, 1993;
    P.P.  Pasolini, "Saggi sulla politica e sulla società", Meridiani  Mondadori, 1999;
  G.  Zigaina, "Pasolini e la morte", Marsilio, 2005.