Parlare di Leo Longanesi, sicuramente non è facile, vista la sua poliedrica figura (giornalista, pubblicista, editore, grafico, regista, pittore) ma a cinquant’anni dalla morte, veniva a mancare il 27 settembre, il Circolo Culturale L’Agorà ha voluto ricordarlo, soprattutto perché a ragione o a torto rimane una delle figure più importanti e controverse del panorama giornalistico e culturale italiano.
Personalità ecclettica e geniale, è stato il maestro dei più importanti giornalisti italiani del dopoguerra, ideatore di slogan e di pubblicità di successo, talent scout indubbio e scrittore di razza.
Nella sua breve introduzione, Gianni Aiello, presidente del sodalizio organizzatore, ha voluto ricordare ai presenti la forte personalità dell'intellettuale italiano,  tratteggiando anche il suo lato di pubblicitario, ricordando la campagna della Vespa nel ’55 ma anche il logo dell'Agip, frutto della creatività del geniale romagnolo.
Dopo queste brevi ma doverose premesse, la parola è passata al relatore Antonino Megali, componente del sodalizio reggino che ha raccontato il suo Longanesi in una relazione bella e coinvolgente.
Fu scrittore, pittore, tecnico, editore, disegnatore, antiquario, polemista, esteta, politica, bibliomane, artista, conversatore, umorista, eppure ai più è noto soltanto come inventore di aforismi (o apoftegmi come preferiva chiamarli).
Alcuni sono entrati nel linguaggio comune: “siamo conservatori in un Paese in cui non c’è nulla da conservare”; “buoni a nulla ma capaci di tutto”; “un’idea che non trova posto a sedere, fa la rivoluzione”.
Ecco come si presenta a soli 22 anni sull’”Assalto” di Bologna, il giornale fondato da Pietro Nenni e rifondato da Leandro Arpinati: “Sono nato a Bagnocavallo nell’agosto del 1905 …  ho bazzicato il ginnasio ed il liceo,e sono sempre passato col sei; tutto quello che non so, l’ho imparato in quegli anni. La mia ignoranza è  infinita. Ho letto solo “Margherita Pusterla” di Cesare Cantù e il discorso del senatore Borselli all’apertura dell’esposizione di Torino nel 1908; ora stò sfogliando le annate del “Risveglio educativo” diretto dal fu cav. Ignazio Izzi. Sono socio vitalizio del Touring Club e passo lunghe ore davanti alle carte  geografiche di questa  benemerita istituzione.
Ho iniziato per tre volte la raccolta dei  francobolli esteri, e se avessi trovato quello  triangolare di Guadalupa, avrei continuato. (Fu proprio a causa di questa maledetta rarità filatelica che, deluso, mi dedicai alle lettere...) Le apparenze hanno per me uno straordinario valore e giudico tutto dall’abito. Il mio motto  è: si vede subito. Non conosco “il più profondo dell’io” ed ho il coraggio di essere superficiale. Rispetto l’artitmetica, la simmetria, la prospettiva. La modernità non mi esalta né mi sorprende; se l’automobile mi è utile me ne servo e basta. Non riesco a capire  il congegno del grammofono, ma ciò non mi preoccupa. Credo che i concimi chimici siano dannosi alla terra e che il corpo umano per vivere a lungo non debba essere toccato dai ferri chirurgici. Adoro i caratteri bodoniani e le ragazze dalle gambotte cubiste …
E qualche anno dopo (1926) completerà questa sua curiosa autobiografia su “L’Italiano” scrivendo “ [… ] fin da ragazzo ho voluto un gran bene ai   lunari, al libro dei sogni, alle carte da gioco, alle etichette delle bottiglie, ai ricami ottocenteschi della nonna e a tutte quelle cose che oramai sono giù di moda. Nella vecchia casa dei nonni in Romagna, si conservano ancora sotto campane di vetro i pettirossi e i martin pescatore imbalsamati: là sono cresciuto, là ho  letto le vite dei grandi briganti, là ho  imparato i proverbi, là ho saputo che Garibaldi  aveva fatto l’Italia, là ho bevuto il primo  bicchiere di vino, là, in cucina, fra i vasi di  ceramica bianchi, le “mazzette” i finti piatti cinesi, i bicchieri nani di pietra verde, fra un odore di salvia e di prezzemolo, ho imparato ad essere italiano …].
Si, Longanesi apparteneva ad una famiglia borghese e benestante e a Bologna aveva una casa piena di quadri, che Maccari definì “di Montecatini” per metterne in rilievo la scarsa qualità. Fu forse la visione di tutte queste  “buone cose di pessimo gusto” di gozzaniana memoria, a spingere il giovane Longanesi alla ricerca di raffinatezze e del bello che l’accompagnò per tutta la vita. Il clima storico in cui si forma è noto: lo scoppio della prima guerra mondiale, Caporetto, la vittoria  mutilata, e poi i Reduci, D’Annunzio e la lotta contro i socialisti.
Naturale il suo punto di arrivo: “appena infiliamo i calzoni lunghi, corriamo a iscriverci al Fascio”. Il giovane Leo (Leopoldo per l’anagrafe) aveva intuito che il Fascismo allora movimento, rappresentava una rottura definitiva con il passato, che aveva in sé qualcosa di rivoluzionario. Si aggiunga il suo spirito anarchico, la sua ammirazione per Mussolini (come  molti italiani fu più che fascista, mussoliniano), la sua anima romagnola, la vis polemica e si capisce la spontaneità della sua scelta. La sua tendenza alla beffa, all’aggressività, talora all’arroganza, la sua voglia di protagonismo fu giudicata una sorta di compensazione alla piccola statura, un cruccio che non l’abbandonò mai per tutta la vita. Solo qualche volta riuscì a scherzare sull’argomento,  come quando si definì “carciofino sott’odio”. E  a Mario Pannunzio nel secondo dopoguerra dirà “Se io avessi avuto la fortuna di essere alto come lei, a quest’ora sarei perlomeno presidente della Repubblica”.
Ma torniamo agli anni giovanili di Leo. I suoi ideali, le sue passioni, furono quelli della sua generazione.
Ennio Flaiano che per ragioni anagrafiche – aveva solo dodici anni all’epoca della marcia su Roma – non potendo partecipare a quella ubriacatura rivoluzionaria, molto più tardi, quasi con nostalgia, rievocando quel periodo così si rivolgerà all’amico Maccari: “Mino, ti ricordi la Marcia su Roma?/ Io avevo dodici anni, tu ventuno/ Io in collegio tornavo e tu a Roma/guidavi la squadraccia dei trentuno/ Mino, ricordi? Alle porte di Roma/ ci salutammo. Avevi  il gagliardetto/ il teschio bianco, il pugnale tra i di denti./Io m’ero tolto entusiasta il berretto/ ricordi? Tu eri perfetto nella divisa di bel capitano/ io salutavo agitando il berretto. Tu andavi a Roma, io andavo a Milano”.
Il debutto di Longanesi giornalista avviene con  una rivistina scolastica “Il marchese”. Ne esce solo un numero. Poi collabora ad un foglio  mensile  per studenti “È permesso?” (1921) una pubblicazione impastata di goliardia in cui per esempio si legge : ”competente mancia a chi porterà alla locale Prefettura un cane rosso per  antico pelo che risponde al nome di Partito  Socialista Italiano smarritosi dopo le ultime  batoste fasciste. Segni particolari: abbaia ma non morde”. Poi toccherà al quindicinale “Il Toro”. Riviste modeste senza dubbio ma che già rivelano il gusto longanesiano per l’aforisma  “L’arte è una forma aristocratica come l’aristocrazia è una forma artistica,” il segno grafico, l’originalità dei disegni. 
Longanesi fu riconosciuto maestro dai suoi coetanei e da quelli della sua generazione.
Stiamo parlando di Ansaldo, di Maccari, di Malaparte, di Montanelli, di Brancati, di Pannunzio, di Benedetti.
Tutti subirono il suo fascino, nessuno riuscì a restare in rapporti di amicizia con lui. D’indole malinconica,  profondamente solo, naturalmente scettico,  litigò con tutti e nessuno riuscì a stargli per lungo tempo accanto.
Con Malaparte ebbe un duello e quando il “maledetto toscano” morì disse di lui che “ad ogni funerale avrebbe voluto essere il morto e lo sposo ad ogni matrimonio”. A Maccari scrisse di voler
collaborare al “Selvaggio” solo con uno scopo: fare tanti quattrini. Maccari prima pensò di scrivergli una lettera d’improperi, poi ripensandoci, ritenne che un tipo così doveva essere fuori dal comune.
Iniziò così il loro sodalizio. Entrambi bassi di statura erano conosciuti come i “nani di Strapaese”. Anche Cardarelli gli fu amico, pur  non risparmiandogli qualche battuta. “Longanesi stanotte era infuriato, ha passeggiato fino  all’alba, su e giù, sotto il letto”. Per altro  ricambiato da Leo “Cardarelli è il più grande poeta morente” o “l’ultimo poeta decadente” essendo incappottato estate e inverno e avendo solo dieci denti.
Il 1926 fu anno fondamentale nella vita di  Longanesi. Decide di fondare il quindicinale “L’Italiano” il più bel giornale, secondo Montanelli del ventennio. Esce anche il “Vademecum del perfetto fascista” seguito da  “Dieci assiomi per il milite ovvero Avvisi  Ideali”. Nel decalogo, in realtà un endecalogo compare la famosa frase che segnò tutta la vita di Leo: “Mussolini ha sempre ragione”.
Presa per  una manifestazione di cortigianeria, gli verrà sempre rimproverata e particolarmente Benedetto Croce non gliela perdonerà mai. Il quindicinale non risparmiò le critiche al regime principalmente alle sue manifestazioni enfatiche ed ampollose. Cessò le pubblicazioni nel 1942.
Dopo qualche anno della nascita del quindicinale della Rivoluzione Fascista – a cui collaborarono, fra gli altri, Bacchelli, Ungaretti, Cardarelli, Soffici, Rosai – i suoi amici bolognesi lo vollero direttore dell’Assalto”.
Fu licenziato per aver paragonato, in uno dei suoi aforismi, i reduci garibaldini ai vespasiani (ogni tanto ne scompare qualcuno). Un altro motivo della sua defenestrazione fu l’aver pubblicato la stroncatura di una commedia di Alfredo Testoni,  l’autore del celebre “Cardinale Lambertini”.
Poi – siamo nel 1937 nacque “Omnibus” il padre di tutti i rotocalchi che seguirono e particolarmente caro a Leonardo Sciascia.
Dal  punto di vista grafico era un capolavoro. Le  foto occupavano intere pagine. Le notizie erano date in modo scarno ed essenziale. I collaboratori erano Moravia, Buzzati, Brancati, Praz, Montanelli. Fra gli stranieri Steinbeck, Hammett, Roth, Lawrence.
I disegnatori  Novello,Bartoli, Maccari, Bartolini. La tiratura incredibile per quell’epoca arrivò a essere di centomila copie. Il pretesto per chiudere  “Omnibus” fu colto da due articoli di Alberto Savinio. In uno si raccontava come Leopardi fosse morto di diarrea per aver mangiato troppi  gelati. Un’offesa – fu considerata – al grande poeta. Nel secondo, Savinio vedendo il caffè Gambrinus a Napoli chiuso, scrisse che “l’aria della città è fatale a bei caffè, come le rose sono velenose agli asini”. Ignorava che il caffè posto sotto il palazzo della Prefettura era stato chiuso perché disturbava, con gli schiamazzi dei camerieri le partite a bridge della moglie dell’Alto Commissario. Credendosi paragonato ad un asino il Commissario protestò e Mussolini soppresse la rivista.
Dal 1939 al 1943 Longanesi si occupa del rotocalco “Storia”, lavora alla scenografia di film, espone i suoi quadri, collabora al settimanale “Fronte. Giornale del Soldato”, dirige la collana “Il sofà delle Muse” dell’editore Rizzoli.
L’atteggiamento verso il regime diventa sempre più critico. Con l’entrata in guerra dell’America perde ogni fiducia e prevede la sconfitta dell’Asse.
E se Ansaldo aveva detto a Mussolini che bastava vedere l’elenco telefonico di New York, Longanesi gli suggerisce di guardarsi la rivista “LIFE” per capire l’abisso tecnologico che ci separava dall’America. Non lo sorprende quindi, la caduta del regime. Il 25 luglio lo vedono aggirarsi per le vie di Roma con un fucile in braccio ed occupare con Benedetti e Flaiano la redazione del “Messaggero”.
Ma il passato lo condanna:la via del giornalismo gli è momentaneamente preclusa. Sogna allora di diventare regista. Il film doveva chiamarsi “Dieci minuti di vita” ed era la storia di un  vecchio anarchico che mette una bomba sotto un palazzo e poi va ad avvisare gli inquilini che hanno ancora dieci minuti di vita. La bomba era naturalmente scarica e l’anarchico era lo scrittore romagnolo. Il cast era comunque di prim’ordine: Clara Calamai, Gino Cervi, Vittorio De Sica.
Le riprese si interruppero dopo l’8 settembre. Dopo qualche giorno scappa da Roma e  va in Abruzzo. Montanelli, perfido, racconta che  capita in mezzo ad un bombardamento e si ripara dietro un muro su cui c’è scritto lo slogan da  lui inventato “Mussolini ha sempre ragione”.
Si  scansa ed il muro crolla. Quasi una nemesi. Continua per Napoli la sua “Fuga in Italia”. Lo accompagna Stefano Vanzina, il famoso regista   Steno, Nella città partenopea si unisce a Soldati e a Malaparte. È ormai odiato dai  fascisti, avendolo Mussolini messo al primo posto fra i “Canguri Giganti” fra coloro cioè che avevano avuto prebende dal regime per poi tradirlo: gli antifascisti non gli perdonano il suo passato.
Malaparte lo convince a richiedere la tessera del Partito Comunista ma gli viene rifiutata. Soldati vuole redimerlo e lo porta a casa di Benedetto Croce per farli dare una sorta di assoluzione. Di questo periodo Longanesi se ne vergognerà per tutta la vita e ne parlerà il  meno possibile.
Appena Roma è liberata ritorna nella capitale. Se ci vollero quasi vent’anni a stancarsi del fascismo, pochi mesi gli bastano per dichiararsi anti-antifascista.
Accumula acredine verso i nuovi partiti politici e risentimento versoi suoi ex allievi che, pur  compromessi con il fascismo trovano sistemazione  nel nuovo clima democratico. Finisce la guerra;
Mussolini viene ucciso. Lo apprende dai giornali e commenterà : “nessuno di noi aveva mai avuto il coraggio di lanciargli un fischio in  vent’anni: Non avevamo ora il diritto di ridere”. Decide di trasferirsi a Milano. Al suo arrivo “L’Italia libera” lamenta il fatto che  non sia stato messo a testa in giù a Piazzale  Loreto. Nonostante tutto nella capitale lombarda riesce ad inserisce nel panorama culturale  italiano. Fonda la sua casa editrice e pubblica  “Il Libraio” bollettino di produzione libraria.
Raccoglie intorno alla riviste illustri nomi del giornalismo e della letteratura. Straordinario il catalogo della casa editrice: pubblica    Prezzolini, Comisso , Sombart, Russell e tanti altri.
Durante le elezioni politiche del 1948 si  impegna per la Democrazia Cristiana in funzione anticomunista. Non è che sia venuto meno la sfiducia per la Repubblica (ora che è nata bisogna compatirla) dirà dopo il referendum, né viene meno il suo conservatorismo anzi sembra rivalutare il proprio passato.
“Più i giorni  passano – scriverà in una lettera ad Ansaldo – più ci si accorge di avere avuto ragione, e di averla avuta anche quando credevamo di aver torto. La nuova classe dirigente è talmente cretina che non ho nulla di rimproverarmi nel  mio passato, che, con l’andar degli anni, diverrà luminoso …”.
È tutta via la stima che ha di De Gasperi che lo convince ad esporsi in prima persona. Stampa manifesti, volantini, un opuscolo scritto da lui, anche se in realtà firmato da altri “Non ha votato la famiglia De Paolis” per mettere in guardia contro il pericolo dell’astensionismo.
Negli anni seguenti verranno alla luce i suoi libri: “Parliamo dell’elefante”; “In piedi e seduti”; “Una vita”; “Il destino ha cambiato cavallo”; “Un morto tra noi”.
Come scrisse Emilio Cecchi, Longanesi “ebbe  grandi doti di scrittore […] e fu maestro di uno stile, perentorio, sopraffattore … non ebbe , non potè avere il respiro del narratore. Per esserlo “devi piegarti ogni tanto al banale.
Perfino Tolstoj ad un certo punto è costretto a dire che Anna Karenina si alzò e andò ad appoggiare la fronte ai vetri della finestra.
Cosa diavolo mi frega se quella brava signora ogni tanto va alla finestra? Anche la mia serva ogni tanto ci và, e poi si dimentica di pulire i vetri …”.
Ma veniamo ora alla terza – ultima della sua vita – creazione giornalistica “Il Borghese”. Il primo numero del quindicinale – in seguito diverrà settimanale – porta la data del 15 marzo 1950. Sulla locandina di lancio c’è scritto:  “Imparate a disprezzare la democrazia con  rispetto”.
I collaboratori sono sempre di primo ordine: Ansaldo, Montanelli, Spadolini, Savinio, Baldacci, Prezzolini
Ormai la sua sfiducia nelle democrazia è totale.
Scriverà in quel periodo: “I delusi siamo noi, delusi due volte: delusi ieri, delusi oggi; delusi della dittatura, delusi della democrazia; delusi degli opposti ideali, delusi degli stessi risultati.
Siamo i veterani di due delusioni, i reduci di due sconfitte, carichi di speranze perdute.
Giovani nelle nuvole di una epopea fallita, ci ritroviamo vecchi soldati di un esercito con i tamburi bucati, e marciamo a casaccio verso la bandiera di Arlecchino”.
Con intuito Mario Soldati disse che “Il Borghese” non fu un giornale neo-fascista – come molti si affrettarono a definirlo- ma leofascista.
I temi trattati sempre con maggiore acredine e livore sono quelli tipici longanesiani: deciso anticomunismo, rifiuto della retorica dell’antifascismo, critica alla partitocrazia, disprezzo delle masse. “Al popolo sarò nemico e nuocerò quanto potrò” l’epigrafe al suo “Il destino ha cambiato cavallo”.
Il rispetto che aveva invocato nel disprezzare la democrazia scompare.
“La parola democrazia mi destava una insofferenza fisica, come l’odore stantio dei vecchi cassetti o l’alito guasto di certe  vecchie; sentivo nell’aria un odore di muffa, di umida miseria, un odore di cavoli lessi nelle scale della nuova società, come in certe vecchie portinerie, un odore di farisei. Poi scoprìi che quegli odori corrispondevano ad un mio giudizio storico e morale, scriverà in “Un morto fra noi”.
Tenterà in seguito di entrare in politica con la fondazione “I circoli del Borghese”. Un totale fallimento. Piero Buscaroli ricorderà che gli aderenti erano “ tutti gli avanzi e tutti i dissenzienti di tutti i movimenti di destra o reputati tali, compresi i pazzi e quelli che i partiti avevano emarginati perché inutili o pericolosi”.
Goffredo Parise è ancora più duro: “L’adunata di Longanesi  era stata una cosa pietosa perché vi era tutto il mondo che ha sempre preso in giro, compresa una vecchia di ottant’anni che gridava “viva Cavallotti”.
Nel 1956, in seguito della rivoluzione ungherese, avviene la rottura tra Montanelli e Longanesi.
L’interpretazione che Indro da della rivolta non piace a Leo. Praticamente non si riconciliearanno più.
Solo alla vigilia della morte dello scrittore romagnolo, Montanelli gli indirizza una lettera chiedendogli la pace. “Caro Leo, ho sognato che eri morto (te lo dico perché pare che porti fortuna, e mi sono svegliato pieno di angoscia e di rimorsi. […] so che senza farti nulla ti ho fatto torto. Anche tu, senza farmi nulla, ne hai fatto a me. Vogliamo insistere in questo gioco di bambini piccosi?.
Ma Longanesi dopo qualche settimana muore davvero, Pochi mesi prima aveva scritto: “È un peccato vivere quando tanti elogi funebri ti attendono. Quale epigrafe avrebbe voluto sulla sua tomba? “torno subito”.
Quando la bara fu sepolta, la figlia Virginia, mormorò: “E dire che gli orfani mi sono stati sempre antipatici”. Una frase che sarebbe piaciuta al padre.
Fra i tanti necrologi estraiamo alcune righe da quello scritto da Giuseppe Prezzolini: “La morte di Longanesi fu una perdita irreparabile per noi, un gran sollievo per i birbanti, gli sciocchi e gli accomodanti. L’uomo  irraggiungibile, irrepetibile, inimicabile, incorruttibile. Artista originale. Scrittore parco, lindo, esatto, ardito, nuovo ed antico. Scopritore, denunziatore, indicatore,  propulsore, attivatore. Tutto genio e punto metodo, tutto intuito e nessuna obbiettività”.

ShinyStat
28 settembre 2007

AA.VV. “Il Borghese”, 10 ottobre 1957 numero interamente dedicato a Leo Longanesi;
A. Andreoli “Longanesi” , La Nuova Italia,1980;
Montanelli-Staglieno “Leo Longanesi”, Rizzoli, 1984;
P. Buscaroli, “Aiuto mi riabilitano”, Il Giornale, 29 agosto 1995;
R.Liucci “L’Italia borghese di Longanesi: giornalismo politica e costume negli anni '50, Marsilio,2002;
G. Ansaldo, “Anni freddi”, Il Mulino, 2003;
A.Ungari “Un conservatore scomodo”, Le Lettere, 2007.