Il Circolo Culturale “L’Agorà”, presieduto da Gianni Aiello, ha organizzato un incontro avente come tema “Dalla Primavera di Praga all´Europa del dopo ´89: il caso ceco-slovacco“.
La manifestazione in argomento ha ricevuto l’Alto Patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Ceca e di quella della Repubblica Slovacca.
In apertura dei lavori della Tavola Rotonda, ospitata presso l’Aula Magna dell’Istituto Magistrale “Gullì” di Reggio Calabria, vi è stato il saluto del Dirigente scolastico prof. Alessandro De Santi con  parole di elogio per la manifestazione.
In particolare il prof. De Santi ha evidenziato che “questo straordinario momento storico ebbe forti ripercussioni su quel popolo e tali eventi hanno una straordinaria contemporaneità perché hanno un dinamismo che non ha tempo” .
Successivamente sono stati portati a conoscenza del pubblico i saluti degli ambasciatori della Repubblica Ceca S. E.Petr Buriánek e della Repubblica Slovacca S.E. Sig.ra Mária Krasnohorská che hanno espresso il loro compiacimento per l’elevata qualità culturale dell’iniziativa.  È stata quindi  la volta del prof. Francesco Leoncini, dell'Università  Ca’ Foscari di Venezia e membro onorario della “Masarykova Společnost” [Società Masaryk] di Praga, che ha strutturato il suo intervento in due parti, la prima delle quali sul tema “Dallo Zollverein (1834) alla nuova Mitteleuropa tedesca (2013)”.
A tal proposito l'illustre ospite del Circolo Culturale “L'Agorà” ha messo in rilievo come la prima forma di unificazione tedesca si sia avuta con l’Unione doganale (Zollverein)  e come tutti i progetti  federalistici che si svilupparono nella Monarchia asburgica sulla base dell’austroslavismo, vale a dire a favore del mantenimento dello Stato multietnico, rispondessero alla logica dei “grandi spazi integrati”. Ciò era legato alle esigenze di carattere economico mentre tra coloro che lottavano per una prospettiva di indipendenza nazionale faceva riscontro  una forte tensione universalistica.
Un ruolo centrale e determinante in questo risveglio delle nazionalità viene ben presto assunto dal movimento tedesco” che al di là degli intenti  programmatici manifestatisi all'Assemblea di Francoforte trova realizzazione politica sotto la guida prussiana.
Bismarck, battuta l’Austria, ne fa poi il suo migliore alleato e ad uno Stato-Nazione etnicamente compatto viene associato un territorio etnicamente composito con lo scopo però di determinarne l’orientamento di politica estera, nascono gli Imperi centrali.
Dopo la Prima guerra mondiale la Germania rimane un blocco sostanzialmente unitario, salvo alcune amputazioni periferiche (la Posnania alla Polonia) e, ovviamente, la cessione dell’Alsazia-Lorena alla Francia.
Il suo potenziale economico rimane intatto, le classi dominanti, Junker, militari e industriali della Ruhr, continuano a guidarne le sorti. La Reichswehr si va riorganizzando fin dal 1920. Il piano Dawes a sua volta offre la possibilità di una poderosa ripresa delle attività industriali e conseguentemente favorisce il riformarsi dei grossi monopoli e del grande capitale, ritornano così i problemi di espansione economica e quindi le vecchie ambizioni sull’area danubiano-balcanica.
Sorgeva parallelamente tutta una serie di enti e istituzioni, in parte direttamente finanziati dalla Stato, con lo scopo “ufficiale” della difesa e della diffusione della Kultur tedesca, ma in effetti per sostenere le minoranze tedesche all’estero e, se possibile, rilanciare l’idea dell’Anschluss, o per lo meno di una  Unione doganale con l’Austria.
A fronte di questa realtà l’area dei tre vecchi imperi, il russo, l’asburgico e l’ottomano, usciti anch’essi sconfitti dalla guerra, si delineano nuove “geografie politiche” che portano alla creazione di due nuovi Stati, quali la Cecoslovacchia, il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, mentre la  Romania raddoppia il suo territorio.
Dopo l'excursus sulle linee storiche e programmatiche inerenti all'austroslavismo, lo storico Francesco Leoncini ha basato la seconda parte del suo intervento sul tema “Europa centrale, Cecoslovacchia e la Primavera di Praga”.
Ripercorrere la storia della Cecoslovacchia – egli afferma - vuol dire rivedere le stesse interpretazioni di maniera che vengono espresse a proposito della storia europea del Novecento nel suo complesso, Tomáš Garrigue Masaryk (1) ebbe ragione a considerare, fin dallo scoppio della guerra la questione ceca e slovacca come “questione mondiale” (2).
In particolare nel momento in cui si profilava la possibilità della dissoluzione della Monarchia asburgica egli aveva concepito il programma di indipendenza nazionale dei due popoli, non solo in negativo, contro un mondo che aveva ormai esaurito le risorse per una sua rigenerazione ma come  “parte dell’organizzazione politica e sociale di tutta l’Europa e dell’umanità” (3) .
Non v’è dubbio- continua l’illustre relatore - che decidere per la creazione di uno Stato ceco-slovacco significava incidere profondamente nel contesto geopolitico dell’Europa centrale con ripercussioni che non potevano non coinvolgere il complesso degli equilibri continentali.
Con la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, a seguito delle conseguenze della prima guerra mondiale, nelle trattative di pace si apre il dibattito sulla questione ceco-slovacca alla quale è strettamente collegata quella dei territori dei Sudeti, vale a dire della minoranza tedesca di Boemia.
Sul programma di pace del Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson dell’ 8 gennaio del 1918, il famoso discorso dei Quattordici Punti, si accentrò in maniera tutta particolare l’attenzione  dei popoli della Monarchia danubiana.
L’impostazione wilsoniana corrispondeva a quella che Tomáš Masaryk aveva dato, fin dall’inizio della guerra, alla lotta di liberazione nazionale ceca.
Nella sua dichiarazione di Washington del 18 ottobre 1918 Masaryk, presentando i fondamenti spirituali della futura vita politica del nuovo Stato ceco-slovacco, affermava che esso avrebbe fatto propri gli ideali della democrazia moderna e si sarebbe ispirato in particolare al modello della democrazia americana.
Al di là delle contraddizioni e delle oggettive difficoltà che poi si manifestarono nel corso della vita politica della Cecoslovacchia non si può negare che essa abbia costituito un prezioso laboratorio politico  e culturale di convivenza democratica tra diverse etnie e abbia saputo mantenere vive  le istituzioni parlamentari di fronte al dilagare dei regimi autoritari e all’accerchiamento da parte delle dittature nazifasciste e sovietica.
Dopo l’Anschluss del 1938 che includeva l’Austria alla Germania nazista, la Cecoslovacchia subì l’arbitrio delle quattro grandi potenze europee che decisero a Monaco la cessione del territorio dei Sudeti al Reich nazista e ciò che scaturì da tali decisioni costituisce lo spartiacque della storia europea del Ventesimo secolo nel senso che  fece spostare l’asse della politica dei Paesi dell’Europa centrale verso l’Unione Sovietica.
Quanto al Patto di Monaco del 1938, che portò alla fine, nel giro di qualche mese, di questa formazione statale, esso fu la conseguenza del comportamento rinunciatario delle potenze occidentali di fronte a Hitler che culminò nel Diktat al governo di Praga, ma si manifestò già dall’occupazione tedesca della Renania del 1936.
Esso dimostrò ai nuovi Stati dell’Europa centrale, sorti dopo la Prima guerra mondiale e tutti per forza di cose multietnici, che le grandi potenze democratiche  erano disposte a giocare sui loro destini per salvaguardare i loro (supposti) interessi. Cosa che si ripeté durante e dopo la guerra: accordi Churchill - Stalin nel 1944 e poi a Jalta e a Potsdam.
La Primavera di Praga, che inizia con l’elezione il 5 gennaio di quell’anno con l’elezione di Alexander Dubček a primo segretario del partito comunista cecoslovacco, al di là delle intenzioni dei dirigenti del partito si caratterizza per un forte richiamo agli ideali e alle esperienze politiche della Prima Repubblica cecoslovacca e in particolare al socialismo umanistico espresso da Masaryk.
Egli infatti rappresentò l’anello di congiunzione con la tradizione democratica medievale e moderna del popolo ceco, da Jan Hus, precorritore del protestantesimo, a Jan Amos Komenský (Comenio). Essa poneva la morale al centro dell’agire umano. Dubček stesso nel suo discorso all’Università di Bologna  di Bologna nel novembre 1988 si rifà a Masaryk e afferma che “E’ il programma umanistico che dà senso a tutto il nostro sforzo nazionale.[…] L’umanesimo è il nostro obiettivo ultimo, nazionale e storico”.
Il variegato patrimonio di idee, tendenze e valori esistente nel riformismo ceco-slovacco condivideva un sostrato filosofico e uno spirito comune, denominato nová mysl (pensiero nuovo) o filosofia dell’uomo nuovo. Questa filosofia non voleva rinnegare il socialismo, ma introdurvi delle varianti volte a superare il dogmatismo stalinista. Il “pensiero nuovo” voleva mettere l’essere umano al centro dell’impostazione teorica e pratica del socialismo, da qui il nome di socialismo dal volto umano assegnato al progetto filosofico e politico della Primavera di Praga.
Quando ci si domanda a quali esiti sarebbe giunto questo processo di rinnovamento qualora avesse potuto continuare il suo corso, non si va lontano dal vero se si risponde che sarebbe approdato a un tipo di sistema sociale quale venne prefigurato dalla nostra Costituzione, a quella saldatura tra socialismo e libertà che è l’anima stessa del testo costituzionale del 1948. Più in generale esso si sarebbe agganciato a quel movimento di riaffermazione dei diritti sociali: al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla salute, presente nei programmi dei Paesi dell’Europa occidentale nell’immediato secondo dopoguerra, vale a dire ai contenuti espressi dal laburismo inglese, dalla Resistenza francese, dalla socialdemocrazia tedesca, dagli esponenti del cristianesimo sociale.
È stata la volta di Gianni Aiello che relazionando su “Il ventennio cecoslovacco (1968-1989) attraverso le cronache locali”  ha tracciato, nel corso del suo intervento, attraverso l'ausilio di varie sequenze visive, il tragitto informativo di quelle delicate vicende internazionali  nei servizi giornalistici della stampa territoriale.
La geopolitica del tempo divideva il mondo in due blocchi con le rispettive sfere di influenza, da non dimenticare che si era nel periodo della “guerra fredda” e della famosa “cortina di ferro”, problematiche queste, che insieme a tante altre, sono state affrontate dal presidente del Circolo Culturale “L'Agorà” durante il corso della sua esposizione.
 “NKVD”, “Oldřich Černík”, ”Piazza Venceslao”, ”KSČ”, ”Jan Palach”, ”Antonín Novotný”, “Jan Masaryk”, ”Leonid Brežnev”, “Anastas Mikoyan”, “Josef Hlavatý”, ”Ladislav Adamec”,  “Jan Zajíc”, “Gustáv Husák”, “Alexander Dubček”, “KGB”, “Rudé Právo”, ”Václav Havel”, “Ludvík Svoboda”, “Radio Praga”, “Emil Zátopek“: questi alcuni dei riferimenti che sono stati oggetto del tema trattato da parte di Gianni Aiello. 
Con tale reportage di date ed avvenimenti il relatore ha messo in evidenza il susseguirsi di quegli avvenimenti di ampio respiro internazionale e di come gli stessi abbiano avuto eco nella collettività locale del periodo, evidenziando come tali stati d'animo fossero conseguenza di quanto i mezzi d'informazione locale ebbero a trattare tali eventi.
Si sono alternate quindi, durante la relazione di Gianni Aiello, micro e macro storie che hanno contribuito a dare uno spaccato di tale periodo storico.
Lenotizie che provenivano da “oltre cortina” venivano lette, commentate, divenendo oggetto di dibattito e confronto tra le varie organizzazioni presenti sul territorio avvicinandole idealmente ai territori boemi, così come avvenne a seguito dei “fatti di Budapest” del 1956.
A tal proposito Gianni Aiello nel corso della sua relazione ha fatto qualche riferimento al saggio di Nicholas Mirzoeff che richiama l'attenzione del lettore su come gli eventi di portata mondiale vengono vissuti nelle micro aree. (4)
Attraverso tale disamina il relatore ha evidenziato il richiamo di tali eventi e la ricaduta che gli stessi ebbero sull'opinione pubblica del territorio quali associazioni, sindacati, partiti politici.
L'analisi dei mass media locali è iniziata con gli articoli inerenti alla nomina del nuovo segretario del KSČ (Partito Comunista Cecoslovacco) Alexander Dubček, avvenuta il 5 gennaio del 1968, notizia trattata dal quotidiano “Gazzetta del Sud” che successivamente iniziò a pubblicare una serie di notizie relative alla Cecoslovacchia.
Così come l'uscita dalla scena politica cecoslovacca di Novotný avvenuta il 22 marzo dello stesso anno e gli “atteggiamenti” repressivi nei confronti dei dissidenti durante quella amministrazione.
Il vento di rinnovamento proveniente dal progetto politico riformista di Alexander Dubček, pur con le dovute cautele, riuscì a scuotere la comunità cecoslovacca che per lungo tempo era rimasta, suo malgrado, schiacciata dal rigido atteggiamento delle scelte politiche di Antonín Novotný.
I risultati di quel progetto si manifestarono anche con la pubblicità delle azioni di repressione ad opera della precedente amministrazione, così come indicato dallo stesso Gianni Aiello durante la disamina di altri documenti.
L'intervenuto sottopone all'attenzione dei presenti un'altra vicenda di politica internazionale, la guerra del Vietnam, cosa che però non impediva ai media locali di seguire ciò che avveniva anche in Cecoslovacchia, dandone adeguato spazio.
Quella “Primavera” non convinse l'amministrazione sovietica di Brežnev che era fortemente preoccupato di quel “rinnovamento” e che lo stesso potesse influenzare gli altri territori ricadenti sotto l'egemonia del Patto di Varsavia.
Nonostante le rassicurazioni dell'incontro del 3 agosto di Bratislava, il Cremlino si regolò di conseguenza  con l'invasione avvenuta nella notte tra il 20 ed il 21 agosto 1968.
A tal proposito Gianni Aiello ha voluto evidenziare come si sia dato spazio con una certa costanza a tali eventi con dei veri e propri reportages con tanto servizi fotografici su quei momenti drammatici.
Anche il settimanale “L'Avvenire di Calabria” l'organo d'informazione  delle Diocesi di  Reggio-Bova e Locri-Gerace  non si è sottratto a tali tragici eventi.
Il periodico  oltre a darne notizia, in diversi articoli ha tratteggiato il ruolo della Chiesa a tal riguardo ricordando le vittime sia religiose che civili che trovarono la morte in quel periodo ma anche in altri periodi di dura repressione.
Altri momenti tragici vennero trattati dalle due testate giornalistiche come il sacrificio del giovane studente Jan Palach, avvenuto il 16 gennaio 1969 nella Piazza Venceslao di Praga ed un altro gesto estremo verificatosi quattro giorni dopo a  Plzeň dove Josef Hlavatý si diede fuoco.
In entrambi i casi il periodico “L'Avvenire di Calabria” usa l'espressione “torcia umana”.
Tali eventi scossero fortemente l'opinione pubblica e la Primavera di Praga fu quindi un terremoto anche per la sinistra italiana non soltanto a livello nazionale ma anche a livello locale e testimonianza di ciò sono i diversi fermenti che si verificarono nella città dello Stretto.
Gianni Aiello ha voluto allargare i parametri cronologici di tale percorso della memoria argomentando anche su altri fondamentali aspetti della storia della Cecoslovacchia.
Ha ricordato la data del 18 dicembre 2011 inerente alla scomparsa di uno dei leader della “Rivoluzione di Velluto”, Václav Havel , per ritornare alla data del primo gennaio del 1993 relativa all'istituzione di due nuovi Stati: quelli della Repubblica Ceca e della Slovacchia .
Per tali rilevanti vicende sono state prese in considerazione altre due testate giornalistiche più recenti rispetto a quelle relative al percorso storico “1968-1989”, infatti per le ultime vicende Gianni Aiello ha esposto ai presenti anche gli articoli de “il Quotidiano della Calabria” e “Calabria Ora”, dando così un insieme narrativo di tali considerevoli eventi di politica internazionale.
E’ intervenuto quindi Gianfranco Cordì, ricercatore presso l’Università degli Studi di Catania, impostando il proprio discorso ricordando che la canzone “Primavera di Praga” di Francesco Guccini ha fatto originariamente parte del long playing “Due anni dopo” pubblicato dal cantautore emiliano nel 1970 ed inciso per la  EMI e tra l'altro la ritroviamo in un altro disco, inciso sempre con la stessa casa discografia, del 1979, il nono della produzione gucciniana, dal titolo “Album concerto”, inciso insieme ai Nomadi nel novembre dello stesso anno durante i concerti che si tennero al Kiwi di Piumazzo e al Club 77 di Pavana.
Si tratta di un lavoro discografico che ricorda – ha affermato il giovane studioso musicale reggino- già nel titolo l'opera scritta dal letterato francese Alexander Dumas (padre) nel 1845 dal titolo “Venti anni dopo” come seguito diretto delle vicende dei “Tre Moschettieri” dell'anno precedente (1844).
In “Venti anni dopo”  riprende le imprese dei fedelissimi del re francese Luigi XIII, tali D'Artagnan, Athos, Porthos ed Aramis. 
Ritornando invece – continua Gianfranco Cordì – al prodotto musicale “Venti anni dopo” , c'è da evidenziare che con questo disco Francesco Guccini ricomincia – in questo stesso senso - da dove aveva concluso con il proprio lavoro precedente e riannoda le fila del proprio discorso.
Nell'esordio di “Folk beat n.1” inciso nel 1967 per la casa discografica“La voce del padrone” Francesco Guccini tocca fin d'allora i temi cari alla sfera del dissenso, tenendo anche conto di quel contesto storico-culturale, quindi degli aspetti letterari legati alla beat generation ma anche di quelli musicali pensando anche ai contenuti letterari dei testi che contestavano quella società, si pensi a Bob Dylan e quindi a canzoni come “Auschwitz (Canzone del bambino nel vento)”, “L'atomica cinese”, “Noi non ci saremo” o ai testi di “Il 3 dicembre del '39” dove «... Io chiesa, nobili e terzo stato / sempre ho fregato solo per me… ».
Quindi, per quanto sopra espresso il percorso della “Primavera di Praga”- risulta in perfetta continuità con la passata poetica gucciniana – dunque l'aspetto narrativo si apre con una “piazza” che è ricoperta di “antichi fasti”.
C’è una dilatazione dello spazio urbano che trabocca di storia (ed è la storia richiamata da Guccini stessi rifacendosi al disco precedente – a tutto quello che ha scritto e pubblicato e cantato fino a quel momento).
La canzone narra di ciò che avvenne la sera del 16 gennaio 1969, a seguito dell'invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe sovietiche, un giovane studente di filosofia praghese, Jan Palach si diede fuoco sulla piazza  Venceslao e quella immolazione  rimane una icona alla libertà.
Il cantatore emiliano nel narrare tale vicenda accosta tale storia ad un altra avvenuta il 6 luglio del 1415 quando il teologo boemo Jan Hus, nonché rettore all'Università Carolina di Praga, venne mandato al rogo nella città di Costanza (Baden-Württemberg, Germania) dove si svolgeva l'omonimo Concilio (1414-1418) per fronteggiare lo scisma d'Occidente.
Quindi il sacrificio del giovane Jan Palach commisurato all'esecuzione per eresia di Jan Hus
« quando ciascuno ebbe tinta la mano, quando quel fumo si sparse lontano, Jan Hus di nuovo sul rogo bruciava all’orizzonte del cielo di Praga».
Come fossimo su un set cinematografico l'inquadratura descrittiva tende ad allargarsi su quella location e Francesco Guccini come un abile regista fa scorrere nel testo una serie di immagini veloci rappresentate nei testi di “antichi fasti”, di “fiamma violenta ed atroce” ma anche di ciò che accadde a seguito degli avvenimenti verificatesi nella notte tra il 20 ed il 21 agosto 1968 e quindi  “ma poi la piazza fermò la sua vita/ e breve ebbe un grido la folla smarrita/ quando la fiamma violenta ed atroce/spezzò gridando ogni suono di voce”.
Ecco – ha dichiarato Cordì- che ogni cosa cambia: Praga prende fuoco; qualcosa brucia; qualcosa si spezza, qualcosa si infiamma; ardono gli angoli della “piazza”.
Adesso sono arrivati i carri armati. Nella fattispecie: i carri armati inviati dalla Unione Sovietica. Praga è messa a ferro e fuoco.
Cronaca e narrazione trovano posto nella “Primavera di Praga” di Guccini: i funerali di Ján Pálach seguiti da un corteo di migliaia di persone vengono cosi narrati dal cantautore emiliano:
Dimmi chi era che il corpo portava,
la città intera che lo accompagnava:
la città intera che muta lanciava
una speranza nel cielo di Praga.

Le ricchezze culturali degli “antichi fasti” sembrano coperte dalle fosche nubi dalla quale Praga è coperta, ma, nonostante ciò, qualcosa può ancora mutare quella dimensione, così come narrato dallo scrittore ceco Milan Kundera nella “Nenositelná leckost’ bytí – L’insostenibile leggerezza dell’essere”.  
Un alba nuova può nascere da quell’incendio: Guccini racconta in maniera struggente la normalità, la catastrofe e la rinascita.
Il segno di un percorso che una città disegna nel 1968 attraverso le diverse fasi che la porteranno ad una nuova “primavera”.
Ed infatti il testo della canzone si chiude proprio con quella “speranza”. Praga è diventata in quel momento l’epicentro di un cambiamento: di una tragedia collettiva e di una possibile rinascita, anch’essa collettiva.  
La parola è passata a Tonino De Pace (Presidente del Circolo del Cinema “Zavattini” che ha relazionato su “La cortina di ferro e il cinema dissidente cecoslovacco ”.
Il cinema cecoslovacco, si sviluppò e prese le mosse, proprio da questa variegata e complessa articolazione etnica che fondava la propria esistenza soprattutto sulla diversità culturale delle sue componenti slave, ebraiche e tedesche.
Questa miriade di manifestazioni artistiche trovò in Praga una città perfetta per la piena realizzazione di un cinema che puntava soprattutto sull’ironia e sul realismo.
Senza dimenticare la versatilità che quel cinema provò per l’animazione che si realizzava con i pupazzi e le marionette.
I tratti di questo cinema, nel volgere di pochi anni sarebbero mutati, la storia avrebbe segnato un percorso differente e molti di quegli autori erano pronti a cogliere l’occasione.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e fino ai primi anni ’60 dello scorso secolo il Partito comunista cecoslovacco, sotto l’egida sovietica, svolse un clima di dura  repressione nei confronti dei “non allineati” alle linee guida del periodo.
La stagione della Primavera di Praga vide la scomparsa della censura e l’affermarsi della libertà di religione ed in questo clima – prosegue Tonino De Pace- va collocata la vicenda di un cinema che prese il nome di “Nová Vlna”, quella nuova onda che gli eventi hanno determinato e che si era sviluppata già dai primi anni ’60 concludendosi con l’invasione delle truppe del Patto di Varsavia.
Questo vento di rinnovamento va ascritto anche ad Alois Poledňák che nel 1959 è stato eletto alla Direzione generale della cinematografia, e, quella stagione fu particolarmente ricca ed esaltante sia dal punto di vista della qualità che dei contenuti filmici..
Il movimento fu riccamente rappresentato da artisti cechi come Miloš Forman, Ivan Passer, Jiří Menzel, Vojtěch Jasný, Věra Chytilová, Jaromil Jireš, Evald Schorm, Jaroslav Papoušek, Jan Němec e dagli slovacchi Jurai Jakubisko, Jurai Herz, Elo Havetta, Štefan Uher, Ján Kadár.
La sperimentazione che questi autori mettevano in pratica partiva da una volontà di rinnovamento e da un contemporaneo  desiderio di guardare al passato.
Come il neorealismo italiano segnò la rinascita culturale di un’Italia piegata dalla guerra e dal regime fascista, così il realismo della Nová Vlna costituì il tratto essenziale della rinascita del cinema ceco in quegli anni che si caratterizzava nel proporre  attori non professionisti, con un carattere autenticamente popolare, vicino la vita reale della gente alla quale si rivolgeva.
Si trattavano ora le tematiche giovanili, e si adottavano strutture narrative che erano considerate estranee ai dettami del “realismo socialista”.
Tratti in qualche modo differenti si affermano tra le due etnie che formano lo Stato cecoslovacco.
Se il cinema ceco ha sicuramente una tradizione e una affermazione internazionale in qualche misura superiore, il cinema slovacco si è adoperato in quegli anni per un profondo rinnovamento che si è reso evidente attraverso la trattazione inconsueta di temi ricorrenti.  
Per quanto riguarda la sfera dei registi cechi tra quelli più prolifici vi è Miloš Forman che nel 1965 realizza Gli amori di una bionda (Lásky jedné plavovlásky) il suo film più famoso di quel periodo, mentre l’anno precedente con Asso di picche (Cerny Petr, 1964) e Fuoco ragazza mia! (Hoří, má panenko) che girò anche con il titolo Al fuoco, pompieri! dimostrò la sua mano sicura che avrebbe confermato dopo l’espatrio e la sua attività ad Hollywood, dove nel 1975 girò Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975).
Věra Chytilová è considerata una autrice importante per la Cecoslovacchia di quegli anni, il suo film più famoso è Le margheritine (Sedmikrásky, 1966), lavoro che narra, attraverso le vicende delle due giovani protagoniste, dell’assoluta assurdità della vita attraverso una originale trasposizione delle poetiche di Ionesco, Beckett, Pinter e Havel.
Tra gli altri film della regista non va dimenticato Un sacco di pulci (Pytel blech, 1962) che è unanimemente riconosciuto come uno dei due film che diede l’avvio alla stagione del rinnovamento cinematografico di quella nazione.
Un altro autore di sicuro valore artistico è Jiří Menzel con Treni strettamente sorvegliati (Ostře sledované vlaky, 1966) e nel 1968 vinse  l’Oscar quale migliore film straniero e l’anno successivo fu presentato fuori concorso al Festival di Cannes.
La collaborazione con Hrabal continuerà con un film successivo Allodole sul filo (Skrivánci na niti, 1990).
La storia produttiva e distributiva di questo film è originale, poiché la sua lavorazione è cominciata nel 1968, proprio nei mesi in cui si apriva la Primavera di Praga, ma la sua ultimazione è avvenuta molti anni dopo, quando il regime sovietico guidava le sorti della Cecoslovacchia.
Il film fu comunque proibito in patria e solo nel 1990 è stato possibile vederlo in sala, dopo avere conquistato, nel 1989, l’Orso d’oro al Festival di Berlino.
Il cinema di Jan Němec risulta complesso ed originale per quell’area europea.
Il suo primo film è del 1964 e si intitola I diamanti della notte (Demanty noci, 1964) nel quale trasforma la fuga dei suoi due protagonisti da un campo di concentramento in un’occasione quasi documentaria in cui prevale una narrazione frammentaria spezzata da sogni e allucinazioni dei due protagonisti.
Nel 1966 Němec realizzò un altro film che ricuce il rapporto con la cinematografia francese di ricerca. Rapporto sulla festa e gli invitati (O slavnosti a hostech, 1966) un’opera che si presenta come una feroce e irrimediabile critica alla società borghese, ma in realtà la metafora si riferisce allo stato di polizia che è in atto nei Paesi dell’est europeo di quel periodo e per questo il film fu messo al bando e venne distribuito solo due anni più tardi.
Per quanto riguardo l'area dei registi slovacchi il relatore De Pace ricorda che il movimento cinematografico della  Nová Vlna venne tenuto a battezzo nel 1962 con Štefan Uher che realizzò Il sole nella rete (Slnko v sieti) la storia di tre adolescenti, ambientata a Bratislava.
Nel 1965 il film di Ján Kadár e Elman Klos Il negozio al corso, tratto dal racconto La trappola di Ladislav Grosman, che collaborò alla sceneggiatura, vinse l’Oscar per il migliore film straniero.
I due autori lavorarono spesso realizzando film scomodi come il famoso Tre desideri (Tři přání, 1958) una critica piuttosto esplicita al regime socialista.
Il primo successo dei due registi fu La battaglia di Engelchen (Smrt si řiká Engelchen, 1963) la storia di un soldato in ospedale che non si sa se guarirà o meno.
Con L'accusato (Obžalovaný, 1964) vi è una profonda analisi sull'eroismo e quindi una critica dura al culto della personalità con rimandi alle poetiche di Kafka.
Nel 1965 è stata la volta del già citato Il negozio al corso (Obchod na korze, 1965) che tratta il tema delle leggi razziali.
Jurai Jakubisko è, senza dubbio l’autore più originale e più visionario della nuova onda cecoslovacca. Il suo esordio è del 1967 con il film Gli anni di Cristo (Kristove roky, 1967) in cui si indaga sugli anni della gioventù, ma che sono di passaggio verso l’età matura, attraverso le vicende di un giovane artista.
Il disertore e i nomadi (Zběhovia a putnici, 1969), è una sconvolgente allegoria su guerra e morte.
Strana sorte ebbe invece Uccellini orfani e pazzi (Vtáčkovia, siroty a blázni, 1969), censurato dalla normalizzazione sovietica è uscito solo nel 1990.
Nel 1985 Jakubisko avrebbe girato un film dal titolo La signora della neve (Perinbabà  - Frau holle, 1985) da una fiaba dei fratelli Grimm, la protagonista era la nostra Giulietta Masina.
Per quanto riguarda Elo Havetta dopo l’esperienza dei cortometraggi, caratterizzati da una libertà di espressione, girò il suo primo lungometraggio dal titolo Un galà al giardino botanico (Slávnosť v botánickej zahráde, 1969) e come il suo secondo lavoro Gigli di campo (Ľalie poľné,1972) fu bene accolto dalla critica.

La scaletta degli intervenuti si è conclusa con Antonino Megali, socio del Circolo Culturale “L'Agorà” che ha trattato il tema ”Conseguenze della caduta del Muro di Berlino
Ѐ una delle date più importanti del secolo scorso – esordisce Antonio Megali -, perché dopo quel giorno nulla è stato come prima. Ci riferiamo al 9 novembre 1989: caduta del muro di Berlino. Battezzato subito come Muro della Vergogna divenne il simbolo del dopoguerra e della “guerra fredda”, il cui inizio viene fatto coincidere con il discorso di Churchill del 5 marzo 1946. “Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, è scesa sul continente europeo una cortina di ferro”. 
Era sorto il 13 agosto 1961 per fermare la fuga continua dei tedeschi orientali ed era caratterizzato da una lunghezza di 155 Km. ed un'altezza di quasi 4 metri.
Cinquemila persone, in 28 anni, riuscirono a fuggire,centinaia furono invece le vittime; ma non furono soltanto questi gli avvenimenti che si legano a tale struttura – prosegue Antonio Megali – ricordiamo la visita del presidente Kennedy del 26 giugno 1963 quando pronunciò:”Duemila anni fa il maggior vanto era poter dire: Civis  Romanus Sum. Oggi nel mondo della libertà, il maggior vanto è poter dire: Io sono berlinese...”, o la data del 12 giugno 1987, quando  Ronald Reagan disse “Signor Gorbaciov tiri giù questo muro”.
Poi finalmente la data del 9 novembre 1989 che ne sancì la caduta del muro ed a seguito di ciò si ebbe a provocare un effetto domino che interessò tutto il mondo.
Basti pensare – prosegue Megali - che nel 1961 l’Europa è divisa in due dalla Cortina di ferro.
Dall’89 in poi in Europa e in Asia nascono 25 nuovi paesi. La prima ad essere travolta, dopo solo un mese, è la Romania. Migliaia di persone manifestano a Timisoara contro il dittatore Ceausescu che successivamente venne processato e condannato a morte.
Di quanto sopra evidenziato grandi meriti ebbe proprio Gorbačëv, che aprì la crisi nel sistema sovietico grazie ai concetti di glasnost' (trasparenza) e perestrojka  (riforma), considerati, non a torto dai dirigenti di Berlino est un pericolo alla durata del loro regime.
In Polonia, in seguito agli scioperi dei lavoratori nel 1980 si era formato il sindacato indipendente Solidarność e si arriva alla democratizzazione nel 1989 con la vittoria del movimento nelle prime elezioni semilibere del giugno.  Nel 1990  Lech Wałęsa divenne il primo presidente eletto.
Le cose cambiarono radicalmente anche in Bulgaria, in Albania vi fu un’alleanza del mondo universitario, della cultura e di quello operaio che nel 1992 portarono alla vittoria il Partito Democratico.
Anche nelle situazioni sopra considerate seguirono una serie di processi con relative condanne a morte degli esponenti dei precedenti regimi, mentre per quanto riguarda la Jugoslavia avvenne un processo di dissoluzione della Federazione e dopo una fase di conflitti (Kosovo1996-1999) ed una serie di mutamenti governativi, che alimentarono il dramma dei Balcani,si giunse ad una nuova geografia di quel territorio caratterizzato da nuove realtà quali quelle di Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Repubblica di Macedonia, Montenegro,Serbia e Slovenia.
In Ungheria la transizione avvenne in modo pacifico, così come in Cecoslovacchia che poi  nel 1993 diede vita alla Repubblica Ceca e a quella Slovacca.
Invece in Germania vi fu un rapido susseguirsi di eventi che portarono alla riunificazione dei cinque Länder della parte orientale con la Repubblica Federale Tedesca, scomparve così, dopo le elezioni del marzo del 1990, la DDR, per giungere all'unificazione del 3 ottobre dello stesso anno.
La dissoluzione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). è compresa tra il 19 gennaio del 1990 ed il 31 dicembre del 1991.
Il colpo di stato del 20 agosto del 1991 ad opera dell'Armata Rossa e KGB contro il riformismo di Gorbačëv, che per una serie di circostanze ricadde su se stesso; le successive dimissioni di Michail Gorbačëv come presidente dell'Unione Sovietica del 21 dicembre del 1991, sono altri eventi che precedettero la fine dell'URSS e la nascita della Comunità di Stati indipendenti (CSI).
Le ultime considerazioni di Antonio Megali riguardano l'Italia dove le conseguenze della caduta del Muro si verificarono con i risultati delle elezioni politiche del 5 aprile del 1992, che si svolsero per l'ultima volta con il sistema proporzionale, e, nel contempo, vi fu, a seguito di quei risultati, il ridimensionamento delle due maggiori forze politiche, il passaggio da un modello proporzionale ad un sistema bipolare, la frammentazione della Democrazia Cristiana che avrà diverse anime tra le quali il Partito Popolare Italiano, la trasformazione del Partito Comunista Italiano in Partito Democratico della Sinistra e la formazione  del Partito della Rifondazione Comunista, la partecipazione di nuove realtà come la Lega Nord che ottenne ottimi risultati, così come le destre ed il Movimento Sociale Italiano.
Questo cambio di rotta nella geopolitica rappresentano la fine della Prima Repubblica e con la fase di Tangentopoli che sancì, tra l'altro, la scomparsa dei partiti tradizionali.
Antonio Megali conclude il suo intervento con un'ultima osservazione.
La caduta del Muro  provocò due conseguenze : da un lato accelerò la globalizzazione e accentuò la preminenza dell’economia sul pensiero politico; dall’altro lato l’unificazione tedesca ebbe come contraccolpo la nascita di varie entità locali e statali su base etnica.

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13 dicembre 2013

(1) Garrigue era il cognome della moglie americana Charlotte, assunto per appoggiare la battaglia che lei andava conducendo per l’emancipazione femminile;
(2)  Cfr. T. G. Masaryk , La Nuova, cit., p.7;
(3)  Ibidem,
(4) Nicholas Mirzoeff, Guardare la guerra. Immagini del potere globale, Meltemi, 2004.

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