
Si è  concluso il ciclo di manifestazioni estive denominato “Serate al Chiostro”:  tre  incontri   legati da un sottile filo, che è quello  della comunicazione. 
    Infatti  nella prima giornata Gianfranco Cordì presentando il suo libro Tracciati  ha messo in risalto quanto sia importante  conoscere il pensiero di grandi filosofi per capire meglio la realtà che ci  circonda. Antonella Morello ci ha fatto riflettere  sul bisogno che ha l’uomo di comunicare e sui  nuovi linguaggi.
    «Chi  ormai ha superato i cinquant'anni si ricorda di una persona anziana - esordisce  Antonino Megali- che di solito veniva in compagnia di un infermiere passeggiava  sul corso Garibaldi di Reggio Calabria».
    Il  coordinatore della giornata di studio, nonché socio del Circolo Culturale  L'Agorà, ricorda ai presenti l'aspetto del personaggio in questione, le sue  movenze, il suo modo di vestire.
    Ricorda  quando entrava nei negozi a comprare cravatte, fazzoletti, oppure, quando  piazza Camagna inveiva contro la statua che raffigurava un altro personaggio  reggino da cui la piazza ha preso il suo nome.
    Tale  figura, il cui aspetto poteva far pensare a Pirandello - continua Antonino  Megali -  era Giuseppe Musolino.
    Il  personaggio in questione è stato ricordato dalla relatrice Mimma Suraci che nel  corso del suo intervento ha effettuato un paragone con i precedenti incontri  dove, dopo la filosofia concettuale e la forma dialogante, Musolino è l’esempio  concreto di come l’uomo può comunicare anche in situazioni difficili. 
    Una cosa,  infatti, mi sento di poter affermare - continua la relatrice -  senza tema di essere smentita, ed è  proprio  il fatto che Musolino sia stato  un importante comunicatore. Diciamo subito che a me interessa la storia per  poter attualizzarla. 
    Conoscere  il passato ha, secondo me, un senso se si riesce  a trarne insegnamenti per il presente e anche  per il futuro, a renderla, cioè, contemporanea. 
    Mi rendo  anche conto che  la ricerca della  verità  è quasi impossibile, come già  sosteneva Erodoto più di 400 anni a.C. . 
    Il  fondatore della storiografia ha operato una distinzione importantissima tra  verità e realtà; la verità storica è lo svolgimento effettivo dei fatti e degli  avvenimenti, ma la sua comprensione è negata alla mente umana, la quale invece  percepisce la realtà, anzi le diverse realtà, che sono interpretazioni diverse  della verità originaria. 
  Che  dire, dunque, di Musolino? - si chiede la Suraci-  Noi conosciamo questo personaggio attraverso  le notizie che ci hanno fornito diversi testi, che spesso interpretano in  maniera diversa gli avvenimenti, anche se c’è da mettere in evidenza il fatto  che tutti coloro che hanno scritto di Musolino   erano persone lontane dalla nostra terra, per cui, in mancanza di  notizie dirette, sovente la storia si intreccia con la leggenda. 
    Musolino,  nato nel  1876, è il terzo di cinque  figli. 
    Il padre  , anch’egli  di nome Giuseppe, fa il  segantino ed è soprannominato “peddicchia”, cioè pellaccia,  appellativo  anche del figlio Giuseppe,  che dimostra subito un carattere molto vivace, anzi ribelle. 
    Un trauma  cranico, causato dalla caduta di un vaso di fiori dal davanzale di una finestra  mentre Giuseppe Musolino, ragazzino di nove anni, si trovava di sotto  secondo alcuni pare sia stata la causa scatenante  di attacchi di epilessia, anche se bisogna dire che pure la sorella Ippolita  soffriva dello stesso disturbo. 
    La madre  Mariangela Filastò pare fosse nipote di un   principe francese riparato in Sicilia per sfuggire  ai rigori della rivoluzione e poi passato  a Reggio dove si era sposato. 
    Musolino  vanterà sempre i suoi nobili natali in   nome dei quali affermerà  ancora  di più arroganza e  prepotenza. 
    Il padre  preferisce mandarlo a Messina, presso un cugino, per allontanarlo da  rischi  di una cattiva compagnia e in  quegli anni  muore la madre. 
    Questa  perdita sarà motivo perenne  di cruccio  per il ragazzo, che se ne sente colpevole e in un certo senso diventa ancora  più ribelle. 
    Rientrato  in paese pare abbia assunto la guida di un gruppo di  picciotteria . 
    A  diciassette anni è condannato a cinquanta  giorni di carcere per essere stato sorpreso a cacciare con il fucile del padre,  senza porto d’armi, naturalmente. 
    Con  l’aiuto benevolo del sindaco Francesco   Fava il padre riesce a trovargli lavoro presso una ditta che  costruisce il binario della  tratta ferroviaria Reggio- Eboli. 
    Resisterà  appena quattro mesi e rientra in paese riprendendo le compagnie pericolose e  rendendosi spavaldo anche in famiglia, al punto che lo stesso genitore è  costretto a denunziarlo presso il locale Comando dei carabinieri per minacce  personali. 
    Aggredisce  anche una ragazza che su consiglio del padre Musolino rifiuta di sposarlo e  procura ferite con un coltello a lei e a suoi familiari. 
    Per  questi episodi  era stato condannato  altre tre volte. 
    Come  riferisce Enzo Magrì, rapporti del  vice  brigadiere Luzzarra confortati  da  relazioni del sindaco riferivano che Musolino durante i quattro mesi trascorsi  nel cantiere delle ferrovie aveva preso  contatti con la malavita organizzata, giunta in Italia dall’estero. 
    Secondo  una leggenda, infatti, tre fratelli spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso della aristocratica famiglia  dei Montalbano, avendo punito severamente un nobile che aveva offeso la  sorella, avevano lasciato la Spagna per rifugiarsi in Sicilia, dove Osso aveva  fondato la mafia affidandosi a San Giorgio, Mastrosso era andato in Campania,  dove, sotto la protezione della Madonna aveva fondato la camorra, Carcagnosso  era giunto in Calabria  organizzando con  l’aiuto di San Gabriele Arcangelo  la picciotteria, poi divenuta ‘ndrangheta. 
    Rientrato  in paese, sempre secondo i  rapporti  delle autorità, pare che Musolino  avesse  organizzato un gruppo, del quale era considerato il capobastone. 
    In questo  ruolo era stato chiamato da una delle parti   a tutelare i propri interessi in una controversia relativa ad una  partita di nocciole. 
    In una  prima rissa Musolino  riporta varie  ferite da coltello ad una mano e giura che   ci sarebbe stata una reazione importante. 
    Qualche  giorno dopo,il 29 ottobre 1897  si compie  la spedizione punitiva sparando  un colpo  di fucile che perfora  la porta dell’  abitazione dell’ avversario, Vincenzo Zoccali, e altri quattro colpi a vuoto. 
    Al di là  dell’episodio delle nocciole,  pare che  il rancore tra Musolino e Zoccali avesse origine proprio nel predominio  in paese,una sorta di egemonia che incuteva  rispetto e timore. 
    Per  questo reato Musolino viene accusato, arrestato,processato e per una serie di  false testimonianze condannato a 21 anni di carcere, anche se a sparare non era  stato lui, ma il  più giovane del gruppo,  quel  Giuseppe Travia riparato in  America, dove, molti anni dopo, nel 1933, dirà che a sparare era stato proprio  lui e non Musolino. 
    Per la  difesa di Musolino la famiglia considera con estrema cura e attenzione la  posizione dei migliori avvocati di Reggio Calabria, dove si distinguevano i  fratelli Tripepi impegnati anche in politica nel settore liberale-democratico e  Biagio Camagna, massone-radicale. 
    Per  opportunità  “politica” lo zio  Gaetano Filastò, rappresentante di tutti i familiari, si rivolge a Domenico  Tripepi,che però pretende una parcella esosa di 500 lire,una cifra impossibile  per una famiglia modesta. Quindi,con la mediazione  del Sindaco Fava , si ripiega su Camagna, che  accetta l’incarico per il compenso   accettabile di 100 lire. 
    Camagna,  però delude le attese con una difesa blanda e insufficiente, tanto che lo  stesso Musolino  sosterrà  sempre la tesi che l’avvocato lo  abbia volutamente trascurato, perché, essendo  cugino di Giuseppe Travia, il vero autore degli spari, abbia voluto proteggere  il congiunto.
    Musolino,  comunque, non accetta la condanna e pensa subito come fare per evadere in modo  da farsi giustizia da sé; fallita l’evasione, che doveva essere di massa, dalle  carceri di Reggio Calabria, Musolino con altri tre compagni  è tradotto nel carcere di sicurezza di  Gerace, da dove riescono tutti e quattro ad evadere il 9 gennaio 1899. 
    Da qui  comincia la latitanza sterminatrice di Musolino, il quale dal 27 gennaio 1899  al 27 agosto del 1900,cioè in  appena 19  mesi commette 10 omicidi  e almeno altri  7  tentativi, mentre il nemico di sempre  Zoccali si era rifugiato negli USA e in sua vece morirà il fratello. Protetto  dal popolo e anche da autorità, complice l’incapacità operativa delle forze  dell’ordine nonostante schieramenti   ingenti e piani strategici meticolosi, Musolino  spopola con spavalderia prendendosi gioco di  tutti. 
    Il 9  ottobre del 1900 Musolino viene arrestato casualmente da due carabinieri  a sette chilometri da Urbino. “Malidittu  chillu filu”, dirà con riferimento al filo di ferro che legava le viti e  nel quale era inciampato  correndo. 
    Il  processo sarà celebrato a Lucca e avrà risonanza internazionale. 
    È un vero  e proprio spettacolo con gli spettatori, soprattutto donne del popolo e  dell’aristocrazia, che fanno la fila per poter entrare in aula, l’imputato che  catalizza l’ attenzione con il suo dire estemporaneo e immediato che lo rende  interessante e che si conclude con la sentenza datata 11 giugno 1902  e la condanna all’ergastolo, confermato dalla  Cassazione  in data 30 luglio dello  stesso anno. 
    Il 1°  agosto viene tradotto nel carcere di Portolongone all’isola d’ Elba, dove  rimane fino al mese di settembre del 1912, quando viene trasferito a S. Stefano  di Ventotene, isolotto del Tirreno tra Ponza e Ischia. 
    Il 22  gennaio 1916 lo internano nell’ospedale criminale di Reggio Emilia, dove  rimane fino al 12 agosto del 1946, quando è  trasferito  al manicomio di Reggio  Calabria, dove vivrà fino al 22 gennaio 1956. 
    Musolino  ha dichiarato più volte di sentirsi un uomo libero, facendo riferimento alle  proprie ali, con le quali avrebbe voluto volare lontano e in alto. 
    Il  concetto di libertà è connesso strettamente a quello di rispetto e Musolino non  ha avuto rispetto né per se stesso né per gli altri. 
    Ha  giocato, infatti,prima di tutto con la propria vita e poi con tante altre vite  umane. 
    Dal  valore “libertà” discende l’ esigenza delle regole e, quindi, la  necessità delle leggi e il ruolo della giustizia. 
    Se  riflettiamo un po’, possiamo affermare senz’altro che, alla nascita, l’ uomo è  l’ unico essere vivente che, alla nascita, è completamente indifeso e, perciò,  dipendente dagli adulti che si prendono cura di lui. 
    L’uomo,  infatti è un animale sociale, come sosteneva Aristotele, che può e deve vivere  insieme ad altri uomini e, per fare ciò, deve rispettare delle regole. 
    Nel tempo  e nello spazio molte regole, tenuto conto della molteplicità dei caratteri,  sono diventate leggi. 
    Musolino  non ha mai accettato alcuna regola; aveva un codice tutto suo, per cui ha  interpretato in maniera personalistica la giustizia (fai da te). 
    In  proposito, c’è da dire che la giustizia italiana,già ai primi anni del  novecento non godeva certo di buona reputazione. 
    Per farsi  un’ idea è opportuno leggere il capitolo dedicato  a   Musolino e la legge in Vecchia Calabria di Norman Douglas, uno scrittore  straniero innamorato della nostra regione che riesce a leggere  in maniera critica la società del tempo.” 
    Solo chi  non sappia nulla delle condizioni locali troverà strano che si possa scoprire  nelle leggi italiane uno dei fattori che contribuiscono alla disgregazione  della vita familiare in tutto il paese, e all’apparizione di figure come   Musolino……
    Insomma,  che il metodo seguito laggiù sia fatto apposta per generare piuttosto che per  reprimere il delitto, sono verità troppo elementari per entrar nella testa dei  retori megalomani che controllano il destino del paese….
    La  retorica, e solo la retorica decide di una causa in tribunale…
    Solo la retorica  conta; solo la retorica è un’ arte….
    I  giornali italiani non rispecchiano in nessun modo le opinioni dell’Italia  civile; sono pura e semplice carta da imballo; in tutta la penisola , non vi  sono che tre quotidiani decenti e il codice italiano, che suona come una bella  fiaba  e agisce come una furia, è il  peggiore che l’ ingegno umano possa partorire……
    Da un  lato v’è un diluvio di disquisizioni sottili sulla “giurisprudenza”, la “responsabilità  personale” e così via; dall’altro, quella sinistra idiozia  chiamata “legge”, sinonimo di  chiacchera, corruzione, idee paleolitiche sulla natura delle prove  testimoniali….
    Ho  parlato della  buffoneria della giustizia  italiana; avrei potuto chiamarla una farsa.” Come dire che quella attuale è una  storia vecchia, un dejà vu, anche se noi la viviamo sulla nostra pelle. 
    A questo  proposito oggi è di moda parlare di legalità e organizzare corsi, incontri,  soprattutto nelle scuole, ai quali partecipano molti giudici; secondo me, i  giudici farebbero meglio ad impegnarsi seriamente perché la giustizia sia  rapida ed equa; ai corsi dovrebbero pensare i docenti  tenendo comunque conto che i ragazzi hanno  bisogno di esempi piuttosto che di parole; il giudice, piuttosto che fare  lezione, deve fare il proprio mestiere, deve, dunque,  giudicare assolvendo  gli innocenti   e  condannando i colpevoli  in tempi rapidi . 
    Ai  ragazzi  deve rimanere la  percezione concreta che la giustizia c’è, è  giusta, è reale. 
    In questo  clima in un certo senso confuso, Musolino si sente autorizzato  ad adottare un codice tuttopersonale, per  cui  tutto diventa relativo e anche  l’azione più violenta trova giustificazione. 
    In  effetti quest’uomo ha  affermato sempre  di avere rispettato le donne e i rappresentanti delle forze dell’ordine,  ma  in realtà tra i suoi misfatti ci sono  pure  gli assassinii di un brigadiere e  di una donna e diverse sono state le donne nei confronti delle quali egli ha  usato atteggiamenti violenti  e aggressivi. 
    Anche la  dimensione religiosa in Musolino è del tutto personalizzata. 
    Egli è  devoto in modo particolare a San Giuseppe e alla Madonna di Polsi che lo  proteggono, secondo lui, nelle sue smanie omicide e Dio è spesso da lui  implorato e altrettanto spesso bestemmiato. 
    C’è da  dire, in questo contesto che spesso la devozione a qualche santo si accompagna  a persone, gruppi, organizzazioni criminali, che eleggono un protettore  spirituale.
    (A  proposito dei tre nobili spagnoli dai quali discenderebbero le tre più grosse  organizzazioni mafiose  si è già fatto  notare l’aspetto devozionale ai santi protettori). 
    Alla  propria idea di fede Musolino associa quella del sogno, altro elemento  ricorrente nella sua vita. “ Tutta la mia vita fu un sogno”, dirà  durante l’interrogatorio al processo di Lucca. 
    Nel suo  mondo onirico il brigante si vedeva libero, libero di volare a proprio  piacimento, libero di trasformarsi in una “bomba” per evadere  facilmente dalle carceri di Gerace e poi  vendicarsi  delle ingiustizie subite. 
    Attribuisce  a San Giuseppe , apparsogli in sogno la notte di Natale, l’aiuto per  espugnare  il carcere e riconquistare la  libertà… “..la mia stessa natura” indica Musolino al processo come  origine dei suoi guai, insieme alla “ giustizia ingiusta “ e ai   “persecutori implacabili”. “Gran parte  dei miei guai deriva da malattia, io sono un infelice Sono più disgraziato di  tutti, prigioniero del mio carattere. Voi non lo potete comprendere né io  stesso me lo spiego come sono formato”. 
    Il padre  a sua volta : “E’ Peppinu meu. L’origine   dei guai della mia famiglia”. 
    Pascoli  :”ognuno di noi ha il suo Musolino dentro, guai a stuzzicarlo.” 
    Ancora  Pascoli in una cartolina inviata a Costa pregava l’ avvocato di  “ salutare Musolino vittima di due cecità  : quella della natura e quella della giustizia”. 
    Che dire  ? Ognuno di noi nasce con delle caratteristiche peculiari che sono contenute  nel proprio DNA. 
    Il  carattere però della persona si alimenta, si forma, si plasma, si modifica, si  affina con il processo educativo in un rapporto   interattivo empatico con gli altri. 
    A  Musolino probabilmente sono mancati questi passaggi. A questo punto mi piace  considerare  la “calabresità” come  un nostro valore. 
    Cesare  Lombroso, padre dell’antropologia criminale, nel 1862 era stato in Calabria per  prestare il servizio militare. 
    Successivamente  era tornato da psichiatra per i suoi studi. 
    Nel 1892  pubblica il saggio  “In Calabria”,  nel quale si dice convinto di avere individuato in alcune peculiarità della  razza calabrese le ragioni della predisposizione alla faida della gente bruzia,  sostenendo che “la popolazione, intelligentissima perché deriva da un misto  di romani, greci e fenici, di cui serba traccia nella forma allungata del  cranio, nel dialetto e nei canti, è audace, eroica, desiderosa di dominio fino  alla prepotenza : ha però nel suo seno una cifra non indifferente di colonie  albanesi e greche, specialmente verso la punta d’Italia, che discendono da  popoli imbarbariti nel medioevo e sono in uno stadio veramente inferiore di  senso morale “. 
    Di  Musolino Lombroso dice che è ora  “un  criminale non nato”, ora  “un  criminale puro”, dunque pieno di contraddizioni. 
    E’ fuori  di dubbio che lo stefanita, aldilà di ogni forma di falsa modestia, sia un  individuo dalla mente aperta, dall'intuito pronto, geniale, estroso, e pure  sentimentale e passionale. 
    Egli è  sempre all’avanguardia, pronto a rispondere agli stimoli e a sposare le cause  giuste fino anche all’estremo sacrificio. sintomatico, a tal proposito, il  ruolo svolto nel periodo risorgimentale dai patrioti del nostro Paese. 
    Spesso,  però, lo stefanita, e il calabrese, si è sentito tradito dalle istituzioni per  le quali si era consacrato, ma ha affrontato con altrettanto orgoglio questa  situazione. 
    “Vorrei  essere toscano, non calabrese, per dirvi cose intelligentemente”, afferma  al processo Musolino, il quale, convinto di essere inferiore, come calabrese,  ad altri italiani, si rifugia nella delinquenza. 
    Stefano  Romeo, invece, protesta civilmente e con orgoglio dimettendosi, nel 1868, da  deputato del Parlamento italiano, dopo aver verificato che gli impegni politici  assunti dal Governo nei confronti 
    della  Calabria erano stati puntualmente disattesi. 
    Anche la  storia successiva del nostro territorio ci vede in prima linea a difendere i  principi di libertà e giustizia. 
    Certo le  popolazioni calabresi sono deluse dall’Unità d’Italia, per le promesse non  mantenute e per la solitudine in cui era stata lasciata la regione. 
    Musolino  diventa il simbolo, comunque negativo, di questa situazione. 
    Come  commenta Magrì in più di mezzo secolo non si era riusciti a costruire una  strada di appena 24 
    chilometri  per collegare Santo Stefano a Reggio.
    Anche  oggi gli stefaniti vivono una stagione difficile che vede il paese al collasso  ; molti indigeni sono stati costretti ad emigrare per motivi diversi, la  popolazione è giunta al minimo storico, i servizi sono scarsi e insufficienti  sia per i residenti che per i turisti ; non si riesce a realizzare una strada  di collegamento veloce Gallico-Gambarie che potrebbe costituire un volano per  l’intera vallata. 
    La  spaccatura tra cittadini e Stato si è allargata sempre più fino a giungere ad  uno scollamento che vede le due parti come contendenti; il cittadino considera  lo Stato come un nemico dal quale bisogna difendersi, quando piuttosto lo Stato  in un paese democratico si dovrebbe identificare  con il cittadino, tutelarlo e raccoglierne le  istanze. 
    Bisogna  anche riflettere sul fatto che, nel periodo in cui si svolge la storia  del nostro bandito, il fenomeno del  brigantaggio è diffuso in tutta la penisola con rappresentanti ancora più  pericolosi dello stesso Musolino. 
    Non ci  dobbiamo sentire feriti, umiliati, dunque, se il nostro territorio ha generato  ed è stato teatro di questa vicenda umana tormentata e difficile, e neppure,  naturalmente, farne motivo di vanto o di esaltazione. 
    Dobbiamo  registrarne la storia e analizzarne i contenuti con il rigore del critico, per  vivere meglio il nostro tempo. 
    Dicevo  all’inizio che Musolino è stato un grande comunicatore, in un certo senso  anticipando ante litteram il ruolo importante che occupa nella società  attuale appunto la comunicazione. 
    Musolino  ha cercato anche durante la latitanza di comunicare la sua versione dei fatti,  si è messo lui stesso in contatto con il   giornalista Domenico Nucera   Abenavoli rilasciandogli un’intervista molto dettagliata. 
    Durante  il processo a Lucca interveniva con immediatezza e improvvisazione rivolgendosi  sia alla corte sia al pubblico dando spettacolo; teneva testa al Giudice  rifiutandosi di seguire le regole del processo, come per esempio di indossare  la divisa dei carcerati e  per l’  autodifesa  ha parlato per un’ ora e  mezza  ininterrottamente catalizzando l’  attenzione generale. 
    A seguire  il processo stampa italiana ed estera;   molte le lettere e i biglietti e le cartoline indirizzati a lui e alla  sorella Ippolita per esprimere incoraggiamento e comprensione; insomma si è  trattato di un fenomeno mediatico di vaste proporzioni. 
    “Ma  pensate che sono il conte Ugolino ?  Ma  vi pare che voglio fare come la figlia del Gran Visir delle Mille e una Notte che  per salvarsi racconta una favola? Io vi racconterò la verità. Giuro davanti a  Cristo che sono innocente del primo delitto. Se volete ve lo spiegherò”. 
    Musolino  in carcere leggeva, anzi studiava.  Gli  piaceva rileggere “Il conte di Montecristo”  perché narrava di un caso simile al suo.  Dizionari e grammatiche “Il Bene e il Male” di Paolo Mantegazza, una  guida allo studio di classici come Eneide, Iliade, Odissea… Musolino divorava  libri, scriveva poesie, alcune delle quali venivano pubblicate , dietro compenso,  su “Il Mattino” di Napoli. 
    A lui si  sono interessate persone di cultura come Pascoli che gli dedica una poesia,  rimasta incompiuta, Totò, che lo cita nella poesia “A mundana” Giacomo  Puccini, che di passaggio a Lucca assiste ad un’udienza, Corrado Alvaro  che sottolinea il ruolo delle donne nella  diffusione del mito  di Musolino,  Pitigrilli  che gli dedica un saggio e  poi tante biografie, dall’intervista ad Abenavoli, a Norman Douglas, a  Vespucci, Palmisano, De Nava, Magrì, Romeo, a Dario Altobelli che di recente,  nel 2006 pubblica “Indagine su un bandito. Il caso Musolino”.
    Durante  il processo chiede ad un giornalista se scriverà un libro su di lui, afferma  che deve essere di almeno mille pagine e conclude che un libro sulla propria  vita può scriverlo soltanto lui stesso. 
    “Don Peppino Musolino ex brigante ha  costruito un vero sistema filosofico”, questo il titolo di un articolo  pubblicato dal “ Corriere di Roma” nel  1950 a firma di L. Illuminati, un giornalista che intervista Musolino nel  manicomio di Reggio Calabria e che così lo descrive : “..un’ aristocratica  figura di vecchio, un uomo che non ha nulla di volgare e di rozzo all’aspetto.  Statura dritta ed alta, piccoli occhi mobili e vivaci, elegante e prominente  naso aquilino, taglio netto e sottile della bocca, dentatura bianca e quasi  perfetta, pizzo candidissimo sul mento mefistofelico. 
  Portava  un cappello grigio a  cencio e vestiva un  abito signorilmente  corretto nella sua  modestia. 
  Il  bastone era un ramo scorticato di albero , su cui si appoggiava con aria un po’  sbarazzina. 
  Un  sorriso ironico gli illuminava il volto”. 
    Il titolo  di quest’articolo credo sintetizzi perfettamente la figura di Giuseppe  Musolino, perché in effetti  possiamo  dire che questo brigante ha vissuto elaborando un teorema di pensiero  filosofico e può essere considerato un personaggio del presente.
    Si  conosce la presenza, in questo periodo storico, di briganti nell’Italia  meridionale. 
    In  effetti il fenomeno non fu circoscritto perché anche in altre parti della  penisola ci furono figure di spicco  nel  campo. Ne ricordo  alcuni:Stefano  Pelloni,brigante dello Stato Pontificio, prima dell’unificazione.  Successivamente al 1860: Rufolone, originario del viterbeseFrancesco De  Michelis e Luigi Fiandro dal 1897 esponenti del brigantaggio subalpino,  battevano sistematicamente la Lombardia. 
    La  Toscana era feudo di Luciano Fioravanti ex luogotenente di Domenico Tiburzi,  detto il Domenichino. 
    Tiburzi,  morto ucciso dai carabinieri nel 1896, ha rappresentato un esempio di come fosse  possibile in Italia invecchiare in libertà pur praticando il brigantaggio. 
    Maremmano,  quasi sessantenne, era stato alla macchia per 24 anni, aveva ucciso 17 persone  e commesso una lunga serie di misfatti. 
    Durante  la latitanza conduceva una vita da libero cittadino  partecipando a Roma ai festeggiamenti  per le nozze d’argento di  Umberto I e Margherita di Savoia. 
  Eredita  il ruolo la banda composta da Settimio Menichetti, Settimio Albertini e Antonio  Ranucci, considerati troppo malvagi dal Capo per poter operare insieme per  Violante   versi di Musolino canto  popolare  “A' mundana di Totò “ .




