
Per un bilancio delle  condizioni economico-sociali del Regno di Napoli dopo il decennio francese  1806-1815 è necessario parlare dei profondi cambiamenti avvenuti nella struttura  tradizionale della società, dei rivolgimenti che il Mezzogiorno subì durante il  periodo napoleonico ed analizzare il nuovo assetto della società meridionale  come si presentava nel suo epilogo. La distruzione delle vecchie strutture  feudali aprirono una nuova era, con la costituzione delle nuove, legate agli  ideali di uno stato moderno ed almeno relativamente egalitario, scaturito dagli  ideali della Rivoluzione francese.
    L’Italia rimasta  indietro tra il 16° e il 17° secolo, a seguito dello spostamento delle vie  marittime e commerciali verso l’Atlantico, aveva trovato nell’intervento  francese del 1796-99 e successivamente dal 1800 al 1815 una possibilità di  cambiamento riformatore, con la trasformazione rivoluzionaria delle antiche  strutture economiche e sociali. La diversità delle società regionali, la  diseguale propensione allo sviluppo tra le diverse parti del Paese, portarono  delle differenze che si appalesarono nelle modalità dell’Unificazione da cui  scaturirono i tratti essenziali della società italiana moderna. Si tratta di  precisare l’importanza delle trasformazioni che il Mezzogiorno continentale  ebbe tra il 1806 ed il 1815, i risultati conseguiti. Il Reame di Napoli nel  secolo 18*, aveva avuto un rinnovamento nelle sue strutture statali anche se  gravate dal carico delle istituzioni feudali. In effetti ancora per tutto il  700, il baronaggio costituiva il gruppo sociale abbastanza omogeneo e compatto,  la cui forza sostenuta e rinsaldata da privilegi politici e giurisdizionali  aveva anche una reale base economica e si irradiava in ogni parte del paese. Ai  baroni andava oltre il 20% del reddito feudale che in insieme a quello della  Chiesa che si aggirava al 20/30% ed ai possessi finanziari, privative,  arrendamenti fiscali , integravano in modo abbondante  i possedimenti feudali. Le riforme di Carlo e  Ferdinando stimolate dal movimento riformatore degli economisti meridionali  avevano inciso ma non erano state efficaci generando solo effetti isolati.  La rivoluzione del 1799 ebbe una importanza  grandissima, non tanto per i provvedimenti eversivi del governo repubblicano,  maturati tardi e rimasti inefficaci, quanto per lo sconvolgimento che  provocarono nel paese, la propaganda rivoluzionaria, la lotta delle fazioni ,il  mutamento del regime, la conquista e la riconquista, l’azione delle masse  sanfediste. Il 1799 fu la prima grande esperienza politica della borghesia  meridionale non solo degli intellettuali giacobini, ma anche dei galantuomini  dei proprietari delle provincie che furono trascinati sia pur malvolentieri  dalla drammaticità   della lotta a  prendere posizione, a uscire dal letargo politico nel quale si erano creata la  loro fortuna economica. Il lento maturare della coscienza politica diventa più  rapido sotto la spinta degli eventi proprio tra il 1799 ed il 1806 e rende  consapevole la borghesia fondiaria e agraria della sua posizione di classe fra  baroni e contadini. Gli avvenimenti del 1799 colpiscono duramente anche il  baronaggio, la rivoluzione era arrivata e la pur tardiva ed inefficace promulgazione  della legge antifeudale mostrò quanto grande ed incombente fosse la  minaccia.  La compattezza   stessa del ceto fu incrinata dalla defezione  di alcuni, che, se pur costituivano delle frange denunziavano il pericolo di  sfaldamento. Certo la feudalità era in crisi, ma per la sua rovina l’intervento  francese fu decisivo, conservando in Napoli un carattere rivoluzionario, esso  valse a rompere definitivamente a favore della borghesia meridionale  l’equilibrio instabile che si era creato tra il 1799 ed i 1806. I due sovrani  francesi che si succedettero tra il 1806 e i 1815 Giuseppe e Gioacchino, furono  i rappresentanti di una nuova società scaturita dagli eventi rivoluzionari  d’oltralpe, essi portarono nell’esercizio del potere, forze fino all’ora  sconosciute. Il rivolgimento agrario che va sotto il nome di eversione feudale,  è stato uno dei provvedimenti cardine di quel periodo riformatore, lo stesso  influì  con un profondo cambiamento  politico e sociale nella società meridionale, essendo quello agricolo  il sistema di produzione di reddito più  importante, e posto alla base dei rapporti sociali, fino allora, questi  rapporti, pesantemente  orientati alla  subalternità della maggioranza degli abitanti del Regno, al dominio feudale dei  Baroni e del Clero.  Gli obiettivi che la  maggior parte dei riformatori napoletani unitamente alla borghesia  rivoluzionaria si erano posti, non erano quelli della distruzione della grande  proprietà, ma anzi l’affermazione del concetto di proprietà, il riconoscimento  ed il consolidamento dei suoi diritti preminenti e assoluti contro i vincoli  feudali che la comprimevano, la legavano al regime degli usi civici, ne  ostacolavano la libera circolazione. In questo senso furono orientate le leggi  che operarono abbastanza efficacemente. I baroni furono privati principalmente  della giurisdizione feudale, dei diritti proibitivi, di alcune prerogative  fiscali. Ebbero in libera proprietà quei terreni del feudo senza contestazione  goduti ed amministrati in maniera esclusiva. Del demanio del feudo, sul quale i  cittadini esercitavano gli usi civici ricevettero da un quarto a tre quarti,  mentre la parte restante fu assegnata ai comuni perché fosse quotizzata ai  cittadini più poveri in compenso degli usi civici. Furono ridotte decime e  censi, ed alcune considerate esorbitanti, estinte. In tale maniera,  soprattutto, ed anche alle non numerose quotizzazioni demaniali, fu creata una  piccola e media proprietà contadina interamente libera o facilmente  riscattabile. Ci furono molte resistenze da parte degli ex baroni, ma l’opera  di redenzione prosegui con Murat ed i suo ministro dell’Interno Zurlo insieme  al Procuratore generale della commissione feudale Davide WINSPEARE ,  magistratura speciale istituita nel novembre 1807 ,per  dirimere le liti fra feudatari e comuni   sulla divisione degli ex feudi, nell’ottobre del 1809 fu costituita una  nuova magistratura straordinaria quella dei commissari ripartitori per portare  a termine le quotizzazioni demaniali. Ancora una volta insieme agli ex baroni  si levarono le voci di protesta della borghesia abbiente, il lavoro di  quotizzazione rallento fino ad inficiarsi, il 31 dicembre 1811 furono  completati senza proroga i lavori dei commissari ripartitori. Da più  parti si reclamava la cessazione delle  magistrature  straordinarie e la  normalizzazione delle procedure, tutto ciò porto al sacrificio delle  quotizzazioni, le funzioni di commissari ripartitori passarono agli intendenti,  con l’affossamento completo delle quotizzazioni. Gli intendenti avevano gravi  responsabilità e occupazioni e non potevano curare se non in casi eccezionali  la questione demaniale. La mancanza di stanziamenti finanziari ed altri  problemi politici impedivano l’applicazione della legge, La borghesia agraria,  grossi proprietari allevatori, amministratori dei comuni erano nettamente  ostili, aspirando al possesso dei demani diretto e mal sopportavano che questi  fossero assegnati ai contadini, ai quali in un modo o nell’altro riuscivano a  sottrarli. Certamente dopo l’assegnazione, il recupero riusciva più costoso che  non la diretta gestione, attraverso le cariche comunali e le usurpazioni sui  terreni mal custoditi e abbandonati. La distribuzione delle terre demaniali ai  contadini poveri il grande disegno della formazione di una piccola proprietà  coltivatrice avrebbe richiesto per avere successo un profondo impegno non solo  politico ma anche finanziario del governo che era in quel momento assolutamente  impossibile. In ogni modo, considerare fallita l’eversione feudale solo perché  non riuscì ad assicurare le quote di terra ai contadini poveri è una  conclusione assolutamente inaccettabile, aspettarsi che dalla rovina del  baronaggio potessero approfittarne i contadini è molto ingenuo, gli eredi più o  meno legittimi dei feudatari non potevano essere che i galantuomini. Il vecchio  baronaggio era distrutto.  Gli eredi di  esso, i galantuomini, la grande borghesia fondiaria, assieme con le terre  ereditarono una parte dello spirito feudale che furono causa della mancata  recisione dei vincoli inibitori che impedirono l’ascesa economica del  Mezzogiorno. Le origini storiche della borghesia meridionale, l’esser nata e  cresciuta all’ombra del feudo, l’aver avuto in retaggio senza lotte drammatiche  l’eredita feudale ne limitarono lo slancio non le consentirono di diventare una  classe pienamente egemone che sapesse offrire prospettive e soluzioni  risolutive. Le riforme dei napoleonidi si attuarono nei limiti nei quali esse  rispondevano pienamente al grado di sviluppo economico e di maturità  civile della borghesia meridionale, la quale  finiva per assimilare i baroni, ereditandone anche alcuni caratteri. Nel  decennio francese si era attuato il massimo sforzo di rinnovamento, ma proprio  allora per le particolari circostanze politico militari, si erano ridotte  alcune delle spinte che avrebbero potuto sostenere un più rapido sviluppo delle  forze economiche e sociali più progressive.   





