
Si passa quindi alla lettura della  relazione di Vincenzo Cataldo: 
    «Un’orrenda rivoluzione fisica ha riempita  di desolazione, di devastamento, e di strage la parte maggiore della Calabria Ultra». Così esordiva nella sua  cronaca Michele Sarconi nel descrivere il catastrofico sisma che il 5 febbraio  1783 devastò la regione nella sua estensione più meridionale. Le vittime  ammontarono a 29.515 e i danni alle cose a 31  milioni e 250 mila ducati.
    Il terremoto pose fine, da un punto di vista  antropologico, alla cappa di isolamento che aveva avvolto la Calabria fino a  quel momento. Il governo e l’intellettualità non solo italiana ma anche  europea, cominciarono ad interessarsi di quest’area “classica” tutta da  riscoprire e sulla quale indagare secondo i principi di quell’esprit des lumières ben vivo nella  cultura del tempo. 
    I tecnici e gli uomini di scienza della Napoli  illuministica ebbero il compito di indagare direttamente suoi luoghi lo stato  delle cose e delle persone di questo mondo nascosto da una cortina invisibile e  improvvisamente spuntato fuori grazie allo scombussolamento subìto. 
    Lo  stato quasi primitivo in cui si trovava la Provincia veniva fatto risalire  principalmente al suo isolamento geografico e territoriale. L’antica via  Popilia era stata ridotta a mulattiera per il transito dei postali, di qualche  avventuriero o per il piccolo commercio e le vie di attraversamento del  litorale jonico erano demandati in genere alle imbarcazioni. Inesistenti i  ponti sulle due fiumare; nel corso dell’inverno non era quasi possibile  collegarsi con gli altri paesi interni.
    A tal riguardo Gianni Aiello informa  l'uditorio che in diverse occasione sono stati evidenziati attacchi pirateschi  ad imbarcazioni che dalla fascia jonica e non solo transitavano per scopi  commerciali.
    Ritornando alla relazione di  Vincenzo Cataldo: 
    Lo  stesso abate Ferdinando Galiani, segretario del Supremo Magistrato del  Commercio, auspicava un intervento che tenesse conto delle esigenze delle  classi più povere e metteva in guardia il governo dalle persone «che – faceva  notare - potrebbero profittare dell’attuale ruina de’ luoghi per ingrandirsi comprando  a vilissimo prezzo i terreni e le case dirute o facendosi censi perpetui». 
    Le  sedute d’asta per la vendita dei terreni confiscasti erano molto laboriose  (potevano durare settimane). Quindi anche per partecipare ad un’asta occorreva  essere possidenti, poiché serviva un dispendio di tempo e di danaro che non  tutti erano in grado di sostenere.
    Pochi  massari, la borghesia cittadina e di campagna furono coloro che ebbero i  benefici dalle operazioni di vendita della Cassa Sacra. Fu con questa che si  crearono i presupposti affinché il ceto medio divenisse egemone nello  scacchiere del potere, grazie proprio alla frantumazione del patrimonio  ecclesiastico.
    L’Istituto  rappresentò il momento topico per quel potenziale quanto auspicato passaggio  dalla concezione feudale ad un rapporto più moderno della società, ma il  risultato fu deludente se si pensa che le vendite furono limitate solo al 3 per  cento delle terre disponibili; quasi tutti i compratori erano già ricchi  proprietari; i contadini, destinatari principalmente della legge, rimasero  completamente fuori dall’affare. 
    Tra  gli acquirenti affiora il patriziato di Gerace, ma si fanno avanti anche  famiglie benestanti che fanno parte del ceto borghese come i medici Malafarina  e Lombardo, il mercante Ruggiero e il massaro Frascà. A questi si aggiungono  anche personaggi dell’aristocrazia dei centri vicini (Ardore, Bovalino e  Roccella). 
    Dal  punto di vista politico anche nel Distretto di Gerace si diffusero i prìncipi  sanciti dalla Rivoluzione francese e 12 paesi furono coinvolti nella nuova  esperienza politica che condurrà alla Rivoluzione napoletana del ‘99. La  Calabria a quei tempi era descritta dal Visitatore Generale del Regno Giuseppe  M. Galanti come una Regione caratterizzata da abusi di varia natura; in cui regnava  l’ignoranza, la miseria e il fanatismo; in cui perdurava l’ingiustizia e nella  quale dominava incontrastato il contrabbando di qualsiasi merce, praticato da  tutte le classi sociali, compresi i preti. 
    Dai  documenti chiaramente la partecipazione di molti calabresi del Distretto di  Gerace a quelle vicende, alcuni forse spinti dal momento emozionale, altri da  autentiche convinzioni politiche maturate nel nuovo clima determinato dalla  Rivoluzione francese dieci anni prima. Nonostante il forte incitamento e i  ripetuti appelli delle autorità centrali e periferiche, dagli atti si capisce  che la richiesta di armarsi e di far parte della milizia era stata accolta  tiepidamente: a Riace c’era chi adduceva mali fisici, chi affermava di non  poter partire perché aveva figli piccoli da mantenere e di avere in casa  congiunti in età avanzata, chi di aver già prestato servizio militare per tanti  anni. In casi particolari, allorché una persona si era resa protagonista di  altri reati, conveniva invece arruolarsi per evitare le maglie della giustizia;  altri decidevano di farne parte perché attratti dalla paga. Un volontario di  Grotteria aveva pensato di affittare la cavalcatura del proprio mulo alla  causa, ma arrivato a Borgia durante la notte gli fu sottratto. Per cui «piangendo»,  così è scritto, se ne ritornò a casa.
    Frequentemente  le pretese dello Stato cozzavano con lo stato indigente della popolazione, il  cui sostentamento era riposto esclusivamente nelle braccia dei lavoratori.  Contadini e artigiani, per quanto possibile, cercavano di evitare  l’arruolamento, proprio per potersi dedicare alla cura delle loro famiglie. I  braccianti costituivano la categoria sociale più numerosa della popolazione  attiva, sottoposta ai lavori più pesanti e la loro presenza era estremamente necessaria  alla stessa sopravvivenza del nucleo famigliare. Riguardo al 1799, i documenti  notarili confermano che il popolo ricadente in questa fascia costiera partecipò  con poco entusiasmo a quegli avvenimenti promossi da entrambe le parti, e  quando lo fece fu perché costretto o attratto dal guadagno. 
    Da  quanto emerge dall’esame degli documenti, molti manifestarono una celata  refrattarietà all’arruolamento volontario a difesa del sovrano, anche se  sappiamo di una leva forzosa istituita dal sindaco di Riace. 
    Diversi,  alla fine, presero parte all’esercito sanfedista del cardinale Ruffo. Alcuni  soldati tornati da Napoli chiesero alle autorità di potersi riposare nelle loro  abitazioni e prepararsi, essendo privi di tutto, prima di ripartire col  Cardinale. Un altro volontario dalla guerra ne aveva tratto guadagno in seguito  al saccheggio fatto in molti palazzi della Capitale.
    Dopo  la reazione, non mancarono le accuse di giacobinismo e molti trovarono  l’occasione di maturare antiche vendette. Testimonianze furono vergate a favore  prevalentemente del ceto medio, di professionisti accusati del cosiddetto  «delitto di giacobinismo». Si tratta di persone colte, che avevano viaggiato e  curato contatti con altri intellettuali; uomini immersi nella lettura di  opuscoli e libri riguardanti le nuove idee. Di giacobinismo fu accusato Don  Francesco Lombardo di Gerace e il dottore in legge Gaetano Barbaro di  Grotteria. Anche uno studente fu arrestato con l’accusa di giacobinismo, a cui  facevano da contraltare deposizioni di alcune persone che lo avevano visto  arruolato tra le fila dell’esercito borbonico alcuni anni prima. Sono vicende  che testimoniano la drammaticità del momento, in cui l’accusa poteva tramutarsi  in delazione, come accadde al subalterno della Regia Udienza (corrispondente  all’attuale Corte d’Appello) Luigi Giordano che, incriminato di giacobinismo,  affermò che in caso di assoluzione avrebbe fatto pagare cara l’azione ai suoi  accusatori. 
    Ai  fatti del ’99 fu anche coinvolta la famiglia Caristo di Stignano. A Stilo era  stato il notaio Vincenzo Candido a infiammare gli animi contro il re, iniziando  dal casale di Stignano con l’incitare la popolazione alla rivolta. Ai suoi  discorsi aveva aderito l’amministratore Francesco Martelli, imprigionato poi  nel carcere di Nicotera e nel quale furono anche fatti rinchiudere  successivamente dal Cardinale Ruffo i deputati del popolo Domenicantonio  Contestabile e Ferdinando Castagna. 
    A  riguardo i fatti ed i personaggi originari dell'area jonica della provincia  reggina protagonisti nella Repubblica partenopea Gianni Aiello parla di  Vincenzo Fabiani che fa da cerniera ai periodi storici relativi al 1799, alla  prima restaurazione, al decennio ed alla seconda restaurazione borbonica.
    Vincenzo  Fabiani nacque a Grotteria il 13 febbraio 1778 da Pietro e Caterina Barillaro.  intraprese i primi studi nel seminario di Gerace concludendoli a Napoli dove,  il 27 giugno 1801, si laureò in “utroque iure”, locuzione latina che indica la  laurea in diritto civile e canonico. 
    Durante  il periodo della Repubblica napoletana   svolse le mansioni di commissario del potere esecutivo nel cantone di Gerace  e si distinse nella battaglia di Vigliena del 13 giugno del 1799 e dopo la  caduta della Repubblica conobbe l'esilio, fu a Marsiglia. 
    In  seguito Napoleone Bonaparte gli conferì la carica di reggente della  sottointendenza di Gerace e successivamente assume i gradi di capitano della  guardia provinciale di Calabria ultra per Grotteria e Martone. 
    Partecipò  alla conquista di Scilla al seguito del generale francese Louis Eugène  Cavaignac. 
    Nel  1808 si ritirò dalla vita militare per proseguire l'attività amministrativa  sino al 1815: si spense a Grotteria il 22 dicembre del 1823 nella città natale  che gli intitola una via con la dicitura “Vincenzo Fabiani, capitano napoleonico”. 
    Prima  di continuare alla lettura della relazione di Vincenzo Cataldo, Gianni Aiello  ha ricordato anche le fonti che riguardano il territorio della provincia jonica  reggina nel contesto storico del decennio francese.
    Tra  esse oltre ai documenti d'archivio, vi sono quelle relative ai mezzi  d'informazione del periodo, come il Monitore Napoletano, la Gazzetta Britannica  o diverse pubblicazioni, tra le quali quelle di:
    -  Duret de Tavel, “Viaggio in Calabria ” ;
    -  “Primo moderno reportage sulla Calabria vista all’alba del 1800 da un   ufficiale napoleonico” ;
    -  L’occupazione francese della Calabria” di Lubin Griois;
    Ma  anche la testimonianza di un prigioniero britannico che descrive in modo  dettagliato sia la fascia jonica che quella tirrenica: si tratta del  tenente Philip James Elmhirst che dal 23  settembre 1809 al 16 aprile 1810 fu prigioniero di guerra da parte delle truppe  napoleoniche di stanza nel territorio meridionale.  
    Egli venne catturato, insieme al suo equipaggio, nei pressi di capo Stilo, dove  erano sbarcati per fornirsi di acqua.  
    Dalla cattura , al periodo della quarantena nei pressi di bianco, alla  dettagliata descrizione degli usi, costumi, personaggi, fatti, personaggi,  cronaca (atti di brigantaggio, scontri armati tra truppe francesi ed i loro  avversari, transito di navi nelle acque della provincia reggina), descrizione  architettonica delle abitazioni di quel periodo, il tipo di alimentazione la  coltura nelle campagne della provincia, quali quelle relative alle produzioni  dell’olio e del vino.  
    Ritornando  alla cronaca, Gianni Aiello ha raccontato del viaggio di Giuseppe Bonaparte nel  Distretto di Gerace: il 20 aprile 1806 parte dalla Città dello stretto per  dirigersi successivamente nella fascia jonica reggina, visitando i centri di Brancaleone  (20  aprile), Monasterace (22 aprile). 
    Il  25 aprile fu in quel di Mammola e durante il suo passaggio gli abitanti  indossavano sul capo delle corone di spine e si battevano il petto con pietre  rotonde: questo è un dato storico-antropologico importante, in quanto notizie  relative all’esistenza di confraternite dei “battentes” o “fustigantes” nella  provincia reggina se ne hanno soltanto qualche secolo prima. 
    Infatti ciò si può evincere dalla lettura de “La pietà popolare in Calabria” di  Maffeo Pretto che parla dell’esistenza presso la chiesa di S.Gregorio di Gerace,  ed anche di altre confraternite di battenti presso Roccella Jonica. 
    Il 28 aprile Giuseppe Bonaparte visitò Gerace ed ebbe un incontro con  l’arciprete della diocesi del periodo. 
    Gianni  Aiello prosegue con l'analisi della relazione sul Distretto di Gerace di  Vincenzo Cataldo: 
    La  vicenda rivoluzionaria, come ben noto, finì con il ritorno sul trono della  stirpe borbonica. Qualche anno dopo, mutato lo scacchiere geopolitico europeo,  quando il 14 febbraio 1806 entrarono a Napoli, i francesi immediatamente  cercarono di stendere un progetto per la formazione della Guardia Nazionale. E  vediamo perché.
    Un’anonima  relazione (ma non è difficile individuarne l’autore nel ministro Michelangelo  Cianciulli, noto come promulgatore, in veste di ministro di giustizia, delle  leggi eversive sulla feudalità), un’anonima relazione - dicevamo - sulla  situazione generale del Regno investe il nuovo re Giuseppe Bonaparte. Nel  documento si fa ampio riferimento alla nuova organizzazione della pubblica  amministrazione per rispondere alle esigenze di uno Stato moderno.
    Il  Regno di Napoli, inserito nello Stato federativo dell’Impero Francese, affermava  sostanzialmente il ministro, non avrebbe potuto temere, come prima, gli assalti  degli eserciti nemici, ma solo guardarsi dagli intrighi interni.
    Durante  le visite delle province compiute da Giuseppe Bonaparte, i villaggi più poveri,  invece di chiedere pane domandavano giustizia. Cianciulli si riferiva al  vecchio sistema giudiziario in cui ancora i feudatari avevano voce in capitolo.  Tre quarti del Regno erano soggette al regime feudale, commentava: i giudici  dei baroni avvolgevano i governi locali commettendo estorsioni; l’esecuzione  della giustizia era affidata a birri e bargelli degli stessi feudatari, «che da  loro - rilevava nella sua analisi - ne ricevono uno scarso salario, e che per  non perderlo divengono i satelliti de’ loro capricci e delle loro vendette». La  stessa natura criminosa veniva ravvisata negli uomini facinorosi presenti nelle  Regie Udienze.
    Dunque,  considerata la giustizia male amministrata il ministro constatava che, «chi per  offendere, chi per difendersi, quasi tutti vanno armati di bajonetta, di  stiletti, di pistole, e di fucili». Era quasi inevitabile il vedersi  moltiplicare gli omicidi, i furti, le rapine e le violenze d’ogni genere,  generatori di gravi fenomeni sociali.
    Cianciulli  non attribuiva la completa responsabilità al passato governo borbonico, il  quale per mancanza di validi consigli e di un’energica azione, non aveva potuto  conseguire gli opportuni risultati. In verità, i borboni avevano cercato di  abbattere quello che veniva definito dai francesi come il «Mostro feudale»,  concedendo senza giurisdizione i feudi devoluti ed obbligando i governatori ed  i birri baronali a non poter esercitare l’ufficio senza l’approvazione delle  Regie Udienze. Rimedi lenti, dall’una parte, e pochi efficaci dall’altra.  D’altronde il rallentamento della giustizia non si riduceva nelle soli corti  baronali, ma era radicato nelle Regie Udienze e in tutti i Tribunali di Napoli  e delle Province.
    Punto  fondamentale per rimuovere gli ostacoli frapposti ad una più moderna  amministrazione della giustizia, rimaneva la questione della sicurezza. Assieme  alla truppa di linea che difendeva lo Stato dalle aggressioni straniere e alla  gendarmeria impiegata nella sicurezza delle strade e delle campagne, si poneva  come elemento indispensabile, secondo il ministro, l’istituzione della guardia  nazionale, in modo da rimpiazzare i birri e i bargelli dei baroni, nonché i  soldati dei tribunali e delle dogane. La guardia nazionale prestando un  servizio gratuito, immediato e locale era la sola capace ad assicurare, secondo  il progetto del relatore, la giustizia ed a prevenire nella massima parte i  delitti. Un corpo «rispettabile di Guerrieri», come veniva definito, in grado  di combattere per le loro famiglie e per il sovrano.

 
 


