
La  trattazione del nuovo appuntamento ha avuto come tema il dibattimento sul  Codice Civile Napoleonico che venne promulgato il 21 marzo 1804: 30 ventoso  dell’anno XII, secondo la denominazione data alle stagioni dal calendario  repubblicano francese.   
Nell'edizione  originale e ufficiale erano raccolte le 36 leggi che regolamentavano le  istituzioni del diritto civile francese. 
Questo  codice riconosceva l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i diritti  civili (di stampa, di coscienza, di lavoro) e il diritto alla proprietà, il  Code Napoléon fu un'opera originale e al tempo stesso di  transizione, al  quale fecero seguito quattro nuovi codici che  furono:  
Il Codice  civile francese del 1804, ancor oggi in vigore in Francia, pur con molte  modifiche, impostato sui principi di uguaglianza e libertà dell’individuo,  influenzò la codificazione successiva in Europa ed anche in Sudamerica.
    Nel corso dell'incontro è stato evidenziato  attraverso una breve introduzione di come si arrivò all’emanazione della nuova  legislazione nel 1804. 
    Infatti,  l’innovazione essenziale della costituzione dell’anno VIII,  promulgata il 13 dicembre 1799 (siamo nel  Consolato), consiste nella restaurazione del potere esecutivo  e nell’abbandono del principio dell’elezione,  che le costituzioni repubblicane avevano introdotto persino  nell’amministrazione della giustizia. 
    Gli  stessi principi furono estesi da Napoleone alla vasta riforma amministrativa  che egli intraprese. 
    Dovunque  gli “eletti” furono sostituiti con dei funzionari. 
    I  dipartimenti furono amministrati dai Prefetti, le città più importanti dai  sindaci, nominati dal primo Console, mentre i prefetti nominavano i sindaci dei  piccoli Comuni. 
    In  materia giudiziaria, ricomparvero i vecchi parlamenti sotto forma di Corti  d’Appello; i loro membri, così come i giudici dei tribunali di prima istanza e  dei tribunali penali cessarono di essere eletti per essere nominati anch’essi  dal primo Console. 
    In  materia   finanziaria Napoleone Bonaparte distinse accuratamente tra  amministrazione del tesoro e delle imposte e politica monetaria con la  creazione della Banca di Francia.   
    Le 36  leggi che costituivano il codice civile furono votate nel 1804, proprio nel  momento del passaggio dal Consolato all’Impero, che iniziava ufficialmente con  l’incoronazione di Napoleone avvenuta il 2 dicembre dello stesso anno. 
    Il Codice  Civile fu l’opera che più profondamente impresse, su tutta l’Europa  occidentale, l’influenza francese.
    Gianni  Aiello nel corso del suo breve  ma  coinciso intervento ha sottolineato l’importanza del periodo storico, non solo  per il territorio ma anche per l’intero Mezzogiorno e nel contempo ha citato  due storici quali Umberto Caldora “.…il governo dei napoleonici è soprattutto  significante per aver decisamente districato il Mezzogiorno agli sviluppi  anacronistici e nocivi di un medioevo ormai scaduto per aver incamminato in  modo efficace verso forme di esperienze più moderne, introduttive anche a  quella evoluzione liberale e democratica in  precedenza intrapresa da altre regioni d’Italia.… “  e   David Winspeare  “… il regno del  capriccio e dell’oppressione” , vedi i pesanti gravami feudali cui si era  soggetti (la morte: si pagavano 2 carlini per ogni vedova ed ogni sacerdote;  possesso di animali: e per il non possesso; fiere; piccolo commercio; le  stalle; la pesca; le feste): questi alcuni dei “gravami” più irragionevoli ed  umilianti ...”.   
    Gianni Aiello ha concluso sul significato del  “5 maggio”, che: «… sicuramente non per esaltare l’ode di manzoniana memoria,  forse  quella è una sorta di  autopurificazione della coscienza del suo autore, ma ricordare un meridionale,  per poco non italiano  e che la polvere  ed il fango di Mont S.Jean (volgarmente passata ai posteri come “Waterloo”) non  fu una sconfitta, anzi le idee rivoluzionarie, di cui Lui era il portatore,  continuarono per molto tempo ad incendiare gli animi non solo europei» . 
    L’avvocato  Carlo Baccellieri del Foro di Reggio Calabria ha relazionato su "Lo stato  delle leggi nel Regno delle Due Sicilie prima di Napoleone e la colonia di San  Leucio", effettuando un breve excursus storico del periodo in questione. 
    Nel 1734  era in corso in Europa la guerra di successione polacca, e sul territorio  italiano si battevano gli eserciti spagnoli e francesi, da una parte, e  austriaci dall’altra. Carlo di Borbone, figlio del re di Spagna Filippo V e di  Elisabetta Farnese, che tre anni prima aveva preso possesso del ducato di Parma  e Piacenza, fu posto alla testa, ancora diciottenne, di un’armata spagnola e  mosse da Parma alla conquista dell’Italia meridionale che costituiva un  vicereame sotto il dominio austriaco ed il 10 maggio entrava trionfalmente a  Napoli. 
    Gli  austriaci si ritirarono nelle Puglie ma vennero inseguiti e sconfitti nella  battaglia di Bitonto. 
    Dopo  sedici anni di dipendenza austriaca venivano riunite le sorti della Sicilia a  quelle continentali dell’Italia meridionale. 
    Il nuovo  monarca introdusse nel Regno segni della cultura spagnola, come le corride che  si svolsero per tutto il ‘700 e parte dell’800 e costituì il Regno di Napoli e  di Sicilia con capitale Napoli ed a Palermo venne riaperto il Palazzo Reale. 
    Gli inizi  del Regno furono travagliati poiché nel 1740 era sopravvenuta la guerra di  successione austriaca, nella quale era rimasto coinvolto anche questo nuovo  Regno di Napoli che con un proprio esercito si era vittoriosamente battuto,  insieme ad un esercito spagnolo a Velletri, sempre contro gli Austriaci. 
    Particolarmente  rilevante si presentava il problema della giurisdizione centrale, cui si  opponeva quella praticata dai baroni: mancavano codici, le sentenze non erano  motivate, le leggi scritte e consuetudinarie cui bisognava fare riferimento  erano disorganiche, le procedure erano farraginose, il ceto forense era chiuso,  settario ed anche corrotto. 
    Nel Regno  di Napoli, anche a causa del susseguirsi delle varie dominazioni, esisteva  all’epoca una enorme confusione nel campo delle leggi come l’antica  legislazione romana, il codice lombardo, il codice normanno, le costituzioni  della casa di Svevia, le leggi Angioine, queste alcune delle leggi che ancora  trovavano applicazione nel Regno, oltre alle   leggi che emanava il sovrano, quindi in questo  guazzabuglio era difficile orientarsi ed  ancora più difficile ottenere giustizia. 
    Di questa  situazione sia avvaleva la categoria dei “paglietta” cioè degli avvocati che,  specialmente a Napoli, erano numerosissimi, circa 4000, la cui opera era  indispensabile a chiunque avesse qualcosa da difendere per  potersi orientare nel caos delle leggi. 
    Ecco come  lo storico Pietro Colletta li definiva: “Sono i curiali timidi ne’  pericoli,vili nelle sventure, plaudenti ad ogni potere, fiduciosi delle astuzie  del proprio ingegno, usati a difendere le opinioni più assurde,  fortunati nelle discordie”. 
    Altri  problemi che insistevano sul Regno erano quelli delle limitazioni del potere  statale poste dalla Chiesa  di Roma,,  dei  baroni che continuavano a mantenere  una forte influenza sul potere politico.  
    La  monarchia instauratosi a Napoli con Carlo di Borbone ebbe il merito di non  ricalcare le caratteristiche delle vecchie monarchie del così detto Ancien  Regime, ma di tendere a un graduale adeguatamente della istituzione nella  direzione  della concezione del potere  inteso come assolutismo illuminato.    
    Per  quanto riguarda la struttura amministrativa del Regno esisteva un governo  composto da ministri (detti anche segretari) nominati dal Re.  
    Sussisteva  un nuovo Consiglio di Stato (diverso da quello esistente nel periodo del  vicereame), con funzioni consultive al cui vaglio passavano le più importanti  decisioni da adottare e che rappresentava una sorta di Consiglio dei Ministri. 
    Un altro  Consiglio di Stato riguardava gli affari della Sicilia. 
    E a  proposito dell’organizzazione interna va ricordata la riforma dei servizi  dell’amministrazione centrale, che fu effettuata con una drastica riduzione del  personale sovrabbondante, il che snellì e rese più funzionali gli uffici. 
    Non vi  furono invece cambiamenti di rilievo nelle istituzioni periferiche e in quelle  municipali napoletane: rimasero infatti immutate per la città di Napoli le  funzioni dei Seggi, degli Eletti, delle deputazioni. 
    Fuori  della capitale esistevano le Province. 
    Per fare  un esempio la Calabria era divisa in Citeriore ed Ulteriore, poi divisa in  Ulteriore Ia e IIa .
    La  Provincia era retta da un Preside nominato direttamente dal Sovrano che lo  sceglieva fra la nobiltà o la casta degli alti ufficiali dell’esercito purché  di nobile casato. 
    Il  Preside accentrava nelle sue mani tutti i poteri, che esercitava in luogo del  Re e in maniera assoluta, amministrando anche la giustizia direttamente o a  mezzo di magistrati e uditori da lui nominati.  
    Esistevano  poi le Università (cioè i Comuni) controllati da un Governatore.  
    L’amministrazione  era gestita dal “Sindaco” e da alcune persone elette dai cittadini convocati  con l’assenso del Governatore in “pubblico parlamento”(l’organismo era formato  da tutti i capi famiglia incensurati). 
    A  elezioni avvenute il barone esercitava lo “ius confirmandi” e di solito  l’organo eletto diveniva strumento degli arbitri feudali.  
    In alcuni  casi invece dello”ius confirmandi” esisteva addirittura lo “ius  erigendi” che prevedeva la facoltà di scelta da parte del barone, senza  possibilità di interferenze da pare del Comune 
    Accanto a  queste organizzazioni esistevano le “Libere università”, cioè   Comuni “non infeudati” o che avevano potuto  riscattare con laute somme di denaro la propria infeudazione liberandosi dalle  angherie dei baroni. 
    Comunque  il rapporto con il feudatario e il grado di libertà conseguito da ciascun  Comune variavano caso per caso, in base alle contrattazioni che si erano  svolte, e non erano sottoposte a regole generali. 
    E’  evidente quindi che, anche se la nuova monarchia era aperta alle tendenze  illuministiche, all’interno del territorio del Regno permanevano ancora in modo  assai vistoso mentalità e situazioni di tipo feudale che opponevano forte  resistenza ad ogni tentativo di riforma. 
    Particolarmente  potenti erano i baroni di Sicilia che avevano sempre goduto di una maggiore  autonomia. 
    Pertanto  i poteri forti, che secondo gli intellettuali dell’epoca, rappresentavano un  freno allo sviluppo del Regno, erano la Chiesa d il sistema feudale. 
    La chiesa  possedeva una buona parte delle proprietà terriere sulle quali lo Stato non  poteva imporre tributi. Inoltre queste proprietà erano di fatto sottratte a  qualunque  trasferimento. 
    Conventi,  chiese, cappelle ed ogni altro luogo i culto, godevano del diritto di asilo  che, in molti casi, si trasformava in   una sorta di immunità per i malviventi.  
    Enorme  era poi il numero dei preti e degli alti prelati. 
    A questa  situazione Carlo riuscì, in qualche modo, a porre rimedio mediante il  concordato del 741 mediante il quale si stabilì una riduzione del diritto di  asilo, una limitazione delle giurisdizioni ecclesiastiche, una tassazione, sia  pure ordinazioni, la necessità dell’assenso regale alle bolle del Papa. 
    Nel  complesso l’attività del sovrano fu apprezzata in più occasioni, che li  procurarono il consenso popolare,  come  dimostra il mesto commiato che accompagnò la sua partenza da Napoli, quando,  chiamato a cingere la corona di Spagna, dove assunse il titolo di Carlo III,  lasciò nel 1759 il Regno al giovanissimo figlio Ferdinando I o IV, di nove anni. 
    L’opera  riformatrice di Carlo fu continuata da Ferdinando IV che, salito al trono il 6  ottobre 1759, governò sotto la tutela del Principe di S.Nicandro e di fatto  tramite il Ministro Tanucci, membro del Consiglio di reggenza, il quale non  mancava di far notare al Re che la maggiore remora ad ogni progetto di  rinnovamento era costituito dalla giurisdizione dei baroni. 
    Egli  attuò una politica anti-ecclesiastica culminata con la  cacciata dei gesuiti nel 1767, con  l’incameramento dei loro beni e con l’abolizione delle regalie della Chiesa al  Papato di Roma, ma non raggiunse lo scopo di abbattere i più radicati centri di  potere poiché riuscì solo ad intaccare le prerogative e i privilegi dei baroni,  che erano una delle cause della cronica debolezza del Mezzogiorno e l’attività  riformatrice rallentò, specie dopo il   licenziamento del Tanucci nel 1776 per iniziativa della fazione  asburgica ormai prevalente su quella spagnola. 
    Il  relatore conclude il suo interessante intervento tratteggiando gli aspetti  relativi alla  creazione della Real  Colonia di San Leucio, 
    Il  progetto venne attuato tra il 1773 ed il 1787 e nel 1789 San Leucio venne  dichiarata  ufficialmente Real Colonia e  dotata di un codice di leggi ispirato al programma di rinnovamento  sociale di stampo illuministico redatto nel  1769 da Bernardo Tanucci, allora Ministro del Regno. 
    Accanto  alle maestranze locali, vennero impiegati a San Leucio artigiani francesi  (soprattutto di  Lione, genovesi,  piemontesi e  messinesi. 
    Interessante  è l’elencazione che Giovanni Tescione fa nella sua monografia “L’arte della  seta a Napoli e la Colonia di San Leucio”. 
    In questa  colonia, per la quale venne emanato un codice che doveva governare gli  abitanti, Ferdinando volle creare uno stato ideale secondo uno schema che i più  considerano paternalistico, ma che non mancava di elementi di democrazia, anche  se la stessa venne definita come l’utopia di una società perfetta, mente altri  videro una società di tipo socialista, altri un capriccio di Ferdinando. 
    Forse  nessuna di queste valutazioni è rispondente all’effettiva portata  dell’esperimento di San Leucio. 
    Evidentemente  Ferdinando volle provare in un ambito ristretto ciò che gli esponenti  dell’illuminismo, primo fra tutti Gaetano Filangieri, andavano predicando, e  tale figura, quella del Filangieri, viene   trattata anche nella successiva relazione. Luciano Giovene di Girasole  del Foro di Napoli su "La diffusione del codice napoleonico e il suo  influsso sul codice per lo Regno delle Due Sicilie" e non mancando di  tratteggiare altri aspetti storici come quelli risalenti al periodo di Filippo  Augusto quando esisteva in Francia uno Stato che affermava la sua vocazione  unitaria nella lotta contro i poteri soprannazionali, contro i feudatari e gli  enti locali; in questo Stato,pertanto, gli organi centrali desideravano  aumentare i propri poteri.
    Lo  stimolo all’unificazione del Diritto era il senso dell’unità di Stato, tanto  che già dal secolo XVII vennero redatte norme uniformi in tema di procedura e  possesso così come nel 1731 furono adottate norme uniformi in materia di  donazioni. 
    Ma il  dualismo del potere che opponeva il Re ai Parlamentari, il dualismo giuridico  che opponeva  il droit ècrit (romanistico) del Sud al droit contumier (germanico) del Nord  e le numerose specificità del diritto feudale  erano di ostacolo all’unificazione. 
    La spinta  a codificare venne dalle istanze   razionalistiche; la Rivoluzione  e  gli eventi politici che ne seguirono rimossero gli ostacoli. 
    Infatti, la Rivoluzione consentì la creazione  di organi dotati dei poteri giuridici necessari per codificare, e dell’autorità  politica occorrente per superare gli ostacoli alla codificazione. Il potere  rivoluzionario di per sé non avrebbe potuto redigere un codice civile di più di  2000 articoli coerenti e ben formulati.
    Ma  Donello, Argou, Domat, Pothier, avevano ideato e raffinato un insieme di  definizioni e regole che dovevano offrire gli spunti per il legislatore. 
    Quindi le  condizioni favorevoli permisero di procedere con celerità alla redazione  del  codice; questo promulgato nel 1804  entrò in vigore nel 1806, e, il suo nome, prima Code Civil fu più tardi  sostituito dall’altro Code  Napoleon ed è  storicamente il primo dei codici civili che da allora è stato adottato al mondo. 
    Tali  imput rappresentarono anche in Italia un risveglio degli studi filosofici e del  diritto, infatti dopo la Scienza nuova di Gianbattista Vico (1725) che, aveva  tracciato la storia ideale dell’umanità, l’Italia era alla testa della  giurisprudenza europea; infatti, ricordiamo che si deve a Giovanbattista Vico  ed al suo genio di istruzione del cogito ergo sum di Cartesio nonché  l’individuazione di alcuni principi che trasferiti nella prassi  giurisprudenziale napoletana vennero approvati e conservati dapprima nel 1806  dai francesi a  Napoli  all’atto dell’ingresso della giurisdizione  francese e poi nel 1812 in  Sicilia con la riforma dell’ordinamento giudiziario che entrò in vigore nel  1819 con Re Ferdinando di Borbone il quale conservò anche la Suprema Corte di  Cassazione di Palermo. 
    Successivamente  tutti i codici civili promulgati dal 1834 al 1865 si ispirarono al modello  francese sul quale già si era fondato quello napoletano che aveva riunito  all’empirismo ed al razionalismo la filosofia storica napoletana dei vari Vico,  Pagano, Gaetano Filangieri che con la sua opera, la Scienza della Legislazione  si evince il modo ed il metodo atto a migliorare la società attraverso quei  sistemi legislativi risalenti al mondo greco ed a quello romano. 
    Tale  opera, esportata nei maggiori paesi europei,   ebbe il merito di ricevere diversi riconoscimenti ed apprezzamenti tra  cui quelli  di diverse personalità del  periodo come Beniamino Franklin, di Goethe e dello stesso Imperatore Napoleone  Bonaparte. 
    Il Codice  per lo Regno delle Due Sicilie venne promulgato a Napoli nel 1819, ed è un  rifacimento del Codice Napoleonico del 1806 e documenta la sovrapposizione di  due aspetti processuali diversi, uno facente capo alla tradizione illuministica  del processo, l’altro legato al cosiddetto Ordo Judicarum fondato sui canoni  della vecchia procedura medievale che erano stati privati dell’etica e quindi  sottratti al potere politico che in qualche modo avrebbe potuto condizionarlo. 
    Nel  Codice per lo Regno delle Due Sicilie vi erano, tuttavia, alcune differenze  nella pratica come ad esempio quella della eliminazione del tentativo  obbligatorio di conciliazione nel  Codice  Napoleonico ove anche le sentenze emesse dalla Suprema Corte di Cassazione non  vincolavano il giudice di rinvio ma, e qui l’aspetto politico prevale, a Sezioni  Unite interveniva anche il Ministro e, qualche volta il Re il cui parere,  ovviamente, era vincolante. 
    Le Code  Civil, considera i diritti del cittadino come preesistenti alla legge, la quale  ha lo scopo di riconoscerli.
    Infatti,  compito del giudice è dichiarare se il diritto del privato esiste o meno; il  potere discrezionale del giudice e la funzione costitutiva della sentenza sono  ridotte, la volontaria giurisdizione è poco sviluppata (il tutore ad esempio  non è di nomina giudiziaria) . 
    Nel Code  Civil anche la dottrina dei vari diritti soggettivi è poco sviluppata, salvo la  teoria dei diritti reali di origine romana. 
    I singoli  diritti soggettivi non codificati verranno nella prassi a delinearsi attraverso  la responsabilità civile. 
    La  titolarità del diritto tende ad essere esclusiva ed a essere incompatibile con  gli atti di disposizione del non dominus (tuttavia vale la regola possession  vaut titre). 
    La teoria  della formazione del contratto è allo stato embrionale. 
    L‘autonomia  contrattuale è, invece, quasi totale. Il formalismo è quasi sconosciuto, anche  s prende le sue rivincite nel capo dei mezzi di prova. 
    Manca una  parte generale del diritto civile. 
    Le  persone giuridiche non sono regolate, i   rapporti giuridici, le loro variazioni, le fattispecie in genere,  mancano di un regolamento generale espresso. 
    Manca una  dottrina generale del negozio come atto giuridico. 
    Le Code  Civil è in sostanza un codice romanistica storicamente legato ai punti d’arrivo  della scienza giuridica francese esercitatasi sul diritto romano ad eccezione  degli spazi lasciati al diritto consuetudinario (ad esempio la regola possesso  vale titolo), e alle idee giusnaturalistiche, spesso affermatesi nell’alveo  dell’area romanistica. 
    Il  relatore ha concluso l'interessante   intervento parlando della continuità del modello giuridico francese  attraverso la presenza di ripetitori, ossia di codici a modello francese,  riadattati per speciali bisogni e capaci di suscitare consensi ed imitazioni,  come  il codice civile egiziano del 1949,  che ha avuto sei imitazioni, 
    Raffaello  Cecchetti di Brugnolo dell'Università di Pisa su "Il codice napoleonico a  duecento  anni dalla sua emanazione"  che nel corso della sua relazione ha evidenziato l'importanza di tale  emanazione che è stata esempio per altri modelli giuridici. 
    Ha  concluso la giornata di studi la Contessa Zenaide Giunta, discente della  Famiglia Bonaparte, discende da Giuseppe Bonaparte (Re di Napoli, Re di Spagna  e delle Indie) e da Luciano Bonaparte (Principe di Canino e di Musignano), entrambi  fratelli dell’ Imperatore Napoleone I. 
    La  Contessa Zenaide Giunta  ha manifestato  la sua approvazione verso questi tipi incontri atta a fare memoria storica. 
    La  Contessa Zenaide Giunta alla fine del suo intervento è stata omaggiata oltre  che di una arga ricordo anche di una statuetta stilizzata in acciaio  raffigurante l'Imperatore Napoleone Bonaparte, autore il Maestro Antonio Pepe  che ha consegnato personalmente l'opera al gradito ospite che è stata omaggiata  anche di una targa ricordo offerta dal sodalizio organizzatore.









 
 
