[I paesi dell'Est Europa, quelli che prima dell'89 venivano definiti del «socialismo reale» - parliamo in particolare di Ungheria, Repubblica Ceca (già in parte, ex Cecoslovacchia) e Romania - sono tornati prepotentemente in scena nell'attuale crisi del modello di Unione europea fin qui realizzato dalle leadership dei paesi occidentali...].
Prendendo spunto da quanto sopra riportato in apertura, estrapolato da un articolo apparso su "il manifesto" in data 14 marzo 2012 a firma di Tommaso Di Francesco ed avente come titolo "L'Est dopo il 1989, delusioni e risvegli",  si è dato seguito ad una manifestazione storico-culturale che si svolta presso la sala convegni dell'Archivio di Stato di Reggio Calabria.
La giornata di studi avente come tema "1919-1989 - Nascita e rinascita della nuova Europa" è stata organizzata dal Circolo Culturale "L'Agorà" e dal laboratorio di ricerca, operante all'interno del sodalizio reggino, denominato Centro studi italo-ungherese "Árpàd" in collaborazione con l'Archivio di Stato di Reggio Calabria.
All'incontro ha partecipato, in qualità di autorevole relatore, il prof. Francesco Leoncini, docente alla Università Cà Foscari di Venezia.
Il docente universitario è autore e curatore di diversi saggi relativi alla storia contemporanea dell'Europa centrale ed orientale: dalle questioni delle minoranze nazionali e della geopolitica ai movimenti di opposizione nelle aree gravitanti nell'ex blocco sovietico.
Tra l'altro le pubblicazioni sono state oggetto di discussione della giornata di studi e gli abstract delle stesse sono indicate nella sezione "NOTE" di questo resoconto.
Il prof. Francesco Leoncini ha tradotto dal ceco per le Edizioni Studio Tesi l’opera programmatica di Tomáš Garrigue Masaryk, padre dello stato cecoslovacco che prende il titolo de La Nuova Europa. Il punto di vista slavo, curandone la prima edizione critica. Suoi contributi sono apparsi in tedesco (tra i quali Die Sudetenfrage in der europäischen Politik, Essen, Hobbing, 1988), in ungherese, slovacco, ceco, inglese, francese, russo.
È membro onorario della Masarykova Společnost [Società Masaryk] di Praga e Presidente del Centro di Documentazione Storica sulla Grande Guerra di San Polo di Piave.
Il tema affrontato quindi rientra nella sfera storico-culturale del novecento alla quale il Circolo Culturale "L'Agorà" di Reggio Calabria dà appropriato spazio nel proprio palinsesto organizzativo, come si può evincere nell'apposita pagina del sito internet del sodalizio reggino; e quanto sopra detto viene pubblicato su apposita pagina del portale web, dove è ubicato un apposito spazio, digitando proprio la parola Novecento, luogo di incontro di micro e macro storie gravitanti in tale sfera cronologica.
Ritornando alla manifestazione, piace evidenziare che la stessa è risultata un incontro di alto livello sia per la prestigiosa presenza che per l'arco di tempo storico trattato che rientra nella sfera cronologica dei grandi cambiamenti e/o sconvolgimenti sia istituzionali che culturali.
A tal proposito Gianni Aiello, presidente del Circolo Culturale "L'Agorà", inizia il suo intervento prendendo spunto da due saggi di notevole impatto quali «Il Secolo breve 1914-1991. L’era dei grandi cataclismi.» di Eric J. Hobsbawm ed "Il secolo delle idee assassine" di Robert Conquest.
Il novecento, definito come “secolo breve”  da Hobsbawm, rappresenta un periodo significativo dove si susseguono diversi "cambi" inseriti  fra lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 ed il crollo dell’URSS del 1991. 
Con la prima guerra mondiale crolla la società dell’Ottocento e si forma un mondo che tramonterà solo alla fine degli anni Ottanta . 
Quindi, come si diceva in apertura grandi cambiamenti con relativi sconvolgimenti, ovvero catastrofi causate da idee che pretendevano di risolvere ogni problema ma che per le conseguenze delle stesse andavano a sfociare nel delta del "delirio ideologico" che è stato causa del massacro di milioni di vite umane.
Due temi quello del "secolo breve" e quello del "secolo delle idee assassine" che danno una lettura di ciò che avvenne nel vecchio continente europeo con delle indagini che fotografano la dinamicità di idea, uomini, movimenti, partiti e Stati.
La lettura di Robert Conquest si indirizza anche all'Unione europea che a suo avviso rappresenta un malinteso economico, culturale e geografico destinato a dividere il vecchio Continente.
A tal proposito Gianni Aiello legge ai presenti un passaggio estrapolato dalla pubblicazione in argomento (pagina 298) dove "I difetti dell'Ue possono essere ricondotti a una questione di principi generali: l'Unione non tiene conto di una tradizione più profonda, divide l'Occidente e basa il proprio campo d'azione su un'angusta (e ai tempi nostri obsoleta) concezione geografica.
Ma anche se sul piano teorico l'Ue fosse stata ineccepibile, nulla ci impedirebbe di ritenere che i suoi vizi organizzativi avrebbero dovuto costituire oggetto d'esame in ogni dibattito della causa internazionalista.
Per certi versi il tutto si riduce a uno sconsiderato e avventato tentativo di imporre ai nuovi Stati membri un taglio burocratico a loro estraneo (e legittimamente estraneo). Ancora una volta ciò significa che nel cuore stesso dell'organizzazione dell'Ue e non si sa, o non si vuole, tenere conto delle più profonde tradizioni e vocazioni civiche, della psicologia culturale dei diversi Stati. [...]".
E quanto fino al momento esposto - continua Gianni Aiello - rappresenta un "ponte ideale" con il sopra menzionato articolo apparso su "il manifesto" dove tra delusioni e risvegli che si verificano nei sopra indicati paesi, ma anche in Polonia, Slovacchia e Bulgaria, sono indice di questo malessere che interessa i due ex-blocchi.
[É una sequenza di avvenimenti che illumina la nuova crisi europea in alcuni paesi - ma il discorso varrebbe per la stessa Germania con l'annessione a tappe forzate del «suo» est, per la Polonia, la Slovacchia e perfino la Bulgaria che furono il fulcro delle svolte democratiche del 1989 e ora sono a tutti gli effetti membri dell'Unione europea. E sorgono spontanee alcune domande: cosa è accaduto nell'Europa orientale in questi ultimi anni? Quei movimenti dell'89, quelle idealità democratiche e quella società civile in formazione che pretese e ottenne il cambiamento che fine hanno fatto? É possibile che quella positività torni come specchio dei fallimenti del presente neoliberista, tanto da poter essere riutilizzata nel vuoto di prospettiva di un'Unione europea che sembra aver ereditato la sua legittimità solo dal crollo del «socialismo reale e che si è ridotta alla sua misura monetaria e alla doppia, feroce velocità dei forti contro i deboli?...]
Gianni Aiello passa poi alla lettura di un breve passo del saggio di Robert Conquest (pagina 302) che recita così: “L'Unione europea, come abbiamo detto, è in gran parte un prodotto forzato. Guardata dal punto di vista globale, essa serve un interesse particolare (o un insieme di interessi particolari) di enormi proporzioni, costituendo un blocco che ostacola lo sviluppo di un libero mercato mondiale. Inoltre si è rilevata incapace di concertare una politica estera comune con il resto del mondo democratico, o anche solo di svilupparla in seno ai suoi organi. L'«idealismo» di chi sostiene l'Europa unita ha i difetti di ogni idealismo: l'eccessivo attaccamento a un obiettivo, l'indifferenza alla legittima opinione del pubblico, la tacita mistificazione di determinati interventi. In realtà un'ideologia sopranazionale, anche se in questo caso non universale, non può sostituire un approccio pragmatico graduale ed equilibrato.
E quanto fino al momento esposto rappresenta un "ponte ideale" con il sopra menzionato articolo apparso su "il manifesto" dove le delusioni ed i risvegli che si verificano nei sopra indicati paesi, ma anche in Polonia, Slovacchia e Bulgaria, sono indice di questo malessere che interessa i due ex-blocchi. [É una sequenza di avvenimenti – continua De Tommasi nell'articolo - che illumina la nuova crisi europea in alcuni paesi - ma il discorso varrebbe per la stessa Germania con l'annessione a tappe forzate del «suo» est, per la Polonia, la Slovacchia e perfino la Bulgaria che furono il fulcro delle svolte democratiche del 1989 e ora sono a tutti gli effetti membri dell'Unione europea. E sorgono spontanee alcune domande: cosa è accaduto nell'Europa orientale in questi ultimi anni? Quei movimenti dell'89, quelle idealità democratiche e quella società civile in formazione che pretese e ottenne il cambiamento che fine hanno fatto? É possibile che quella positività torni come specchio dei fallimenti del presente neoliberista, tanto da poter essere riutilizzata nel vuoto di prospettiva di un'Unione europea che sembra aver ereditato la sua legittimità solo dal crollo del «socialismo reale e che si è ridotta alla sua misura monetaria e alla doppia, feroce velocità dei forti contro i deboli?...]   Da queste cifre ricavate sia dalle importanti pubblicazioni de "Il secolo breve" e "Il secolo delle idee assassine" che dall'indagine giornalistica de "il manifesto" ci introduciamo - conclude Gianni Aiello - nella letteratura oggetto dell'odierna giornata di studi.
La parola passa al prof. Francesco Leoncini che ha relazionato sul tema "L'Europa neoliberista ovvero la
seconda sconfitta della Primavera di Praga" [1] 
L’Italia ha celebrato il 150° anniversario della sua unità - esordisce il docente universitario -  nazionale ma il momento politico, nel marzo 2011, ha visto all’interno stesso del suo governo un partito che dichiaratamente disprezzava e oltraggiava questa conquista e ne voleva in modo più o meno palese la sua archiviazione. L’evento è caduto anche in un contesto europeo e mondiale in cui sempre più vengono messi in discussione gli Stati nella loro attuale configurazione sia per motivi etnici sia per motivi economici e accade spesso che le due motivazioni si saldino.
Le esperienze dell’URSS, della Jugoslavia, della Cecoslovacchia stanno lì a dimostrare che gli Stati successori, a parte le tragedie che hanno accompagnato la loro formazione (tranne per cechi e slovacchi), non hanno realizzato per le loro popolazioni né vantaggi economici né maggiore rilevanza internazionale. Anzi essi sono caduti in nuove aree di influenza dominate dalle grandi potenze tradizionali, Stati Uniti, Germania, Francia, la stessa Russia, alle quali si è aggiunta, prepotentemente sul piano economico, la Cina.
Ancora  più grave appare il fatto che alla chiusura a riccio nei vari nazionalismi, regionalismi e localismi si accompagni in tutta Europa un’ondata sempre più vasta di razzismo, xenofobia, intolleranza [2].
Le ultime elezioni hanno visto anche in Svezia il partito di estrema destra superare la soglia di sbarramento ed entrare in parlamento, allineando in tal modo quel Paese, noto per il suo ordinamento avanzato in materia di protezione sociale e di diritto d’asilo, alla tendenza presente in gran parte della Vecchia e Nuova Europa, con le punte di oltre il 15% del partito di Geert Wilders in Olanda e di oltre il 16% dello Jobbik in Ungheria [3]. 
Né la Finlandia ha evitato alle elezioni dell’aprile dell’anno scorso il balzo in avanti dell’ultradestra dei “Veri finlandesi” e gli indipendentisti scozzesi hanno ottenuto il mese dopo la maggioranza assoluta al parlamento di Edimburgo.
In Repubblica Ceca e in Slovacchia Amnesty International denuncia la diffusa presenza di scuole e classi per soli bambini rom, che impartiscono un’istruzione di qualità inferiore ritenendoli scolari con disabilità mentali. Dove sarà finita l’eredità dell’umanesimo emancipatore di Tomáš Garrigue Masaryk? In Francia si è arrivati alla schedatura delle minoranze etniche non sedentarie (MENS) da parte dell’Office central de lutte contre la délinquance itinérante (OCDLI), una misura rivolta sostanzialmente nei confronti dei rom, creando così una categoria di europei di serie B e segnando un ritorno alle pratiche del governo di Vichy [4].
La strage di Oslo del 22 luglio 2011, motivata da contenuti non dissimili da quelli espressi dalla Lega Nord e da “Radio Padania”, conferma questo quadro assai allarmante.
Quei caratteri repressivi e polizieschi che si erano mostrati come tipici dei regimi di stampo sovietico sembrano essersi trasferiti all’intero Continente dopo la caduta del Muro di Berlino. A nulla vale il richiamo alla minaccia terroristica e allo spauracchio della criminalità, è lo stesso modello economico neoliberista che esige un inasprimento del controllo sociale, la riduzione dello stato a gendarme, la liquidazione della sua funzione di promozione dell’interesse pubblico e di controllo dell’economia, la frammentazione delle formazioni statali otto - novecentesche in modo che i nuovi spazi ridotti siano più omogenei e più funzionali alle esigenze del capitale. Di conseguenza vengono emarginate le aree meno produttive o quelle che appaiono del tutto parassitarie [5].
“No, lo stato non è solo uno strumento di dominio, afferma André Ballon [6].
E’ anche uno strumento di organizzazione delle solidarietà, di redistribuzione della ricchezza, di regolamentazione. E soprattutto deve essere costruito come espressione della sovranità popolare, della democrazia che riconosce il cittadino come elemento di base del corpo politico” [7].
“In realtà, incalza Zygmunt Bauman, lo smantellamento delle limitazioni e dei controlli politici (statali), anziché rendere la ‘società civile’ libera e davvero autonoma, la apre al dominio indisturbato delle forze del mercato, cui i membri di quella società, ormai abbandonati a se stessi, non possono resistere.” [8]
Da parte sua Ralf Dahrendorf concludeva le sue lezioni tenute tra il 2001 e il 2002 al Kulturwissenschaftliches Institut di Essen affermando che “lo Stato nazionale e la democrazia parlamentare di stampo classico rimangono la spina dorsale della costituzione della libertà. Spesso si parla con troppa leggerezza della fine dello Stato nazionale (…) le politiche decisive per le chances di vita dei singoli sono oggi come ieri politiche di Stati nazionali.” [9].
Che cos’è il neoliberismo? Si domandava Pierre Bourdieu già nel 1998: “un programma di distruzione delle strutture collettive capaci di contrapporsi alla logica del mercato puro” [10].
Non v’è dubbio che in questi ultimi anni il virus si sia saldamente insediato nei più reconditi angoli della Terra, mentre la Cina emerge come il modello vincente nella sua apparente granitica e indefettibile struttura oligarchica e repressiva perfettamente funzionale al sistema economico imperante. Lo sfruttamento intensivo della forza lavoro è ciò che più affascina i sedicenti imprenditori occidentali, che ormai hanno più affinità con il mondo dello schiavismo. “Tale economia mondiale, osserva Richard Rorty, sarà presto nelle mani di un’alta borghesia che non avrà più senso di comunanza con i lavoratori di quanto ne avessero i capitalisti americani del 1900 con gli immigrati assunti nelle loro imprese.” [11].
Se l’Europa dopo l’89 tende a spappolarsi, a rinverdire vecchie contese nazionalistiche, a dilaniarsi in contrasti sempre più acuti, si dà il caso invece che “dalla crisi finanziaria la Repubblica popolare cinese [sia] uscita rafforzata”, come scrive in una lunga corrispondenza da Pechino Matthias Nass  sul “Die Zeit” [12], il quale rileva come in quel Paese il denaro domini in maniera così rozza e brutale da non avere eguali in Occidente. Che non sia proprio il ridimensionamento dell’Occidente quello che vuole la classe dirigente cinese, si chiede il giornalista, mostrando il carattere egoistico e aggressivo della sua politica di penetrazione nei mercati e di accaparramento delle materi prime. “Essa ha una Realpolitik che confina con il cinismo” e nella parte economica dello stesso settimanale appaiono due ampi servizi che riferiscono sulle operazioni di acquisto da parte della Cina di aziende e infrastrutture in tutto il mondo, ora anche in Europa, soprattutto in Grecia, approfittando della sua crisi (e più di recente in Spagna), e della sua ben pianificata azione volta a procurarsi le necessarie risorse di energia e di materiali strategici utili per lo sviluppo futuro [13].
Certamente nell’articolo di Nass non vengono taciute le contraddizioni della società cinese, la sua totale assenza di libertà ( se ne è avuta una riprova nella reazione all’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2010 a Liu Xiaobo), le condizioni di lavoro che gridano vendetta, la serie di suicidi sempre più ampia che si registra nelle fabbriche dei distretti industriali del sud. Anche Giampaolo Visetti in una corrispondenza da Pechino su “la Repubblica” del 19 agosto 2010 traccia un quadro desolante della realtà sociale e ricorda che oltre alla piaga dei suicidi almeno 30 mila operai muoiono ogni anno logorati dal superlavoro, indicando poi delle cifre impressionanti di settori della popolazione colpiti da vari tipi di disagio [14].
Nonostante tutto questo nessuno si è sognato di boicottare le Olimpiadi di Pechino nel 2008 a causa della violazione dei diritti umani, come invece avvenne per quelle di Mosca del 1980.
Il fatto è che, come aveva affermato alcuni mesi prima sullo stesso quotidiano lo studioso olandese Ian Buruma, uno dei maggiori esperti dei rapporti con l’Oriente: ”L’ascesa della Cina ne fa un vero modello alternativo rispetto alle democrazie occidentali (…) e incoraggia tutti coloro che pensano che una nazione stia meglio se unisce l’economia di mercato e un governo coi muscoli” [15]. Anziché vedere il Paese asiatico avviarsi verso le libertà civili e i diritti sociali, si assiste alla progressiva messa in discussione e alla cancellazione delle conquiste ottenute  dalla Resistenza al nazifascismo e con decenni di lotte da parte delle classi lavoratrici  europee. “Ben lungi dal trionfare dopo la rivoluzione del 1989, ricorda da parte sua Dahrendorf, la democrazia è dovunque sottoposta a pressione. Se a tale pressione vogliamo dare un nome, possiamo parlare di una fondamentale tendenza all’autoritarismo” [16].
Del resto lo svuotamento dei regimi democratici parlamentari è evidente e questa situazione si trasferisce anche in tutte quelle piccole patrie che si sono costituite in Europa dopo l’89 e si trasferirà anche in quei nuovi segmenti statuali la cui creazione è negli obiettivi dei vari gruppi e partiti secessionisti. Ormai non si può che parlare di “democrazie senza democrazia” come efficacemente ha intitolato Massimo L. Salvadori il suo recente volume constatando che “al cittadino non è rimasto altro ruolo, nel ‘mercato della politica’, se non di assistere passivamente ad un dibattito politico a lui del tutto estraneo e di ‘comprare o non comprare’ al momento del voto l’offerta che gli viene proposta dai partiti, mentre i rappresentanti, una volta eletti in parlamento, non sono in grado di esercitare un potere efficace nei confronti delle oligarchie che guidano l’economia globalizzata, avendo queste largamente ‘espropriato’ Stati, governi e parlamenti di loro essenziali poteri, in primo luogo sulle decisioni economiche.” [17].
Si potrebbe dire che gli oligarchi non sono solo in Russia!
In questi ultimi venti anni le diseguaglianze sociali, la repressione poliziesca e militare [18], la violenza del denaro sulla politica, la precarizzazione del lavoro e l’incertezza della vita quotidiana e del futuro si sono enormemente accresciute. Più della metà dei francesi interrogati risponde agli intervistatori che teme di trovarsi un giorno senza fissa dimora e le grandi mobilitazioni che si sono avute in Francia contro l’innalzamento dell’età pensionabile stanno a dimostrare il netto rifiuto di un’attività lavorativa sempre più logorante e ipercompetitiva. Allo slogan del ’68 che contestava il ritmo di vita  del tipo “métro, boulot, dodo” (metrò, lavoro, nanna), i manifestanti dell’autunno 2010 hanno sostituito quello di “métro, boulot, tombeau” (metrò, lavoro, morte) [19].
Il lavoro da strumento di liberazione e di emancipazione sta assumendo il carattere di una corvè, mentre d’altra parte la Süddeutsche Zeitung ci informa che in Germania già gli adolescenti soffrono di angoscia per il futuro e i giovani dai 14 ai 25 anni risparmiano il doppio della media degli adulti, questo senso di incertezza aumenta di anno in anno. “Ho la sensazione, confessa una giovane con doppia specializzazione, di aver corso con tutte le mie forze una maratona e di non avere raggiunto nulla una volta arrivata al traguardo” [20].
Se democrazia è quell’ordinamento che organizza la convivenza umana sulla base non solo dei diritti civili e politici ma anche sul riconoscimento dei bisogni materiali comuni a tutti, allora dovremmo sicuramente dedurre che il socialismo è la sostanza stessa di questo sistema e riconoscere che ora siamo di fronte al completo stravolgimento di questo progetto di società.
“Sono lieto che [Lei] mi definisca un socialista, risponde Bauman alla sua interlocutrice, lo sono veramente, o almeno lo spero. A mio avviso, il nostro mondo ha bisogno più che mai di socialisti, e tale esigenza è diventata molto più vitale e impellente dopo la caduta del Muro di Berlino. (…) Sono liberale oltre che socialista. Credo che il programma socialista e quello liberale siano più complementari che alternativi. La sicurezza dei mezzi di sussistenza, la conditio sine qua non del diritto umano di provare a realizzare pienamente il proprio potenziale, e la libertà, la capacità di agire in base a quel diritto, sono due valori che non possono continuare a essere barattati senza che venga risolto una volta per tutte il problema della dignità umana (anche se vengono continuamente barattati, trasformando la dignità umana in un ideale anziché in una realtà effettiva, in un obiettivo sempre ancora da raggiungere; in questo modo la dignità umana è destinata a restare per sempre in statu nascendi ).” [21].
Norberto Bobbio ci insegna che non esiste una “terza via”. Rifacendosi a un dibattito degli anni ’70, quando il partito comunista italiano propugnava una terza via, egli, in articolo di replica a Galli della Loggia che l’aveva accusato di “irresponsabilità” (a proposito del suo rapporto con il marxismo e il comunismo), ricorda di aver sostenuto fin da allora che “di vie ce ne sono soltanto due, la democrazia e la dittatura” [22].
In un suo scritto inedito pubblicato qualche anno dopo su “La Stampa” il filosofo della politica precisa, riferendosi a Carlo Rosselli [Socialismo liberale]: “Il rapporto tra liberalismo e socialismo è visto da Rosselli storicamente: il liberalismo è  stato certamente un movimento di liberazione dell’uomo. Il socialismo, correttamente inteso, è la naturale continuazione di questo movimento di liberazione, nel senso che partendo dalla liberazione dell’individuo rispetto allo Stato tende alla liberazione dell’uomo rispetto a tutti gli altri condizionamenti  che provengono dalla società, specie nella sfera economica.” [23].
Quando ci si domanda a quali esiti sarebbe giunta la Primavera di Praga [24] qualora essa avesse potuto continuare il suo corso, penso che non si vada lontano dal vero se si risponde che sarebbe approdata a un tipo di sistema sociale quale venne prefigurato nella nostra Costituzione, a quella saldatura tra socialismo e libertà che è l’anima stessa della Costituzione del 1948, un testo che ormai è ampiamente disatteso anche nelle parti non espressamente modificate.
Inutili sono tutte le considerazioni sulla non riformabilità del sistema sovietico e quindi sulla illusorietà degli esperimenti di Dubček e di Gorbačëv (anche quest’ultimo interrotto da un intervento militare). Non v’è dubbio che il loro iniziale intendimento sia stato quello di rigenerare il sistema in cui avevano creduto, sulla base di un ipotetico ritorno alle origini, al leninismo e al marxismo non dogmatico, ma proprio perché non esistono “terze vie” la loro iniziativa politica avrebbe portato inevitabilmente alla democrazia, ma a quale democrazia? Non a quella che banalmente scambiamo spesso per generica libertà.
“Nelle sue intenzioni, scrive Erazim V. Kohák [25], la primavera cecoslovacca era certo innanzitutto un tentativo nazionale di rinascita sociale. In Cecoslovacchia nel ’68 non si ribellarono i ‘capelloni’ contro l’establishment e neppure l’autorità locale contro la potenza colonialista. Si trattò veramente di un tentativo per una rinascita democratica della vita sociale e statale. Questo è chiaro anche a un’indagine storica meramente empirica.” [26].
Si trattava di ricollocare al centro dell’ordinamento statale valori analoghi a quelli per i quali aveva combattuto la Resistenza italiana. Lì vi era la tradizione filosofica ceca della humanitas, della “coscienza dell’esistenza di un ordine morale del mondo” [27], che si riallacciava a Jan Hus, Comenio, T.G. Masaryk, in contrapposizione all’umanesimo rinascimentale. Qui da noi si saldavano le istanze della cultura laica di stampo liberale e socialista e del partito d’azione con il solidarismo cristiano. Certamente in entrambi i Paesi vi era una componente comunista molto forte, che però in Cecoslovacchia aveva capito in larga parte la crisi profonda del sistema sovietico e cercava di depurare l’ideologia della sua componente di violenza, di coercizione. “Il potere non è concesso dal popolo una volta per tutte, affermava Alexander Dubček al Plenum del Comitato centrale nell’aprile di quell’anno, né ai singoli, né alle organizzazioni di partito, né al partito in quanto tale. Esso si deve continuamente conquistare e consolidare in forme nuove in base ai risultati del lavoro. Il partito e i suoi membri devono stare alla testa dello sviluppo progressivo, guidare e trascinare le altre masse di lavoratori all’assolvimento dei loro compiti.” [28].
Pur riaffermando la centralità del partito egli riconosceva la necessità che esso si mettesse in gioco nella società e quindi si aprisse a un confronto con le sue varie componenti e in ultima analisi anche con altre forze politiche che inevitabilmente sarebbero emerse. In Italia, sul piano ideale e normativo costituzionale, un ruolo centrale ebbe per i comunisti la lezione gramsciana.
Quando un esponente di governo ha provocatoriamente proposto di sostituire la parola “lavoro” nell’articolo 1 della Costituzione con “merito” o “competizione”, Gustavo Zagrebelsky ha opportunamente risposto citando la motivazione espressa all’epoca da Amintore Fanfani, a nome di altri costituenti, a favore della formulazione adottata: “dicendo che la repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio […], sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale.” (seduta pomeridiana del 22 marzo 1947). L’ex presidente della Corte Costituzionale osservava dal canto suo che le ragioni di quella scelta sono più attuali che mai in un periodo in cui le speculazioni finanziarie si fondano sulla fatica altrui, la disoccupazione è crescente, il lavoro diventa appannaggio dei più ricchi e dei più forti [29].
L’articolo 3 al secondo comma parla espressamente di “libertà e uguaglianza” e stabilisce che è compito  della Repubblica “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”. L’articolo 2 richiama “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. L’articolo 41, quello che ora si vorrebbe cambiare, nel riconoscere la libertà d’iniziativa economica la sottopone a precise condizioni. Essa non può dispiegarsi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Stabilisce inoltre che si debbano approntare “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. L’articolo 42 prevede limiti alla proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e l’esproprio, salvo indennizzo, “per motivi d’interesse generale”. Negli articoli successivi si riconoscono: il diritto di esproprio “di determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, la possibilità di imporre “obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata”, “la funzione sociale della cooperazione” e  “il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”, vale a dire la cogestione nei luoghi di lavoro.
A ragione il procuratore Roberto Scarpinato ricorda su “MicroMega”  “che [la Costituzione], per unanime riconoscimento internazionale, costituisce uno dei massimi vertici della cultura europea dello Stato democratico di diritto” e mette poi in evidenza come già subito negli anni ’50 si sia sviluppata tutta un’azione volta a depotenziarla, a cominciare dalle sentenze della Cassazione “che qualificarono le norme costituzionali meramente programmatiche e non precettive (cioè non vincolanti).” [30].
Il sistema economico e politico cecoslovacco del ’68 si stava avviando proprio nella direzione prospettata dai padri costituenti italiani. Il saggio di Jiří Kosta, Storia e contenuti della riforma economica cecoslovacca negli anni 1965-1969 indica chiaramente gli obiettivi ai quali il “nuovo corso” tendeva:
“- una pianificazione a grandi linee (invece che particolareggiata) dell’economia nazionale;
- un meccanismo di mercato regolato (cioè coordinato soprattutto dalla politica economica statale);
-  la partecipazione democratica dei cittadini alle decisioni sui problemi economici (soprattutto mediante la creazione dei consigli d’impresa dei lavoratori).” [31].
Era in larga misura la politica economica che i grandi Paesi dell’Occidente avevano attivato nell’immediato secondo dopoguerra. Quanto per es. alla pianificazione orientativa macroeconomica si tratta di uno strumento utilizzato per molti anni dalla Francia attraverso quell’Ufficio per la Pianificazione di cui Jean Monnet fu il primo coordinatore e che tra gli anni ’40 e ’50 guidò con successo la ricostruzione e la modernizzazione del Paese. Questa esperienza venne espressamente richiamata all’indomani della caduta del Muro, al fine di favorire il graduale passaggio al mercato delle economie dell’ex blocco sovietico, dall’allora segretario di Stato francese al piano Lionel Stoléru in un lungo articolo su “Le Monde”, apparso contemporaneamente sui maggiori quotidiani dell’Europa centrale e orientale [32].
“Quale mercato?” Si domanda l’alto funzionario “ Un mercato organizzato, vale a dire uno spazio economico che obbedisca alle regole del gioco e uno spazio posto sotto il segno della solidarietà. Bruciare lo stato dopo averlo idolatrato, passare da una burocrazia dirigista al liberalismo selvaggio significherebbe cadere da un estremo all’altro, mentre tutte le esperienze occidentali, e specialmente quella francese, mostrano il bisogno di umanizzare il mercato dandogli una dimensione sociale e riconoscendo allo stato il ruolo di arbitro.” [33]
Le simpatie di Willy Brandt per la Primavera cecoslovacca e le analogie tra i suoi contenuti programmatici e la politica della socialdemocrazia tedesca, messe in rilievo nel successivo saggio di Bernardini, mostrano d’altro canto le affinità del “nuovo corso” praghese con le più avanzate esperienze delle democrazie europee.
Anche il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi nel valutare i cambiamenti in atto  dopo l’89 invitava a non creare nuovi modelli di vita che fossero “la trasposizione meccanica di realtà esterne”, ma di tener conto della centralità dell’uomo e della società civile [34].
La necessità di non lasciarsi guidare da una cieca fiducia nel “mercato” era ben argomentata dall’economista – filosofo Amartya Sen nella risposta a Paolo Savona su “La Stampa” del 22 giugno 1990. Da parte sua John Kenneth Galbraith nel saggio intitolato provocatoriamente I teologi del mercato [35]affermava doversi escludere l’introduzione di un capitalismo duro e puro nei Paesi liberati dal comunismo, esperienza che nemmeno l’Occidente aveva conosciuto, dove anzi il capitalismo era riuscito a sopravvivere proprio grazie al welfare state, e ammoniva “sarebbe certamente tragico se la conquista della libertà politica coincidesse con inaccettabili  privazioni economiche”.
E’ invece avvenuto proprio quello che era stato sconsigliato con le conseguenze che erano state paventate, vale a dire si è realizzato il passaggio a un crudo liberismo che ha causato la pauperizzazione di masse crescenti di popolazione e la concentrazione della ricchezza in ristretti settori di attività [36].
Questi  fenomeni si sono poi manifestati in modo acuto anche in Occidente e nel resto del mondo in quanto ha prevalso ovunque la stessa logica, mentre a Est la corruzione dilagante ha portato in particolare a identificare con essa la sedicente democrazia instauratasi dopo la caduta del sistema sovietico.
Alla fine della sua dettagliata ricerca su “Società, politica e partiti nell’Europa post comunista” (sottotitolo del volume L’Europa unita … dall’antipolitica [37]) Fabio Bordignon deve constatare che “il giudizio dei cittadini verso i leader politici è fortemente negativo, l’atteggiamento nei confronti dei partiti segnato da grande distacco. Più di otto persone su dieci ritengono che la maggior parte dei politici sia interessata solamente ai soldi e al potere, e che solo una ristretta minoranza sia capace di governare nell’interesse del paese.” [38].
L’Autore non manca di osservare come questo carattere di sospetto e di disincanto nei confronti del ceto politico sia ormai generalizzato in tutta Europa e ricorda come il termine "antipolitica” ora indicato per definire questa situazione di rifiuto fosse stato adoperato dai dissidenti cecoslovacchi di Charta 77 per sostenere la loro posizione alternativa rispetto  alla dittatura. Qui non si trattava però solo di indicare un disagio ma di affermare un orientamento combattivo e propositivo. L’intenzione, ben espressa soprattutto da Václav Havel nel suo classico Il potere dei senza potere [39], era di promuovere una “rivoluzione esistenziale” fondata sulla vita nella verità, una vita cioè in cui il singolo, a partire da un comportamento personale, da una decisione autonoma, abbatta in modo immediato il velo dell’apparenza e dell’ipocrisia che gli sta attorno e costituisca una messa in discussione dell’ambiente circostante. Su questa base egli prospettava la costruzione di strutture di “auto – organizzazione” sociale capaci di creare una vera e propria “polis parallela” e di prefigurare un sistema post-democratico [40].
Quando, a proposito di questo movimento, si sostiene semplicisticamente che esso avesse solo come scopo il rispetto dei “diritti umani”, si dimentica tutto lo spessore di elaborazione culturale in chiave non solo antitotalitaria ma anche  di critica nei confronti del mondo occidentale. Havel, prima di parlare della sua “rivoluzione” e della ricostituzione morale della società, aveva affermato: “Sarebbe però, a mio parere, miope puntare sulla democrazia parlamentare tradizionale come ideale politico e cader vittime dell’illusione che questa forma ‘matura’ possa garantire stabilmente all’uomo una condizione dignitosa e indipendente. Io vedo la sterzata dell’attenzione politica verso l’uomo concreto come qualcosa di sostanzialmente più profondo del semplice volgersi ai meccanismi consueti della democrazia occidentale (o – se volete – borghese).” [41].
Ora il neoliberismo ha di gran lunga peggiorato la condizione delle tradizionali democrazie, ha spazzato via ogni forma di umanesimo e tanto più qualsiasi prospettiva di “socialismo dal volto umano”. Si è affermato il ” liberalismo dal volto disumano” [42], un “Biafra dello spirito” [43], al quale si sta aggiungendo un “Biafra materiale”, con il progressivo scivolamento delle classi medie verso la povertà. La sola risposta non può che essere l’”antipolitica” di Charta 77, al  di là della parabola personale di Havel [44].
Su questa linea di alternativa sociale si stanno organizzando i vasti movimenti popolari  e giovanili che si autoconvocano nelle piazze europee, e di altre parti del mondo. Essi ricordano le vaste mobilitazioni che ebbero luogo nel 1989 all’interno del blocco sovietico e che portarono alla caduta del Muro di Berlino e alla fine di un sistema dalle contraddizioni macroscopiche, non dissimili da quelle presenti  ora nel sistema neoliberista.
Allora, nella Ddr la popolazione gridava “Wir sind das Volk” (Il popolo siamo noi), in contrapposizione a governi che ormai non rappresentavano più nessuno. Ora il “Movimento 99%” si scaglia contro quell’1% che detiene il potere economico e finanziario. [45]
In tale contesto il fallimento di “questa” Unione Europea è evidente. Ben altri erano i presupposti ideali che erano stati alla base del progetto politico volto a creare una entità sopranazionale a livello continentale secondo le formulazioni di Altiero Spinelli [46] e di Ernesto Rossi [47].
Fa quasi tenerezza rileggere, a dieci anni di distanza e alla luce di tutto ciò che è accaduto, il discorso pronunciato da Romano Prodi, in qualità di presidente della Commissione europea davanti al parlamento di Strasburgo il 15 febbraio 2000, con cui intendeva rilanciare in maniera decisa l’iniziativa e il ruolo dell’Unione e raccogliere le sfide sul piano interno e internazionale. Nello stesso tempo si resta turbati dalla distanza abissale tra quei propositi e la situazione presente. Date le condizioni economiche favorevoli di allora egli sostiene la necessità “di una crescita vigorosa e sostenuta per sconfiggere la disoccupazione e l’esclusione sociale”, in un contesto “che deve riconoscere, sistematicamente e giorno per giorno, il primato della dignità umana”. Sottolinea che “l’Europa deve proiettare il suo modello di società nel mondo. Noi non siamo qui semplicemente per difendere i nostri interessi, noi abbiamo un’esperienza storica unica da offrire. L’esperienza di un popolo liberato dalla povertà e dalla guerra, dall’oppressione e dall’intolleranza Abbiamo forgiato un modello di sviluppo e di integrazione continentale ispirato ai principi della democrazia, della libertà e della solidarietà. (…) Dobbiamo puntare a diventare una potenza civile globale al servizio dello sviluppo globale sostenibile.” [48].
Sembra di rievocare un piacevole sogno. Eppure è vero, in Europa già negli anni ’40 si era sviluppato un formidabile pensiero egalitario e progressista. Basterebbe riandare, come è stato fatto di recente ripubblicando i suoi scritti del periodo 1942-45, alle proposte di riforma sociale espresse da William Beveridge con ferrea precisione e convincente esposizione. Personalità di grande rigore intellettuale, liberale radicale, presenta il suo famoso “Piano” con lo scopo diretto e immediato “di abolire il bisogno, assicurando a qualsiasi momento della vita a ogni cittadino che voglia lavorare in misura della propria capacità, un reddito sufficiente per far fronte alle responsabilità che gli incombono.” [49].
Il suo discorso di Glasgow del dicembre 1944 s’intitola “Guerra a sei mali non necessari”. Alcuni di essi “non sono assolutamente necessari e devono scomparire: indigenza, squallore, inattività forzata a causa della disoccupazione, guerra.” Due “devono essere limitati in maniera drastica” vale a dire: malattia e ignoranza.
Si tratta, a suo parere di  “inutili vergogne” [50].
Ma queste“inutili vergogne” si stanno perpetuando ancora oggi proprio all’interno dell’Unione. Essa stessa infatti, nella sua struttura politico - burocratica, si è allineata all’ideologia neoliberista, che, come s’è detto, sta mettendo in crisi gli stati tradizionali e al contempo sta determinando una netta frattura tra i Paesi mediterranei e l’area attorno alla Germania.
Dalla società duale (tra privilegio ed emarginazione) siamo passati all’Europa duale e in entrambi i casi la divaricazione va allargandosi. “Se l’Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?” Si domanda Lucio Caracciolo nel suo dialogo con Enrico Letta [51] .
In effetti si deve constatare come “l’ultimo decennio [abbia] appiattito la politica dell’Unione Europea al potere dei centri finanziari e del sistema dell’euro gestito dalla  Bce. L’Ue assomiglia sempre più agli Stati Uniti, dove gruppi finanziari e militari di potere sono in grado di assumere la governance dell’intero sistema.” [52].
Su questa base si sta sferrando un attacco frontale al welfare state e ai diritti sociali distruggendo proprio quella “esperienza storica unica” che secondo l’allora presidente della Commissione avrebbe dovuto costituire il punto di forza e il motivo centrale di una rinnovata presenza dell’Europa nel mondo.
Nello stesso discorso egli affrontava il problema dell’allargamento ad Est che, a suo avviso, imponeva la “sfida a ripensare da capo il nostro modo di fare Europa”. Essa sarebbe dovuta diventare “giusta, umana e aperta a tutti, senza esclusioni”. Da parte sua il commissario per le politiche regionali Michel Barnier  parlando qualche mese prima all’Università di Lovanio, nell’ambito di una conferenza intergovernativa organizzata proprio ai fini dell’allargamento, aveva dichiarato che stava predisponendo, su preciso compito assegnatogli dal presidente Prodi, “gli strumenti giuridici e finanziari dell’Unione per mantenere la coesione economica e sociale di un’Europa diversificata.(…) L’unità non è l’uniformità, l’unità è fare in modo che non ci sia un’Europa a due velocità e ancora meno un’Europa dai bei quartieri all’Ovest e un’Europa dalle periferie povere all’Est, condannata a vedere emigrare i suoi figli, anziché poter trovare da loro, vale a dire accanto a noi, la felicità o un futuro desiderabile.” [53].
Riecheggiano in queste considerazioni le idee e le prospettive che il fondatore della Cecoslovacchia T. G. Masaryk auspicava trovassero presto attuazione dopo quella che sembrava essere stata una irripetibile catastrofe e che egli esponeva nel volume programmatico La Nuova Europa. Il punto di vista slavo [1918] [54].
La realtà attuale, come s’è visto, è di tutt’altro segno. L’unico concreto risultato è finora l’euro, messo però in pericolo dalla riluttanza dei Paesi forti ad intervenire a favore di quelli dissestati. Si aprono quindi scenari inquietanti sul piano sociale e in campo economico mentre nell’ambito geopolitico  si propongono nuovi allargamenti (Turchia, Russia). Ma dove potrà andare questa Unione sconnessa e squilibrata, sempre più aggredita dalle povertà, provenienti anche dall’altra sponda del Mediterraneo. Dopo due conflitti mondiali che hanno avuto come epicentro l’Europa e una “guerra fredda” che ha spaccato il Continente, il destino degli europei resta ancora incerto e nebuloso. Appare come una speranza il programma del nuovo presidente francese François Hollande che  ritorna a mettere al centro dell’azione di governo  liberté, égalité, fraternité.

ShinyStat
9 maggio 2012

[1] Una versione di questo saggio è apparsa nel volume collettaneo L’Europa del disincanto. Dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo (a cura di F. Leoncini), Rubbettino,  Soveria Mannelli 2011. Altri contributi sono di: G. Goisis, Un crudele rimpianto. Riflessioni dai territori della Ostalgia, G. Bernardini, Un’Europa a misura d’uomo: Primavera di Praga e Ostpolitik, A. Griffante, Un passato troppo presente: Stato e identità politica nella Lituania post comunista, A. Tronchin, L’89 cecoslovacco, tra storia e memoria, G. Fusi, Dal “socialismo di Stato” alla trasformazione neocapitalista:il caso ceco, S. Lusa,  La Slovenia vent’anni dopo. Uno sguardo retrospettivo e il ritorno del partigiano, G. Wapler, L’unificazione dimezzata, M. Armellini, L’Europa del futuro sarà Eurussia o non sarà. Le occasioni mancate del ’68 e dell’89, V. Lomellini,  I comunisti italiani e la “rinascita” di Dubček. Una reciproca opportunità, M. Campagnolo Bouvier, La Société Européenne de Culture:60 anni di costante impegno attraverso le diverse stagioni.
[2] Cfr. il dossier Le estreme destre alla riscossa, in “Le Monde diplomatique” (ed. it.), gennaio 2011, pp. 15-18.
[3] Cfr. “la Repubblica”, 21 settembre 2010, p.18. Su quest’ultima formazione politica cfr. L. Kornitzer, “Ihr Programm heiβt Destruktivität”. Über Ungarns Rechte und die politische Kultur [“Il loro programma è la distruzione”. Sulla Destra dell’Ungheria e la cultura politica], in: “Osteuropa”, 60(2010)6, pp. 19-30.
[4] Cfr. “Le Monde”, 8 ottobre 2010, p.9.
[5] Su questa linea stanno attivamente operando i movimenti autonomisti e secessionisti del Nord Italia. Il cosiddetto “federalismo fiscale” rappresenta solo un paravento per una progressiva azione di distacco dal Sud. Il generale processo di disgregazione ha come conseguenza sul piano geopolitico il rafforzamento della  Germania, che lo sta anzi sostanzialmente favorendo. In tal modo  essa ha assunto un ruolo egemone in Europa centrale e ripreso il disegno strategico, già delineatosi agli inizi del’900, della  Mitteleuropa a guida tedesca, comprensiva anche dell’Italia settentrionale. Su questa problematica cfr. P. Hillard, La décomposition des nations européennes. De l’union euro-Atlantique à l’État mondial, F.-X de Guibert, Paris 2010.
[6] Già presidente della Commissione Affari Esteri dell’Assemblea nazionale francese.
[7] “E Dio creò la globalizzazione”, in “Le Monde diplomatique” (ed. it.), novembre 2004, p.2.
[8] Z. Bauman – K. Tester, Società, etica, politica. Conversazioni con Zygmunt Bauman, Raffaello Cortina,  Milano 2002, p.145.
[9] R. Dahrendorf, Libertà attiva. Sei lezioni su un mondo instabile, Laterza, Roma – Bari  2005, p. 113.
[10] P. Bourdieu, L’essenza del neoliberismo, in “Le Monde diplomatique
”(ed. it.), marzo 1998, p.3. Cfr. ora, con particolare riferimento all’Italia: P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma – Bari  2011.
[11] Citato in:  Z. Bauman, Società cit.., p.158.
[12] M. Nass, Chinas Vorbild: China [Il modello della Cina: la Cina] , in “Die Zeit”, n. 29, 15 luglio 2010, p.6.
[13] Th. Fischermann, A. Köckritz, F. Sieren, China übernimmt [La Cina rileva], pp. 19 – 20. F. Sieren, Die Macht des hungrigen Riesen [La forza del gigante affamato], p. 20.
[14] “Cinquecento milioni di migranti dalle zone rurali soffrono di
 ‘sradicamento’, seicento milioni di residenti metropolitani di ‘solitudine’, settecento milioni di anziani di ‘abbandono e assenza di assistenza medica’, trecento milioni di studenti di ‘ansia da prestazione e paura della disoccupazione’, quattrocento milioni di operai di ‘espulsione dalla famiglia e trattamento disumano’ “. Pechino, ricchi e infelici, p. 30.
[15] F. Rampini, Buruma:”Così il sorpasso cinese indebolisce le nostre democrazie”, in: “la Repubblica”, 19 febbraio 2010, p.44. Dell’attrazione della Cina come esempio di “Stato che funziona” e della sua progressiva affermazione in termini egemonici a livello mondiale Rampini tratta ampiamente nel volume Occidente estremo. Il nostro futuro tra l’ascesa dell’impero cinese e il declino della potenza americana, Mondadori, Milano 2010.
[16] R. Dahrendorf, Libertà,cit., p. 112.
[17] M.L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Laterza , Roma - Bari 2009.
[18] Cfr. Brutalità della polizia in Europa, in: Speak Truth to Power:
 Coraggio senza confini, Robert F. Kennedy Foundation of Europe, Roma  2010, p. 40.
[19] Cfr. D. Linhart, “Métro, boulot, tombeau” in “Le Monde diplomatique” (ed. it.), novembre 2010, p. 15.
[20] Cfr. A. Fichter, Die Angst der Kriesenkinder [L’angoscia dei figli della crisi], in “Süddeutsche Zeitung”, 12 agosto 2010, p. 22.
[21] Z. Bauman, Società,cit., pp. 159 e  161-162.
[22] N. Bobbio, La responsabilità degli intellettuali, in “La Stampa”, 12 aprile 1998, pp. 1/8.
[23] N. Bobbio, Il fascino perenne del socialismo liberale, in “La Stampa”, 9 ottobre 2005, p.25. Cfr. più in generale: N. Tranfaglia, Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2010.
[24] Cfr. a questo proposito il volume Alexander Dubček e Jan Palach.
Protagonisti della storia europea (a cura di F. Leoncini),  Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.
[25] Già membro della socialdemocrazia cecoslovacca in esilio, ritornato in patria nel ’68, nuovamente emigrato, ancora oggi autorevole analista e commentatore.
[26] Cfr, E.V. Kohák, Il significato filosofico della “Primavera di Praga”, in: F. Leoncini (a cura di), Che cosa fu la “Primavera di Praga”? Idee e progetti di una riforma politica e sociale,  Cafoscarina, Venezia 2007, p. 99.
[27] E.V. Kohák, Il significato, cit., p.107.
[28] A. Dubček, Discorso al Plenum del Cc del partito comunista cecoslovacco dell’aprile 1968, in: A. Dubček, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 56. Cfr. pure: F. Leoncini, L’opposizione all’Est. Raccolta di testi con introduzione e bibliografia,  Cafoscarina, Venezia 2007, p. 102.
[29] G. Zagrebelsky, Perché la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, in “Il venerdì di Repubblica”, 12 marzo 2010, p. 163.
[30] R. Scarpinato, Don Rodrigo e la Costituzione, in “MicroMega”, (2010) 5, pp. 95 e 97.
[31] In: F. Leoncini (a cura di), Che cosa fu, cit., p.48.
[32] Un plan Monnet pour l’Est [Un piano Monnet per l’Est], in “Le Monde”, 16 febbraio 1990, pp. 1-2.
[33] Ivi, p.2.
[34] 96° Assemblea della Banca d’Italia, “Considerazioni finali del Governatore Carlo Azeglio Ciampi”, in “Il Sole 24 ore”, 1 giugno 1990, supplemento.
[35] In “Lettera internazionale”, n. 24/1990, ripubblicato dalla stessa rivista nel decennale della sua nascita, n. 39-40/1994. La citazione a p. 73 di quest’ultimo numero.
[36] A ciò si aggiunga la dipendenza delle economie di questi Paesi dagli interessi occidentali. “Nella divisione internazionale del lavoro, scrive Justyna Schulz, la Polonia e gli altri Paesi dell’Europa centro-orientale sono in primo luogo un mercato di esportazione e una riserva di manodopera a basso costo, poiché manca il capitale per uno sviluppo autonomo”. Cfr. J. Schulz, Peripherer Kapitalismus. Polens Abhängigkeit von Kapitalimporten [Capitalismo periferico. La dipendenza della Polonia dai capitali stranieri], in “Osteuropa”, 60(2010)6, pp. 47-59. Qui p. 47.
[37]  Liguori, Napoli 2009.
[38]  Ivi, p. 166. Cfr. pure: S. Zizek, Derrière le Mur, les peuples ne rêvaient pas de capitalisme [Dietro il Muro i popoli non sognavano il capitalismo], in “Le Monde”, 8 novembre 2009.
[39] I edizione, Bologna: CSEO, 1979; II edizione, Garzanti, Milano 1991.
[40] II edizione, pp. 98-103.
[41] Ivi, p. 97.
[42] “L’ideologia neoliberale non è una continuazione alla nostra epoca della dottrina politica liberale: per molti aspetti ne rappresenta una perversione. (…) Inesauribile nella sua vocazione puntigliosamente totalitaria” (L. Gallino, Perversione e totalitarismo dell’ideologia neoliberista, in: “MicroMega”, (2010)5, pp. 135 - 140, qui p.139.
[43] Louis Aragon aveva così definito la “normalizzazione” in Cecoslovacchia dopo il ’68. Nella conclusione alla sua recensione del provocatorio volume di Paola Mastrocola sulla scuola italiana Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Milano:Guanda, 2011, Pietro Citati osserva: “In questi anni di presunte riforme, non assistiamo soltanto al disastro (certo più grave) della scuola italiana, ma a quello di tutta la scuola occidentale (…) Un tempo l’Occidente era il luogo  dell’esperienza e dell’avventura. Oggi siamo diventati quello del niente e del vuoto.”  Perché ormai i nostri ragazzi pensano che studiare sia inutile, in “la Repubblica”, 9 febbraio 2011,  pp. 1/60-61, qui p. 61.
[44]  Partendo da una posizione puramente morale e individualistica ai fini del cambiamento politico e in assenza di  un’analisi critica del sistema di mercato, Havel finisce per identificare, dopo l’89, la democrazia con il rispetto della libertà d’iniziativa e il compito del governo con la creazione delle condizioni atte al pieno dispiegamento delle forze economiche. Di conseguenza abbandona la tradizione umanistica ceca dalla quale aveva tratto originariamente ispirazione e aderisce, dalla  metà degli anni ’90, all’ideologia neocapitalista. Cfr. M. L. Neudorfl, Václav Havel and the Ideal of Democracy, in: S.J. Kirschbaum (a cura di), Historical Reflections on Central Europe, London – New York: Macmillan – St. Martin’s Press, 1999, pp.  116-137. Più ampiamente cfr. J. Keane, Václav Havel. A Political Tragedy in Six Acts, London: Bloomsbury , 1999.
[45] Cfr. R. Staglianò, Occupy Wall Street, Chiarelettere, Milano 2012.
[46] Cfr. A. Spinelli, La crisi degli stati nazionali. Germania, Italia, Francia, a cura di L. Levi, il Mulino, Bologna 1991.
[47]  A. Amato, Ernesto Rossi e il dibattito sul federalismo europeo, in: “L’Acropoli” XI(2010)1, pp. 27 – 38.
[48] Cfr. il testo in “aut aut”, n. 299 – 300 (settembre – dicembre 2000), pp. 9-12, nel dossier dedicato a “L’idea di Europa e le sue retoriche”.Il corsivo è nel testo.
[49] W. Beveridge, La libertà solidale. Scritti 1942 – 1945, a cura di M. Colucci, Donzelli, Roma 2010, p. 56.
[50] Ivi, pp. 141 – 142.
[51] E. Letta – L. Caracciolo, L’Europa è finita? A cura di E. Carlucci, add editore, Torino 2010, p. 110.
[52] B. Amoroso, Il modello non funziona, in “il manifesto”, 5 dicembre 2010, p.1.
[53] Il testo in “aut aut”, 299-300 (2000), pp. 13-17, qui p.16.
[54] Traduzione ed edizione critica a cura di F. Leoncini, Edizioni Studio Tesi, Pordenone – Padova 1997 [ora distribuito dalle Edizioni Mediterranee, Roma].

Il volume di Tomàš Garrigue Masaryk, "La Nuova Europa. Il punto di vista slavo". Si tratta di una tra le più importanti pubblicazioni di Masyaryk che viene tradotta dal prof. Leoncini e pubblicato nel 1997.
Essa, oltre ad essere considerata come una tra le più importanti opere del padre dello "Stato cecoslovacco",  rappresenta  anche il testamento spirituale di Tomàš Garrigue Masaryk.
La libertà delle "piccole nazioni" contrapposta al centralismo delle "vecchie monarchie" e il desiderio di indipendenza dei popoli, letti alla luce della «futura organizzazione federativa dell'Europa su principi democratici», sono i temi di questo libro fondamentale di Masaryk.
Democrazia, libertà e federalismo sono tra le principali chiavi di lettura per l'assetto della "Nuova Europa".
Il messaggio dell'autore va oltre le tensioni del particolare momento storico e costituisce un'autentica profezia proiettata verso il futuro.
Opera di largo respiro, che risente appieno delle nuove idealità scaturite dal conflitto, La Nuova Europa si presenta dunque al lettore quale testo essenziale per la conoscenza dell'Europa nella sua storia e nella sua attualità, sempre in bilico tra spinte federative e pretesi particolarismi.
A riguardo Tomàš Garrigue Masaryk si ricorda che nasce a Hodonin in Moravia nel 1850. Sostenuto negli studi da František Le Monnier, si trasferisce insieme a lui a Vienna, dove prende contatti con gli studenti cechi. Nel 1883 viene nominato docente di filosofia alla nuova università di Praga e successivamente, fonda nella stessa città l'organo di stampa denominato «Athenaeum», assumendone la carica di direttore.
Di seguito, siamo nel 1900, fonda il Partito popolare ceco che in seguito assume direzioni progressiste e nel 1918 viene eletto presidente del nuovo "Stato cecoslovacco". Muore nel 1937.

La pubblicazione del 2003 dal titolo "L'Europa centrale. Conflittualità e progetto. Passato e presente tra Praga, Budapest e Varsavia" rappresenta un insieme di cifre che riguardano gli Stati della Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia e del loro ingresso nell'Unione Europea.
L'autore di tale saggio pone all'attenzione del lettore una serie di interessanti quesiti a riguardo il passato di tali nazioni e quale contributo esse porteranno alla costruzione dell’Europa, quali sono stati gli eventi, le crisi che hanno coinvolto nel secolo scorso non solo questi paesi ma l’intero Continente?
Attraverso una serie di saggi su momenti decisivi del loro sviluppo storico l’Autore avvia un processo di revisione dei giudizi e delle interpretazioni che si sono stratificate nel corso del tempo. La nascita della Germania come stato unitario viene posta a base di un “secolo lungo” che finisce con la riunificazione della stessa.
La caduta della Monarchia asburgica, i problemi della pace e delle minoranze, la formazione della “Nuova Europa” slava, la figura di Tomáš Garrigue Masaryk, la crisi del ’38 e il Patto di Monaco, i movimenti di opposizione ai regimi sovietici e la definitiva scomparsa di questi ultimi con l’89, sono fenomeni visti in termini che evidenziano aspetti inediti e danno stimoli suggestivi per una reinterpretazione della storia europea.
 Il concetto stesso di “Europa centrale” è allargato secondo una prospettiva non più orizzontale, che ricorda molto la Mitteleuropa di stampo germanico, ma verticale, longitudinale, che coinvolge tutti i paesi che vanno dal Baltico all’Egeo e che stanno tra la Germania e la Russia.
 Si tratta nel complesso di saggi che da un lato sono stati obiettivamente precorritori di tematiche divenute di grande attualità dopo il 1989, dall’altro costituiscono pure parametri di confronto per valutare gli attuali sviluppi di una regione che resta a tutt’oggi largamente estranea all’indagine storiografica italiana.

La pubblicazione del 2007 dal titolo "L'opposizione all'Est 1956-1981" analizza i vari movimenti  del ’56, del ’68 e del 1980-81 dei popoli dell’Europa centrale che hanno dato un contributo originale alla storia europea, si sono inseriti positivamente e in modo autonomo nel processo di rifondazione delle istituzioni democratiche, sono intervenuti sui problemi del rapporto masse-potere, partiti-istituzioni, su quelli  della struttura interna dei partiti, del ruolo degli intellettuali nella società, del rapporto cultura-società, della gestione socialista dell’economia. 
Già tutto questo giustificherebbe una presentazione di quanto è emerso in quelle società nell’arco di venticinque anni di opposizione ai regimi di tipo sovietico, conclusasi con il loro definitivo abbattimento nel 1989.
Ma il volume, che costituisce a tutt’oggi in Italia l’unica raccolta organica di documenti relativi alle idee e alle esperienze che qualificarono quelle straordinarie stagioni politiche, ha l’ambizione di dare ad essi un’interpretazione globalmente inedita.

Vuole cioè porli in relazione con il dibattito da tempo in atto nel nostro Paese e in Europa tra quelle forze che sono impegnate per una riformulazione della democrazia e per porre dei limiti all’ideologia neoliberista e al conseguente capitalismo selvaggio e speculativo, particolarmente devastante proprio in quei Paesi che sono usciti dal dominio sovietico.

Un altro importante quesito all'interno di questo saggio stampato nel 2007 e che da titolo alla pubblicazione in argomento ed il cui titolo è "Che cosa fu la «Primavera di Praga»? - Idee e progetti di una riforma politica e sociale".
Il concetto di "socialismo", inteso come cambiamento dei rapporti di forza all'interno della società a favore delle classi subalterne, è stato espunto dal vocabolario politico contemporaneo.
Esso ha rappresentato per oltre un secolo un segno di speranza per milioni di uomini e donne che vedevano in tale prospettiva la possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e ottenere un peso rilevante nelle scelte politiche troppo spesso appannaggio di gruppi ristretti legati a interessi economici.
Al suo posto si sono affermate concezioni quali il “neoliberismo”, il “monetarismo”, che si impongono come il “pensiero unico” di questa nostra epoca.
Per chi voglia sfuggire a questa nuova dittatura sulle coscienze, la lettura di questo avvincente volume costituisce una boccata di aria pura. Esso raccoglie cinque saggi dei maggiori protagonisti di quella che fu una delle più feconde stagioni politiche del Novecento europeo.

A questi testi si aggiunge una lunga intervista rilasciata dal leader del “nuovo corso” cecoslovacco Alexander Dubček al quotidiano “l’Unità” venti anni dopo quegli eventi e alla vigilia dei cambiamenti radicali avvenuti con la caduta del Muro di Berlino.

Due nomi di notevole importanza non solo della storia cecoslovacca ma dell'interno novecento: Alexander Dubček e Jan Palach, essi non sono espressione di un Paese e di un sistema di governo ormai scompari, ma protagonisti di una stagione che pone innumerevoli interrogativi alla coscienza e alla storiografia europee.
"Alexander Dubček e Jan Palach - protagonisti della storia europea" è il titolo di questa pubblicazione del 2009 che è frutto di diverse testimonianze di autorevoli nomi della cultura e curato da Francesco Leoncini.
Essa costituisce un contributo di peso che da adito a nuove chiavi di lettura alla Primavera praghese sia per l'impalcatura strutturale di tale lavoro che per il volume della documentazione archivistica.
Il volume annovera diversi passaggi di carattere filosofico, sociologico e storico-culturale: cifre queste che danno una lettura di quell'arco di tempo che costituì in quegli otto mesi tutti i passaggi storici, politici, culturali che riguardarono fatti e personaggi del territorio boemo. Il risultato di questo lavoro si estende anche alle posizioni internazionali nei confronti della questione cecoslovacca ed in particolare si pone l'attenzione sulle posizioni del Partito Comunista Italiano.

Questo saggio rappresenta una giusta chiave di lettura di quelle trasformazioni che caratterizzarono l'Europa sia dal punto di vista politico che culturale, come ad esempio tutto ciò che ebbe a riguardare la sfera riformista diretta da Alexander Dubček e, nel contempo, la sua repressione.
Tale situazione andò ad indebolire l'impalcatura del sistema sovietico che, come la storia ricorda, già qualche anno prima, in quel di Budapest, aveva iniziato ad avvertire qualche segno di cedimento sia per quanto riguarda i consensi che per quanto concerne il progetto sovietico "prigioniero" di logiche puramente militari.
Altro aspetto di fondamentale importanza focalizzato in questa pubblicazione riguarda le cause che hanno dato origine allo sfaldamento del blocco sovietico e della Jugoslavia.
Da quanto sopra richiamato, risulta chiaro la nuova ubicazione dell'attuale geopolitica dovuta anche alle cause derivanti dalle tensioni nazionalistiche e non per ordine d'importanza dallo sfaldamento delle fondamenta che reggevano gli Stati oggetto di questa attenta analisi.